Marco Mencoboni sa far suonare lo spazio come nessun altro. Lo dice il nome che ha scelto per il suo ensemble, Cantar Lontano, in riferimento ad una antica tecnica di disposizione dei cantori negli ampi volumi interni delle chiese così da moltiplicarne il suono. L’aria sostiene e accompagna voci che ne raggiungono altre, ricavandone echi e riverberi naturali, ma anche rimbalzi sorprendenti, così capita che mentre si osserva una sezione frontale di soprani si sentano le loro voci provenire dalla parte dei bassi.
Ieri sera è toccato alla Grote Zaal trasformarsi in strumento attivo, cassa di risonanza che ha visto i propri lati ottagonali e le loro nicchie riempirsi di musicisti itineranti, intenti a cambiare continuamente posizione per ottenere il massimo effetto. Non male per uno spazio novecentesco, efficiente ma spigoloso e pieno di angoli secchi. L’intera esecuzione è stata progettata sugli spostamenti in sala in relazione alle esigenze della partitura. Un lavoro di ingegneria logistica che solo la lunga esperienza sul campo di Marco Mencoboni poteva affrontare.
Il Vespro, dedicato a Maria, è tratto dal Musices liber primus pubblicato da Diego Ortiz nel 1565, quando il compositore spagnolo si era già trasferito a Napoli, città in cui trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Le antifone sono tutte in gregoriano, mentre salmi e mottetti sono sia a cappella che concertati. Le inserzioni delle parti concertate tra quelle a cappella sono esplosioni improvvise di fasci di suono che si aggregano nei luoghi più impensati, quasi mai al centro che rimane inerte, proprio come l’occhio di un ciclone. La musica avvolge chi ascolta in un surround naturale, molto più suggestivo e mirabolante di quello che si ottiene artificialmente con qualche amplificatore ben messo. La varietà dei brani, dai più austeri ai più lussureggianti, rispecchia il momento di incertezza che seguì il Concilio di Trento. Si auspicava maggiore austerità per la musica sacra, se non addirittura un ritorno al gregoriano, ma con l’attenuarsi delle prescrizioni anche le nuove composizioni tornarono ad un tono più ricco e sontuoso, e il Vespro cui abbiamo assistito contiene questa commistione tra rigore e fasto.
Il programma composto da Marco Mencoboni non sarebbe stato sostenibile senza le isole di gregoriano e polifonia pura che ci hanno permesso di riprendere fiato tra una meraviglia e l’altra, presi dallo stupore dei suoni che correvano per lo spazio ciascuno con una vita propria, ciascuno con il suo senso profondo e la sua precisa identità. Il sorprendente Ave regina coelorum, in cui i ventinove musicisti tra coro e strumenti hanno ottenuto più effetti di una grande orchestra wagneriana, testimonia di cosa poteva essere capace un schivo compositore spagnolo a metà del Cinquecento.
Marco Mencoboni dirige dal centro del palco avendo ben chiaro in testa chi è dove, un virtuosismo direttoriale incredibile, ma sempre al servizio della partitura.
Il pubblico ha tributato un’ovazione battendo mani e piedi e grida di bravo, ottenendo così un bis non fine a sé stesso. Marco Mencoboni ha richiamato sul palco tutti i suoi musicisti, li ha disposti secondo la tradizione, raccolti più o meno al centro, e in questo modo ha riproposto l’Ave regina coelorum annunciando un Cantar Vicino. Non è stata la stessa cosa, come rivedere in bianco e nero 2001 Odissea nello spazio.
La recensione si riferisce al concerto del 28 agosto 2019
Daniela Goldoni