Dorilla | Manuela Custer | |
Elmiro | Lucia Cirillo | |
Nomio (Apollo) | Véronique Valdès | |
Filindo | Rosa Bove | |
Eudamia | Valeria Girardello | |
Admeto | Michele Patti | |
Pastori, ninfe, soprano | Nicoletta Andeliero Alessandra Giudici Francesca Poropat Margherita Sala Ester Salaro Alessandra Vavasori |
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Concertatore e direttore | Diego Fasolis | |
Regia | Fabio Ceresa | |
Scene | Massimo Checchetto | |
Costumi | Giuseppe Palella | |
Light designer | Fabio Barettin | |
Assistente alla regia e coreografo | Mattia Agatiello | |
Maestro del coro | Claudio Marino Moretti | |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | ||
Continuo | ||
Cembalo Cembalo e organo Violoncello Tiorba e chitarra Fagotto |
Diego Fasolis, Andrea Marchiol Alessandro Zanardi Fabiano Merlante Giovanni Battista Graziadio |
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Ballerini: Fattoria Vittadini | ||
Maura Di Vietri, Samuel Moretti, Francesca Penzo, Manolo Perazzi, Stefano Roveda, Maria Giulia Serantoni, Loredana Tarnovschi |
Seconda tappa, dopo l’Orlando furioso dell’anno scorso in coproduzione con Martina Franca, del pluriennale progetto veneziano d’allestimento di titoli operistici di Antonio Vivaldi, la Dorillain Tempe trova una particolare ragione di richiamo nell’essere pervenuta a noi solo come ”pasticcio”, frutto di corpose sostituzioni nella sconosciuta partitura originale vivaldiana di arie d’altri autori, stilisticamente più “alla moda”. La rielaborazione fu curata dallo stesso Vivaldi, ormai oltre i cinquantacinque, qualche anno dopo la presentazione del lavoro, che risaliva al novembre del 1726 (Venezia, Teatro di Sant’Angelo). La Dorilla, era già ricomparsa (senza i balletti) in un altro teatro veneziano e a Praga, qui con l’interpolazione per scelta dell’impresario di qualche aria di Hasse. Al Sant’Angelo, nella cui impresa Vivaldi era magna pars, l’opera ritornò nel febbraio del 1734: i “catalogatori” moderni non concordano se il codice torinese a cui se ne deve la nostra unica conoscenza sia da considerarsi legato a questa ripresa (nel suo ampio The operas of Antonio Vivaldi, pubblicato nel 2008, lo Strohm se ne mostra certo), oppure no (il Sardelli scrive nel programma di sala di questo spettacolo veneziano: “non abbiamo tracce che ci permettano di datarla né di collocarla geograficamente”). Comunque sia, questo titolo vivaldiano fu occasione, nella sede d’origine e della ripresa del 1734, per uno spettacolo grandioso, con ampi interventi coreografici e sfoggio d’effetti scenici. Inoltre, proprio con quest’opera ebbe inizio la collaborazione del “prete rosso” con il giovane contralto Anna Tessieri, detta “Girò”, che poi gli rimase al fianco, forse non solo artisticamente, per gran parte della sua restante attività. Reinhard Strohm giudica in modo molto positivo il lungo sodalizio tra i due artisti, attribuendo a esso un ruolo essenziale nello sviluppo della cosiddetta aria parlante, o d’azione.
I due “catalogatori” che abbiamo ricordato non sembrano concordare del tutto nemmeno su quali pezzi del codice torinese siano attribuibili a Vivaldi, e quali no. Il problema non si pone, ovviamente, per quelle arie che trovano riscontro in altre opere, e non si pone per le “sinfonie”, i cori, i recitativi secchi e quelli accompagnati, dovuti senza dubbio al prete rosso, ma riguarda non poche arie: ben nove sono quelle che il Sardelli registra come d’autore anonimo, ma lo Strohm ne riconosce quattro a Vivaldi e tre altre considera attribuibili a lui, anche se in forma diversamente dubitativa. Per lo studioso tedesco, oxoniense emerito, le rimanenti due arie che Sardelli ritiene anonime sarebbero una di Leonardo Leo e una di Geminano Giacomelli. A quest’ultimo, a “Giannadolfo” Hasse e a Domenico Sarro (o Sarri) sono concordemente attribuite altre sei arie (rispettivamente due, tre e una), che trovano riscontro in loro opere rappresentate tra il 1726 e il 1732. Le dita d’una mano, insomma, bastano ampiamente per contare i pezzi solistici sulla cui paternità vivaldiana non s’avanza alcun dubbio. Resta poi il caso, curioso e un po’ paradossale, dell’aria di Nomio-Apollo al terz’atto, “Fidi amanti al vostro amore”, la cui musica, almeno secondo lo Strohm, non è contenuta nel codice torinese. Nello spettacolo del Malibran quest’aria è stata la più applaudita, anche grazie alla splendida prova del mezzosoprano; a noi è parsa indubbiamente vivaldiana sia per la finezza dello strumentale, sia per la genialità della linea del canto, il cui virtuosismo non appare mai esibitivo, ma espressivo. Non abbiamo purtroppo trovato nel programma di sala indicazione alcuna sulla provenienza dello splendido pezzo.
