Werther | Roberto Alagna |
Charlotte | Monica Bacelli |
Albert | Marc Barrard |
Sophie | Nathalie Manfrino |
Il Borgomastro | Michel Trempont |
Schmidt | Leonard Pezzino |
Johann | Armando Gabba |
Brühlmann | Alessandro Inzillo |
Kätchen | Ivana Cravero |
Gli Altri Figli del Borgomastro | Stefania Costa |
- | Fiammetta Fanari |
- | Roberta Nobile |
- | Miriam Schiavello |
- | Giulia Voghera |
- | Carlo Alberto Italia |
- | Alberto Occelli |
- | Giulio Sanna |
Regia e Scene | David Alagna e Frédérico Alagna |
Costumi | Louis Désiré |
Orchestra e Coro del Teatro Regio |
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Coro di Voci Bianche |
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Del Teatro Regio e del Conservatorio “g. Verdi” |
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Maestro del Coro | Claudio Marino Moretti |
Direttore D’orchestra | Alain Guingal |
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Nuovo Allestimento Teatro Regio |
Dopo Bohème, Werther: Roberto Alagna, tenore tra i più gettonati e chiacchierati della scena attuale, prosegue con la celebre opera di Jules Massenet la sua collaborazione con il Teatro Regio di Torino, da lui stesso indicato come suo palcoscenico italiano d’elezione.
Da agile affabulatore qual è, Alagna ha saputo attirare su di sé l’attenzione, prima ancora che avessero inizio le recite di Werther, con un’intervista dai toni piccanti apparsa sul quotidiano La Stampa: il Nostro, autodefinitosi con un pizzico di caparbietà «un divo» sic et simpliciter, ha ampiamente dato sfogo a certe sue antipatie e idiosincrasie, alcune delle quali peraltro condivisibili e condivise, e a certi suoi capricci volti in verità, più che a scuotere le anime belle di certo pubblico torinese, semplicemente a legittimare una tanto eccentrica definizione di se stesso.
Insomma, di attesa ce n’era a sufficienza, vuoi fisiologica vuoi pompata dalla star medesima: quanto basta per preparare il pubblico a sentirsi ospite di un evento. Nessuna meraviglia, dunque, che il tenore in questione abbia scatenato entusiasmi tra le frotte di ammiratori venuti anche d’oltralpe, tanto alla fine dell’opera quanto in coda al più celebre assolo di Werther, «Pourquoi me réveiller». Ma è con malcelata riluttanza che non me la sento di condividere in pieno tali generose manifestazioni di gioia, dovendo esternare quanto meno il dubbio che le cose non si siano svolte esattamente nelle più rosee condizioni.
Che Alagna sia non solo padrone della scena ma anche musicista dotato delle più raffinate qualità vocali è cosa risaputa, e fu nondimeno la mia impressione dopo la sua prova superlativa nella Bohème dello scorso ottobre: tanto più acute, di conseguenza, le perplessità che hanno accompagnato in crescendo nella mia mente lo svolgersi dei quattro atti di questo Werther.
Proprio il «Pourquoi me réveiller» del terz’atto, ubi consistam vocale del personaggio, m’è sembrato il punto più critico dell’esibizione del Nostro, il momento in cui convivono accentuati tutti gli elementi scatenanti la mia perplessità. L’aria comincia sì con il tono accorato che si conviene, ma vi aleggia fin da principio un atteggiamento che gli ottimisti definirebbero byroniano, e che a me è sembrato semplicemente grandguignolesco; e non mancano le magagne strettamente vocali, consistenti soprattutto in un uso eccessivo di portamenti sconfinanti anche in rubato di dubbio gusto, e in un vibrato che nell’acuto finale oscilla di quasi mezzo tono, con risultati piuttosto imbarazzanti anche se il pubblico non si risparmia una sincera ovazione. Tali difetti si riscontrano sostanzialmente per tutto il resto dell’opera, e quello che mi infastidisce maggiormente è come un indurimento della pasta vocale, una lieve perdita di spontaneità in una di quelle voci che sempre si erano fatte amare proprio per la loro naturalezza, e che ha fatto latitare a questo Werther gran parte di quella schiettezza meramente canora che viceversa tanto avevo ammirato nel suo Rodolfo.
