Voletta Valéry | Claudia Pavone |
Alfredo Germont | Matteo Lippi |
Giorgio Germont | Alessandro Luongo |
Flora Bervoix | Elisabetta Martorana |
Annina | Sabrina Vianello |
Gastone | Enrico Iviglia |
Il barone Duphol | Armando Gabba |
Il dottor Grenvil | Mattia Denti |
Il marchese d'Obigny | Matteo Ferrara |
Giuseppe | Safa Korkmaz |
Un domestico di Flora | Giampaolo Baldin |
Un commissionario | Nicola Nalesso |
Direttore | Stefano Ranzani |
Regia | Christophe Gayral |
Light designer | Fabio Barettin |
Danzatrice e movimenti coreografici | Erika Rambaldoni |
Maestro del Coro | Claudio Marino Moretti |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice |
La traviata e Venezia sono un binomio così indissolubile che nemmeno il Covid lo ha potuto sciogliere. Con la programmazione autunnale la messa in scena delle opere torna sul palcoscenico, abbandonando la “carena” usata nella rassegna estiva, di cui però vengono mantenuti alcuni praticabili. Gli allestimenti vengono quindi reinventati e concepiti in forma semi-scenica, ed alcuni sono a cura degli stessi registi inizialmente previsti in cartellone.
Per quest’edizione di Traviata nell’epoca del distanziamento sociale, la regia dell’opera viene affidata a Christoph Gayral. Nel programma di sala lo stesso regista afferma di aver messo in scena “una nuova Traviata, necessariamente e inevitabilmente più semplice nella sua forma teatrale, ma sempre all’insegna del desiderio di vivere, un tema più forte che mai”, insistendo quindi sulla lotta per la sopravvivenza e per la vita, mai così attuale come in questo periodo di pandemia.
Se nella teoria questo allestimento si presenta volenteroso, nella pratica si rivela abbastanza confusionario e sconclusionato, presentando alcune idee registiche, tutt’altro che disprezzabili, che però non vengono riprese ed approfondite maggioremente. Violetta appare già nel Preludio sul lettino di un ospedale (presumibilmente ammalata di Covid?), e rivive in punto di morte la sua vicenda ma questa rilettura ciclica dell’opera si perde completamente in un’accozzaglia di trovate discutibili o ingenue (Alfredo motociclista che si diletta di poesia cantando il Brindisi da lui composto, Germont padre che entra con una ventiquattr’ore che non usa mai salvo estrarne un libretto degli assegni con cui paga Violetta a fine duetto) se non addirittura involontariamente comiche (la fastidiosa presenza di infermieri in guanti e mascherina che impediscono ai due amanti di avvicinarsi durante il finale dell’opera) o completamente sbagliate ed estranee al contesto dell’opera (le coreografie da comiche del Bagaglino delle Zingarelle e dei Mattadori).
Qua e là si riconoscono spunti ed idee provenienti da alcuni degli allestimenti più celebri di Traviata: Violetta in punto di morte si allontana verso il fondale come Anna Netrebko per Willy Decker a Salisburgo, la presenza del Barone nel finale del primo atto rimanda allo storico allestimento veneziano di Carsen, mentre la protagonista moribonda che ripercorre la sua vita si rifà all’idea cardine dello spettacolo di Peter Mussbach ad Aix-en-Provence. Non basta tuttavia citare questi spettacoli di tutt’altro successo per salvare la messa in scena da una sciatteria e pressapochismo di fondo, cui contribuiscono loro malgrado anche la scelta dei vestiti per i solisti e l’impianto luci di Fabio Barettin che, in quest’occasione, non riescono a migliorare l’andamento dello spettacolo.
Musicalmente le cose si attestano, fortunatamente, a un buon livello. Stefano Ranzani imprime alla partitura quel dinamismo che manca alla messa in scena, peccando forse in alcuni momenti di poco respiro orchestrale e mettendo a dura prova i cantanti con questi tempi al fulmicotone. I momenti più rilassati e più introspettivi sono il duettone e l’intero atto terzo, davvero ben diretti e ben cantati dagli interpreti, i quali sopperiscono alle mancanze della messa in scena impegnandosi a dovere nello scavo musicale dei personaggi.
Claudia Pavone è una validissima Violetta. La cantante ha il physique du rôle perfetto, e anche se si avvertono delle imprecisioni negli acuti (il famoso quanto antifilologico mi bemolle del «Sempre libera» non le riesce perfettamente), il soprano si impone per la sensibilità del fraseggio e la morbidezza della voce.
Prova in crescendo per Matteo Lippi, che fa emergere il lato più sensibile e lirico di Alfredo: rispetto al Brindisi e alla cabaletta dell’aria del secondo atto (a causa dei tempi staccati da Ranzani), i momenti più riusciti in cui il cantante riesce ad emergere sono i duetti con Violetta, «Un dì felice, eterea» e «Parigi, o cara», in cui entrambi i solisti raggiungono un’ottima complicità.
Il baritono pisano Alessandro Luongo (per altro recentissimamente impegnato nel Roberto Devereux) nonostante l’età più giovane rispetto a quella richiesta dal ruolo, dimostra una grandissima familiarità con il personaggio, tratteggiando un Germont cinico, freddo e disincantato, a tratti quasi luciferino.
Nel folto numero dei comprimari, si impongono Enrico Iviglia, squillante Gastone, Elisabetta Martorana, gaudente Flora, e Matteo Ferrara, preciso Marchese. Un po' sotto tono, complice forse l'impianto registico che non li valorizzava appieno, gli altri componenti del cast.
Il Coro della Fenice, preparato come al solito da Claudio Marino Moretti, non viene coinvolto per quasi tutta la messa in scena, ma è relegato dietro un velatino calato a metà palcoscenico per tutto lo spettacolo, e sollevato solo nel finale secondo quando Alfredo chiama a raccolta gli invitati per l’insulto a Violetta. Eccezion fatta per un lieve scollamento nel coretto dei Mattadori, la loro prova è, come al solito, più che soddisfacente.
Il pubblico, prodigo di applausi alla fine dei singoli numeri chiusi, tributa un caloroso successo all’indirizzo dei tre solisti principali e del direttore; persino il regista si ritaglia qualche “bravo” dalla platea.
La recensione si riferisce alla prima del 25 settembre 2020.
Martino Pinali