Igor Sviatoslavich | Alexey Zhmudenko |
Jaroslavna | Anna Litvinova |
Vladimir Igorevich | Vladislav Goray |
Vladimir Jaroslavich | Dmitry Pavlyuk |
Kontchak | Viktor Shevchenko |
Konchakovna | Kateryna Tsymbalyuk |
Ovlur | Viktor Muzychko |
Skulà | Yuri Dudar |
Eroska | Alexander Prokopovich |
La nutrice di Jaroslavna | Irina Kamenetskaya |
Una fanciulla polovolese | Alina Vorokh |
Direttore | Igor Chernetski |
Regia | Stanislav Gaudasinsky |
Scene | Tatiana Astafieva |
Luci | Vyacheslav Usherenko |
Direttore del balletto | Yury Vasyuchenko |
Maestro del coro | Francesca Tosi |
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste con la partecipazione del Coro e del Corpo di ballo dell’Odessa National Academic Theater of Opera and Ballet | |
Il Principe Igor’ di Aleksandr Porfir'evič Borodin è una di quelle opere, poco rappresentate ovunque, che vale la pena vedere sia per l’intrinseco valore artistico sia – e forse più ancora – perché sono lo specchio di una temperie culturale per molti versi peculiare: quella della nascita di un filone operistico russo, con radici ben piantate nella tradizione popolare.
È noto che la genesi dell’opera sia stata contrastata, un po’ per gli impegni lavorativi di Borodin – che di professione faceva il ricercatore chimico – e anche per l’improvvisa scomparsa dello stesso compositore che lasciò sostanzialmente incompiuto il proprio lavoro. Inevitabile perciò che nella narrazione e nel passo teatrale si percepisca una certa frammentarietà, caratteristica precipua di molte opere portate a termine da artisti diversi, per quanto legati da rapporti amicali e immersi nello stesso microclima culturale.
A tutto ciò si aggiunga che Borodin, traendo spunto dal poema epico Il canto della schiera di Igor, si fece carico anche del libretto, pur esso inconcluso.
Nikolaj Rimskij-Korsakov e Aleksandr Glazunov cercarono, a loro gusto e basandosi anche su ascolti e conversazioni private, di completare un mosaico che era privo di molte tessere e di dare uniformità di linguaggio all’incompiuta di Borodin.
La versione presentata a Trieste è quella in un Prologo e tre atti, priva perciò del terzo atto che invece, in produzioni più recenti, viene reintegrato, anche se le fonti filologiche – un appunto di Borodin stesso riconosciuto come autentico – paiono piuttosto fumose.
La produzione proviene dall’Odessa National Academic Theater of Opera and Ballet ed è esattamente come me l’aspettavo: tradizionale nell’impianto scenico, didascalica e un po’ polverosa, illuminata in modo elementare, fastosa e coloratissima nei costumi ma a tratti statica e priva di qualsiasi approfondimento sulle dinamiche tra i personaggi. Brillante, peraltro, nel non breve squarcio coreutico che chiude il secondo atto. Insomma, la regia latita – solo il coro gode di un minimo di attenzione - ma la mise en place, pur con qualche ingenuità, è gradevole.
Trattandosi di un’opera di così rara esecuzione ci si accontenta volentieri, ma il teatro, quello vero, è altra cosa.
Per Il Principe Igor, opera puzzle dal sentore epico ma innervata da retrogusti molteplici, è basilare che sul podio ci sia un concertatore attento a tener viva la tensione narrativa e al contempo capace di screziare di malinconia e abbandono i momenti più lirici, oltre che gestire le numerose scene in cui il coro è protagonista. Ancora, nel caso degli interventi della coppia di disertori Eroska e Skulà, la musica deve sfumare in una briosa gradazione alcolica, a un passo dalla sbornia esistenziale. Da non sottovalutare poi gli echi onirici o quasi sabbatici delle danze polovesiane, che rimandano ad atmosfere di un oriente immaginario, quasi da promozione turistica.
In questo senso il direttore Igor Chernetski ha fatto centro, anche grazie alla formidabile prestazione del Coro e a un' Orchestra del Verdi che, al netto di qualche sbavatura inevitabile nelle esibizioni dal vivo, si è confermata compagine solida, di carattere esuberante, ma anche pronta a recepire le indicazioni del podio.
E, com’era facile prevedere, è stato proprio l’episodio delle danze a riscuotere il maggior favore del pubblico. Le Danze polovesiane sono la pagina più nota dell’opera e l’apporto del coro e del corpo di ballo sono un notevole valore aggiunto, tale da far (quasi) dimenticare che si tratti di una scena che definire kitsch è sfumatissimo eufemismo.
Nella compagnia di canto ha brillato per autorevolezza e timbro brunito l’imponente Igor di Alexey Zhmudenko, molto bene in parte anche dal lato scenico.
Meno centrata la prestazione di Dmitry Pavlyuk, un po’ troppo sopra le righe nella caratterizzazione di Galitzky, di cui non ha colto il lato più nobile e meno scapestrato.
Complessivamente discreta la Jaroslavna di Anna Litvinova la quale, incisiva nel fraseggio e disinvolta in scena, a fronte di un registro centrale rigoglioso ha palesato qualche episodico slittamento d’intonazione e un paio di acuti avventurosi.
Molto bravo, nonostante il timbro non certo accattivante, Vladislav Goray, interprete del mite figlio di Igor, Vladimir. Il tenore ha dimostrato buone capacità tecniche e un modo di porgere quasi d’antan.
Incisivo Viktor Shevchenko, Kontchak minaccioso e torvo ma anche capace di ripiegamenti malinconici.
Kateryna Tsymbalyuk ha impersonato una soave e leggiadra Konchakovna, con bella voce mezzosopranile ben timbrata.
La strana coppia Eroska e Skulà (rispettivamente Alexander Prokopovich e Yuri Dudar ) mi è sembrata risolta con qualche esuberanza di troppo ma in modo tutto sommato convincente.
Molto buono l’apporto delle parti di fianco, comunque decisive per la riuscita dello spettacolo: Alina Vorokh (Fanciulla polovelese), Irina Kamenetskaya (Nutrice) e Viktor Muzychko (Ovlur).
Alla fine il pubblico, non numerosissimo ma neanche scarso, ha ben accolto lo spettacolo applaudendo con calore tutta l’affollata compagnia artistica.
Consiglio gli appassionati di non mancare quest’appuntamento in teatro, è un lavoro che si vede raramente e il livello artistico della produzione è complessivamente alto.
L’opera sarà in cartellone sino a sabato prossimo, alternando gl’interpreti principali.
La recensione si riferisce alla recita dell'8 febbraio 2019
Paolo Bullo