Macbeth | Roberto Servile |
Banquo | Orlin Anastassov |
Lady Macbeth | Alessandra Rezza |
Dama | Monica Minarelli |
Macduff | Carlos Ventre |
Medico | Davide Baronchelli |
Malcom | Stefano Pisani |
Maestro Concertatore e Direttore | Gunter Nehuold |
Regia | Riccardo Canessa |
Scene | Poppi Ranchetti |
Coro Master di Piacenza | Corrado Casati |
Orchestra della Fondazione Arturo Toscanini |
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Balletto Accademia di Danza Domenichino Da Piacenza |
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Coreografa | Giuseppina Campolonghi |
Nuovo Allestimento della Fondazione Toscanini di Parma |
Stregati da Macbeth Vigoleno è un piccolissimo borgo medievale che domina, con il suo elegante profilo merlato, un’altura tra le valli dell’Ongina e dello Stirone, sulle colline piacentine, appena oltre il confine con la provincia di Parma. Su un palcoscenico costruito a ridosso delle mura e dominato da un imponente mastio fortificato, da alcune estati la Fondazione Toscanini di Parma organizza parte della sua stagione lirica estiva, che conta anche un’altra suggestiva ambientazione: villa Pallavicino di Busseto. Quest’anno il castello è per Macbeth, il generale di Duncano che ucciderà il proprio re per regnare a sua volta e si macchierà di altri orrendi delitti per assicurarsi il potere che le profetiche streghe, incontrate al ritorno da una battaglia, hanno preannunciato essere destinato alla discendenza di Banquo e non alla sua. La naturale suggestione del luogo è resa più drammatica e profonda dall’allestimento scenico. Alla base dell’alta torre di pietra chiara, troppo bella e serena per essere teatro di un dramma tanto cupo, sono stati costruiti i resti anneriti di un’altro edificio che una serie di passerelle scheletriche collega ai bastioni. Durante il preludio rossi bagliori proiettati sul mastio raccontano di un incendio. Macbeth è un valoroso: lo dimostrano i resti del suo castello, inutilmente attaccato dai nemici. Più in là nella vicenda queste rovine diventeranno la rappresentazione della distruzione morale e fisica della coppia di sanguinari che nel castello vive. George Orwell, in una sua famosa lettura del dramma scespiriano, dice che questa vicenda è universale in quanto si basa sul presupposto sempre attuale che sia possibile commettere un delitto per una sola volta e poi ritornare quelli che si era prima. Ma niente che nasca da un crimine può mantenersi senza altri crimini. "Pien di misfatti è il calle delle potenza". La scena che inizia con "Tutto è finito" – Macbeth esce con il pugnale insanguinato dalla stanza dove ha appena assassinato il re – rappresenta efficacemente questo concetto: il movimento dei due complici, che si inseguono l’un l’altro, parte dall’alto della torre maestra e disegna, su passerelle macchiate di luce rosso cupo, un percorso a spirale inesorabilmente in discesa. "Nuovo delitto…è necessario!" dirà tra poco Lady. E di delitto in delitto, lei che aveva evocato le forze del male per "accendere il freddo core" del marito si sgretola vegliando, allucinata, lassù tra i merli del castello: "Chi poteva in un vegliardo tanto sangue immaginar". Lui invece rimane lucido fino alla fine quasi che ogni assassinio rafforzi le sue certezze. Le streghe gli hanno detto che nessun nato di donna potrà ucciderlo e che il suo potere durerà finchè non vedrà la foresta di Birnam muoversi contro di lui. Le foreste non si muovono, ma uomini coperti di fronde che escono dalla foresta sì, e il suo uccisore non è nato, ma è stato strappato dal ventre materno. Dalle file degli eserciti che si scontrano escono duellando Macduff e Macbeth che con un colpo ben assestato disarma il rivale, ma – il destino beffardo deve compiersi – le streghe, materializzatesi alle sue spalle, gli tolgono la spada. Macduff, incredulo, recupera la sua arma e assesta il colpo mortale. Mentre i vincitori cantano il loro inni, Macbeth, inghiottito dalle forze del male, sparisce nel nulla: "Dov’è l’usurpator?" Questo intervento finale delle streghe, raffigurate dal regista Riccardo Canessa come entità maligne che infestano il castello di Macbeth e sono presenti in ogni punto nodale della trama, conferisce alla vicenda una straordinaria profondità. Scriveva Verdi ad Escudier prima dell’esecuzione parigina