Sarebbe quindi del tutto improprio porsi il problema dell’unità stilistica della musica di Dorilla in Tempe, ma una certa coerenza drammaturgica, e anche di drammaturgia musicale, le è garantita dai pezzi scritti da Vivaldi, che costituiscono, per così dire, la cornice e il tessuto connettivo di questa sorta di “parata di successi” alla moda. Questo non vale solo per le poche arie sicuramente sue, ma anche per i recitativi accompagnati e per i “secchi”, che hanno trovato una straordinaria plasticità strumentale grazie alla realizzazione del continuo dovuta al direttore-cembalista Diego Fasolis e ai suoi collaboratori più vicini: tra questi, insieme agli specialisti Giovanni Battista Graziadio (fagotto), Andrea Marchiol (altro clavicembalo e organo) e Fabiano Merlante (tiorba e chitarra), il violoncello di Alessandro Zanardi, da gran tempo una delle “colonne” dell’Orchestra del Teatro La Fenice. La differenziazione dei timbri e dei modi espressivi strumentali che hanno accompagnato i dialoghi tra gli attori-cantanti, ha fatto sì che essi non siano mai apparsi un fastidioso riempitivo in attesa delle arie, ma abbiano svolto un’azione propulsiva (per quanto possibile, vista la banalità dell’intreccio…) per tutto il corso dello spettacolo.
Nell’intervista pubblicata nel programma di sala, il maestro Fasolis ricorda che, “d’intesa con il sovrintendente”, s’è deciso “di dotare la Fenice di un complesso ‘storicamente informato’ che attinga il più possibile all’interesse e all’entusiasmo dei professori della sua orchestra e che si apra a collaborazioni con qualche specialista (in questo caso alcuni dei suoi ‘barocchisti’)”. Dal suono e dal fraseggio che abbiamo sentito al Malibran la sera di martedì 23, questo programma è più che ben avviato, e diciamo senza mezzi termini che ascoltare l’orchestra alle prese con Vivaldi è stata fonte di costante piacere per tutte le due ore e mezza abbondanti dell’esecuzione, grazie sia alla pertinenza stilistica, sia alla controllatissima vivacità e all’efficacia drammatica con la quale il podio ha costantemente condotto. Il Coro del Teatro La Fenice, preparato a un cómpito di rilievo insolito nel teatro cosiddetto “barocco”, l’ha assolto più che egregiamente, entrando ben presto nel felice gioco d’insieme. Alcuni dei coristi, elencati in locandina, sono stati chiamati a interventi assolo o in duo. A loro s’è aggiunta la straordinaria ed entusiasta musicista e compositrice Alessandra Vavasori.
Le distribuzioni vocali attestate dai libretti del 1726 e del 1734 affidavano a castrati due dei personaggi maschili di registro acuto: Nomio-Apollo e Filindo la prima volta, il “primo amoroso” Elmiro e ancora Filindo la seconda. Quindi l’uso di voci femminili travestite ha un precedente originario anche per la Dorilla, ma esso fu limitato dal Vivaldi direttore e impresario a un personaggio su tre, così da garantire la varietà timbrica da un’aria all’altra e nei dialoghi. In questa produzione, invece, tutti e tre i personaggi maschili di registro acuto sono stati cantati da donne: la scelta ci è apparsa un po’ rinunziataria, specie per il ricordo dei due formidabili controtenori Raffaele Pe e Carlo Vistoli ascoltati l’anno scorso nell’Orlando furioso come Medoro e Ruggiero. D’altra parte, concordiamo sulla convenienza d’evitare eventuali presenze inadeguate solo per una ricerca di contrasto, offerto in quest’occasione solo dalla voce grave di Admeto (“tenore” nel 1726, ma divenuto “basso” nella ripresa del 1734 e nell’unica partitura giunta a noi).
