Poppea | Jeanine De Bique |
Nerone | Valer Sabadus |
Ottone | Reginald Mobley |
Drusilla | Núria Rial |
Ottavia La Virtù |
Luciana Mancini |
Arnalta La Nutrice |
Stuart Patterson |
Seneca | Gianluca Buratto |
Un soldato Lucano Un familiare Un console |
Thomas Walker |
Un soldato Un liberto Un familiare Un console |
Francisco Fernández-Rueda |
Un familiare Un littore Un tribuno |
Peter Harvey |
La Fortuna Una damigella Venere |
Silvia Frigato |
Un valletto Amore |
Jakob Geppert |
Direttore | Iván Fischer |
Regia | Iván Fischer e Marco Gandini |
Assistente alla regia | Hannah Gelesz |
Costumi | Anna Biagiotti |
Scenografia | Andrea Tocchio |
Light designer | Tamás Bányai |
Budapest Festival Orchestra su strumenti storici |
Un anno fa, il Vicenza Opera Festival riusciva ad andare in scena per un solo spettacolo prima che la mannaia della chiusura si abbattesse sulle sale teatrali. Ora fa proprio bene al cuore rivedere il Teatro Olimpico stipato di spettatori festanti e divertiti, merito soprattutto di Iván Fischer, che di questa rassegna non è solo direttore artistico ma anche maestro concertatore di entrambi gli eventi in cartellone e regista dell’opera presentata, e ha ideato uno spettacolo che strappa volentieri il sorriso al pubblico.
Certo, si potrebbe obiettare che in fin dei conti ne L’incoronazione di Poppea c’è poco da ridere: la virtù cade sconfitta, con la morte di Seneca, l’esilio di Ottavia, Ottone e Drusilla, mentre i viziosi Nerone e Poppea godono impunemente i loro amori approvati sia in terra dal Senato che in cielo da Venere. Fischer infatti opta per una concertazione languida e sensuale, che riesce a non cadere mai nello stucchevole: per lui (e per Marco Gandini, l’altro regista della produzione) l’Incoronazione è una storia d’amore a lieto fine, con buona pace dei morti e degli esiliati, i quali comunque hanno meritato i loro castighi (Ottavia che macchina con Ottone la morte di Poppea, con la complicità della mica tanto ignara e innocentina Drusilla).
Il lavoro sia musicale che attoriale sui solisti è così curato da essere impercettibile: tanto naturalmente si muovono sul palcoscenico quanto i loro interventi sono finemente curati, ad onta della dizione italiana da perfezionare per gran parte del cast. Non mancano alcune trovate un po’ “peregrine” e fini a sé stesse (il duetto tra Valletto e Damigella con orecchiette e movenze da conigli, Drusilla che viene imprigionata e torturata con strumenti sadomaso) che però non rovinano la buona riuscita e il felice impatto dello spettacolo.
La scenografia di Andrea Tocchio asseconda la visione registica: una sorta di golfo mistico rialzato a ponti e gradinate nel quale i personaggi dialogano a tu per tu con la Budapest Festival Orchestra, i cui membri entrano ed escono in continuazione dalla scena, mentre rimangono onnipresenti Fischer e i maestri al basso continuo. Su questo spazio, alcuni elementi simbolici che non rimandano a un luogo ben definito, come nella tradizione shakesperiana: il balcone e il letto di Poppea, il trono di Nerone e delle sue intercambiabili spose, la vasca in cui Seneca morirà e che diverrà la barca su cui Ottavia partirà in esilio, lo specchio/quadro di Venere.
Funzionali alla regia i variegati costumi di Anna Biagiotti e il disegno luci di Tamás Bányai.
Nel cast internazionale si impone la protagonista, Jeanine De Bique, una Poppea suadente e magnetica. Nonostante qualche asperità legata alla sua pronuncia italiana, la voce è decisamente ammaliante, addirittura sfrontata e provocante nel porgere certe frasi di forte sensualità (“Signor, deh non partir”, “Come dolci, signor”) e di invitanti offerte amorose. La cantante ha il physique du rôle perfetto per la parte: è attrice disinvolta e anche atleta preparata, come testimonia una ruota perfetta eseguita durante “Speranza tu mi vai”.
Nerone è interpretato da un nome conosciuto nel panorama del barocco, Valer Sabadus: il controtenore qui tuttavia si presenta con uno strumento vocale un po’ appannato e poco proiettato, con i gravi e i centri poco incisivi e gli acuti sì luminosi ma quasi sfogati, fin troppo espressivi e marcati per il tessuto musicale monteverdiano.
Anche l’Ottone di Reginald Mobley non manca di destare qualche perplessità: nel suo brano d’esordio “E pur io torno qui” il cantante sembra quasi faticare a trovare il giusto registro vocale, come se stesse interpretando alcune frasi da tenore ed altre da controtenore. Per il resto della recita il suo personaggio manca di mordente, pur distinguendosi per una buona musicalità nel porgere le frasi.
Più centrata la dolente Ottavia di Luciana Mancini, impegnata nel prologo anche come Virtù, che cesella con fraseggio accurato e sentito i tormenti della disprezzata regina, sia nei momenti più patetici sia nel serrato e violento confronto con Ottone.
Mattatore della serata il tenore Stuart Patterson nel duplice ruolo di Arnalta e della Nutrice, attore divertito e divertente e fine interprete: esegue benissimo la celebre ninnananna “Oblivion soave” con un raffinato gioco di mezzevoci e fiati che scatenano l’applauso del pubblico.
Un lusso Núria Rial nella breve ma non secondaria parte di Drusilla affrontata con gusto e brio, e Gianluca Buratto, un Seneca che buca letteralmente la scena con il suo impressionante strumento vocale.
Silvia Frigato, più che come Fortuna nel Prologo, si impone maggiormente nei panni della Damigella, cui dona la sua voce freschissima e giovanile, e di Venere.
Nei ruoli di contorno bene si comportano lo stentoreo Francisco Fernández-Rueda (Soldato/Liberto/Familiare/Console), l’insinuante Thomas Walker (Soldato/Lucano/Familiare/Console) e il solido Peter Harvey (Familiare/Littore/Console).
Last but not least, il giovanissimo Jakob Gebbert, studente cantore dell’Accademia di Coro di Dortmund, nei panni di Amore e del Valletto: curate le mende della dizione italiana e di qualche grave piuttosto opaco, lo strumento vocale è promettente.
Teatro, come detto, gremito e partecipe, che saluta con calore tutti gli interpreti e i responsabili della parte visiva, con particolari punte di entusiasmo per Buratto, Rial, Patterson, Mancini, De Bique e Fischer.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 30 ottobre 2021.
Martino Pinali