del 1865: "Le Streghe dominano il dramma: tutto deriva da loro" ed è noto con quanta insistenza si era occupato, in occasione della prima di Firenze, di supportare con i più moderni mezzi a disposizione, la parte "fantasmagorica" dell’opera, per far sì che la sua trasposizione rispettasse lo spirito del dramma originale in anni in cui, dalla letteratura europea, giungevano segnali lontanissimi dalla nostra tradizione culturale. Con l’intervento di otto bravissime ballerine che strisciano, si insinuano, si materializzano repentine per poi sparire diventando quasi elementi della scena e delle ragazze del Coro Master di Piacenza, efficacissime a trovare il colore vocale - ora petulante e sgradevole ora sublime - ma anche perfette scenicamente, il dettato verdiano, aiutato dalla suggestiva ambientazione di un castello notturno, si realizza quasi magicamente, ammaliando, è il caso di dire, il pubblico da tutto esaurito della prima. Macbeth è Roberto Servile che riprende questo personaggio dopo una pausa di otto anni, arrivando direttamente dal Marin Faliero veneziano. Fondamentali per chi deve interpretare questo ruolo, le indicazioni verdiane al baritono Varesi, primo interprete di questo personaggio. "Bada che è notte, tutti dormono: tutto questo duetto dovrà esser detto sottovoce, ma con voce cupa, da incutere terrore...". Servile lavora molto per trovare il giusto accento nei declamati e nelle frasi spezzate sull’orlo dell’angoscia. Ci riesce spesso, trattenendo intelligentemente la voglia di cantare fino ad un bellissimo "Pietà, rispetto, amore" interpretato senza patetismo, ma con consapevolezza, quasi a dire: - Ho fatto le mie scelte, non mi illudo, questo è quello che mi spetta -. La sua implacabile compagna è Alessandra Rezza. Il ruolo le piace, gioca anche un po’, fuori scena, a fare la dark lady e, forse per questo, nella parte entra benissimo. Qui il palcoscenico è molto vicino alla platea e così spesso succede che si vedano perfettamente le espressioni dei visi. Il suo a volte è straordinariamente efficace perché la faccia, quando non guarda Macbeth, esprime esattamente il contrario di quello che dicono le parole. Con la sua vocalità, dirompente sui centrali e facile all’acuto, costruisce un personaggio fortissimo che disgrega, cesellando abilmente suoni e movenze autistiche, nella scena del sonnambulismo, che la vede camminare lentamente, come un bianco fantasma, sui veri spalti del castello. Una scena da brividi. Un altro colpo di teatro è il modo in cui vengono risolti l’omicidio e la successiva apparizione di Banquo, interpretato dal giovane e bravissimo basso bulgaro Orlin Anastassov: figura imponente, occhi di ghiaccio, voce importante, l’uomo perfetto per questo ruolo. Dopo che lui cade sotto i colpi dei sicari, un gruppo di streghe, nascoste in un anfratto lì vicino, ricopre il cadavere con un velo di materia simile a quella del fondo del palcoscenico, facendolo sparire. Quando, durante il banchetto, Macbeth si avvicina a quel tumulo di rovine, le streghe, maligne, in agguato, tolgono il velo e scoprono Banquo che con la mano protesa verso di lui, accusa il suo uccisore. L’eroico Macduff che ridona il trono al figlio di Duncano, è il tenore Carlos Ventre. Non convince perfettamente perché manca un po’ di determinazione nella scena della scoperta dell’uccisione del re e, soprattutto, non domina benissimo l’attesa romanza "La paterna mano" che risulta un po’ generica. Di lusso, al contrario, la Dama di Monica Minarelli ed il Medico di Davide Baronchelli. Gunter Neuhold dirige l’Orchestra Arturo Toscanini secondo un paradigma che enuncia sorridendo sornione: "Macbeth è un’opera facile, basta fare tutto quello che è scritto". Cerca la stringatezza che caratterizza questa partitura verdiana pretendendo l’assoluto rispetto dei valori, perché questa musica deve essere tutt’uno con il declamato sconvolto che accompagna, e dilata al massimo i rari squarci emotivi che la partitura concede. Ne scaturisce una lettura corrusca che non cerca di nascondere le contraddizioni di quest’opera, scritta da Verdi a 34 anni e ripresa a 55, "Ahimè, alla lettura di questa musica sono stato colpito da cose che non avrei voluto trovarvi" - scrive l’autore nel 1864 -, ma che, esaltandole, ne sottolinea il fascino solitario.
Patrizia Monteverdi