Il ruolo del titolo (indubbiamente il principale, avendo quattro arie, un recitativo accompagnato, e una parte molto estesa nei dialoghi) è stato appannaggio di Manuela Custer, mezzosoprano di sicura esperienza, eleganza e vigore interpretativo, in possesso d’una voce fresca e tecnicamente molto sicura, gradevolissima nell’espressione e nelle agilità. Al suo fianco, Lucia Cirillo ha vestito i panni d’Elmiro (quattro arie), che nel 1726 furono della celebre Maria Maddalena Pieri, ma di Francesco Bilanzoni nel 1734. Non crediamo che il nostro completo gradimento di questo mezzosoprano debba alcunché al ricordo dell’interpretazione d’Alcina nell’Orlando Furioso dell’anno scorso e alla presenza molto recente nel Requiem di Mozart alla Fenice. Il canto impeccabile della Cirillo, sostenuto da un timbro che pochi giorni fa dicemmo “caldo e suadente”, ha di nuovo avvinto la nostra attenzione e stimolato la nostra fantasia, anche grazie a un felice gioco scenico e mimico, sempre sottilmente allusivo al travestimento e non impacciato mai dall’intenzione di farlo dimenticare.
Il dio Apollo, punito da Giove a servire come pastore Nomio e invano deciso di “tentar sua sorte” come corteggiatore di Dorilla, è stato Véronique Valdès, allieva tra altri di Andreas Scholl e Sara Mingardo (e lo si sente), che ha cantato le tre arie di competenza con progressiva sicurezza, trionfando, come già abbiamo ricordato, nell’ultima (e per noi, ci sia consentito dirlo, più bella della serata). Il timbro “eroico” e la figura hanno senza dubbio aiutato la Valdès a rendere più credibile il suo personaggio.
Alle arie (ancora tre, secondo le inviolabili gerarchie dell’uso settecentesco) dell’invidiosa, delusa e cattivella Eudamia ha dato voce e stimolante figura il contralto veneziano Valeria Girardello (un’altra allieva della Mingardo), che siamo stati lieti di riascoltare dopo averla personalmente molto apprezzata in Cavalli al Concorso Cesti di due anni fa. Precisa e vigorosa, la sua voce s’è anche prestata a un efficace contrasto timbrico con quella del mezzosoprano Rosa Bove, che nei frequenti dialoghi con Eudamia e nelle sue arie (sempre tre), cantate con bella sicurezza s’è anche dimostrata capace d’imitare – e qui diremmo ci sia stato bene – il timbro asessuato dei castrati.
Ad Admeto, padre non si sa bene se ottuso o crudele di Dorilla, spettano due arie, un recitativo accompagnato e una rilevante parte nei dialoghi; il personaggio è stato affidato al baritono genovese Michele Patti, che ci auguriamo di potere riascoltare presto senza che sia costretto dalla regia a un’interpretazione costantemente spinta al ridicolo.