Se dunque in parte è il materiale vocale stesso ad aver perso qualcosa in raffinatezza (escludendo recisamente che in otto mesi si sia verificato un tale declino, imputerei la cosa soprattutto alla diversità di scrittura tra le due parti), va anche detto che sembra esserci stata da parte di Alagna una minore “fiscalità” nel pretendere da sé stesso il meglio. Concedendosi al caloroso pubblico della domenica pomeriggio, il Nostro sembra come aver sorvolato sulle finezze che la parte richiede, sulla precisione di certi colori e di certi accenti, per concedersi ad un canto spiegato piuttosto tonitruante ma di fatto molto meno accattivante se messo in relazione con le ragioni di questa musica e di questo personaggio; ecco così un Werther non dico sopra le righe, ma tagliato più con la mannaia che con le forbicine della manicure, tutto sommato un po’ esteriore e poco in linea con la realtà del personaggio. Si può ad esempio rilevare il risultato “sportivo” di una scena finale cantata interamente sdraiato in terra, ma in modo alquanto indifferente dal punto di vista interpretativo.
Resta una gran voce, sia chiaro, di quelle che s’impongono comunque, e che giustamente suscitano approvazioni; però, proprio perché in presenza di un materiale tanto importante, personalmente non credo sia troppo aspettarsi qualcosa in più in termini di finezza, di precisione, di introspezione. Con questo, sia chiaro, non voglio dissociarmi dai comunque meritati applausi, che sono stati anche segnali d’affetto nei confronti di un tenore che il pubblico del Regio considera già di casa e che io stesso mi auguro di poter ascoltare spesso in futuro.
Il resto del cast risulta nel bene e nel male meno appariscente del protagonista, e francamente non c’è molto da dire su Monica Bacelli e su Marc Barrard. La prima sorprende per un volume vocale davvero notevole e insospettabile in una voce dal colore così brunito, ma questo esaurisce le sue attrattive: passa accanto al personaggio, non penetra nelle pieghe psicologiche della Charlotte tormentata e affranta degli ultimi due atti, e manca anche di quella soffusa femminilità che permea la musica da Massenet dedicata a questo personaggio. Canta certo bene, la Bacelli, pur senza fare cose memorabili, ma in definitiva il personaggio è sfocato e fatica a imporsi nella memoria dello spettatore.
Marc Barrard si distingue positivamente in una parte che comunque non gli dà modo di farsi notare più di tanto.
Gradevole sorpresa la deliziosa Sophie di Nathalie Manfrino, al suo debutto italiano: vivace e graziosa sulla scena, di voce brillante e recitazione spigliata. Si spera che anche lei possa in futuro essere ascoltata da queste parti in ruoli un po’ più sostanziosi.
Alain Guingal può vantare una lunga conoscenza delle opere di Massenet, e in particolare proprio di Werther, da lui diretto circa un centinaio di volte, alcune delle quali con protagonista nientedimeno che Alfredo Kraus. Il mestiere e l’esperienza quindi ci sono, e si avvertono nell’elasticità ritmica e plastica con cui sono affrontate le pagine più importanti; non si può però fare a meno di notare come il risultato sia complessivamente molto altalenante, con momenti molto gustosi alternati ad altri in cui la tensione precipita a livelli invero sonnacchiosi. Quella del Regio non è certo un’orchestra superlativa, ma se diretta da mano sagace può aspirare a risultati di grande levatura: difetto di Guingal è dunque stato, a mio avviso, non aver saputo tenere salde le redini della narrazione, qua e là lasciata andare un poco alla deriva.
Lo spettacolo firmato dai due fratelli del «divo», David e Frédérico Alagna, è anch’esso molto dispersivo, poco attento a «entrare» nel dramma per concentrarsi su facili effetti quali la presenza in scena di un cane e due cavalli, uno dei quali tira una carrozza autentica, oppure l’uso di luci sanguinolente in momenti francamente poco opportuni, oppure ancora l’effetto (virtuale?) della nevicata nell’ultimo atto. Ma soprattutto quello che svia dall’azione principale è il calcare la mano sulle gags dei personaggi di contorno, resi per l’occasione non meno che grotteschi: in particolare, l’apertura del secondo atto è quasi fastidiosa per l’insistenza con cui vengono messi in ridicolo Schmidt, Johann e l’ubriaco e barcollante Brühlmann. Il resto della regia lascia traccia di sé molto debole.
Scene genericamente ottocentesche, volutamente lontane da una precisa ambientazione temporale; in particolar modo poco funzionale la scena del primo atto, che ci mostra la facciata della casa del borgomastro anziché la terrazza e il giardino, ma molto efficace l’enorme stanza vuota del quarto atto, in cui troneggia maestosa la solitudine di Werther.
Marco Fornengo