Quasi tre secoli fa, l’autore del testo letterario della Dorilla in Tempe, Antonio Maria Lucchini, lo definì “melodramma eroicopastorale”. Non senza ragioni, il regista Fabio Ceresa osserva che “come in molti libretti del Settecento di stampo premetastasiano, la storia è un pretesto per fare musica e teatro … Non c’è la volontà di narrare una vicenda, né viene particolarmente curata e rifinita la psicologia dei personaggi. Tutto è orientato alla spettacolarità”. Ma “lo spettatore moderno s’aspetta una trama, se non solida, almeno comprensibile”. S’è quindi “cercato di esaltarne il punto di forza trovandolo nella crescita della protagonista … da fanciulla obbediente” ad “adolescente ribelle”, fino a un diverso “rapporto con l’autorità”. Intenzione di Ceresa è stata anche quella d’accostare “questa evoluzione di Dorilla a quella della madre terra nella sua rivoluzione intorno al sole”, prendendo spunto dalla presenza nell’ouverture dell’opera del “celeberrimo tema della Primavera” (le Quattro stagioni vivaldiane erano state pubblicate ad Amsterdam qualche anno prima della Dorilla e senza dubbio godevano già d’ampia notorietà, anche se presumibilmente meno esclusiva di oggi). Per sottolineare meglio il concetto, sùbito dopo che era risonato in orchestra il tema della Primavera, la scena rappresenta, al suo aprirsi, un classico “colpo di coda” dell’inverno, con una nevicata non più troppo preoccupante, che però cede presto il campo a una sgargiante fioritura. Per maggiore varietà visiva, ai costumi bianchi degl’innamorati Dorilla ed Elmiro e del pastore-dio Nomio-Apollo, s’affiancano quelli d’un verde “orientaleggiante” degli altri personaggi, che però, quando compare la prima volta addosso a coristi e mimi (quelli senza dubbio bravi e molto disciplinati della Fattoria Vittadini), ci è sembrato alludere, a causa delle mascherine protettive, che ne coprono naso e bocca, a quello in uso nei reparti ospedalieri opportunamente protetti contro la contaminazione microbica. Non vogliamo nascondere che le prime comparse di Dorilla in un abito come l’avrebbe forse immaginato un Arcimboldo per la dea Flora, ci hanno suggerito l’immagine, peraltro molto improbabile, dell’imperatrice Maria Teresa a un ballo mascherato, anche se indubbiamente di primavera.
A nostro parere, per farla corta, la semplice trama di quest’opera, pur nella sua totale, prevedibile conformità ai canoni del triangolo amoroso a catena, arricchito dalla volontà di vendetta del mostro devastatore e dal deus ex machina conclusivo, non ha tratto gran giovamento d’interesse dal tentativo di leggervi o d’innestarvi qualcosa che si suppone più vicino al gusto dello spettatore moderno, perché meglio in grado di soddisfarne le aspettative: la comprensibilità del tutto non ci ha guadagnato nulla. Tutt’al più è stato creato uno stimolo a cercar di capire di quel che era mostrato sul palcoscenico, nell’ipotesi, ormai comunissima, che la musica in sé non basti a tenere desto l’interesse. In altre parole, crediamo che i registi di casa nostra farebbero molto bene a non lasciarsi sedurre dalla Dramaturgie così in voga nel teatro d’opera oltralpe, a meno d’affidarne le cure a qualche persona esperta del problema. Se Ceresa non l’avesse portato a figura caricaturale perché “incredibilmente sprovveduto”, non sappiamo come sarebbe riuscito il personaggio d’Admeto, padre e re ben noto dal mito greco (e poi dal teatro gluckiano); ma, nelle vesti comico-grottesche assunte al Malibran, a noi è sembrato insopportabile e inutile; facile, anzi, pensare che sarebbe stato meglio per tutti se la devota sposa Alcesti non gli avesse salvato la vita.
Va però detto chiaro che il Dramaturg Ceresa non ha recato gran danno al Ceresa regista, perché nel corso della serata, dopo qualche gag iniziale troppo facile, le movenze sceniche dei personaggi hanno via via guadagnato in decorosa efficacia, e perché il Light designer Fabio Barettin ha di nuovo firmato giochi di luci di sicura suggestione. La scena, fissa ma compatibile con estemporanei inserimenti d’altri oggetti, è dovuta a Massimo Checchetto, direttore del reparto “allestimento scenotecnico” della Fenice, che ha operato con il noto buongusto e attento senso della spesa, realizzando come elemento dominante una doppia rampa divergente-convergente di quelle così care come sfondo alla pittura veneziana dal Veronese al Tiepolo. I costumi sono firmati anche questa volta da Giuseppe Palella: la loro realizzazione ci è apparsa d’alto artigianato, e questo, a nostro parere, deve prevalere nel giudizio sul suo lavoro; d’altra parte, il concetto che ne ha ispirato il disegno ci sembra del tutto conforme alla drammaturgia dello spettacolo.
Alla “prima” abbiamo notato qualche vuoto in platea; il pubblico presente ha gratificato tutti gl’interpreti con un applauso intenso o più che intenso, divenuto vibrante alla comparsa di Diego Fasolis, che ha più volte invitato rivolgerlo anche agli strumentisti. A nostro parere, questa produzione, che avrà quattro repliche da sabato 27 a domenica 5 maggio, merita l’attenzione di chiunque sia interessato a sentir sonare e cantare notevolmente bene musiche varie e di sicura piacevolezza.
La recensione si riferisce alla prémière di martedì 23 aprile 2019.
Vittorio Mascherpa