Nedda | Erika Grimaldi |
Canio | Fabio Sartori |
Tonio | Roberto Frontali |
Peppe | Juan José de León |
Silvio | Andrzej Filończyk |
Primo contadino | Vladimir Jurlin |
Secondo contadino | Sabino Gaita |
Direttore | Nicola Luisotti |
Regia | Gabriele Lavia |
Scene, costumi e video | Paolo Ventura |
Luci | Andrea Anfossi |
Maestro del coro | Caludio Fenoglio |
Orchestra e Coro del Teatro Regio | |
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio "G. Verdi" | |
Nuovo allestimento del Teatro Regio |
Sono nude case diroccate e mucchi di macerie di un anonimo paese del meridione a far da sfondo allo “squarcio di vita” della nuova produzione dei “Pagliacci” in scena in questi giorni al Regio di Torino. Forse motivi di cassa, purtroppo all’ordine del giorno per numerosi enti musicali italiani, hanno indotto i responsabili del teatro nell’infelice decisione di presentare l’operina senza un’abbinata (anni fa al Regio al posto della consueta “Cavalleria” si scelse l’intelligente accostamento con “Il nano” di Alexander Zemlinsky). Se è indubbio che il capolavoro di Leoncavallo è compiuto in sé, si deve pur ammettere che si esce da teatro sazi solo in parte.
La trasposizione della vicenda negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, con riferimenti al cinema neorealista e un’impostazione scenica chiara e semplice, non è stata certamente un’idea particolarmente innovativa da parte di Gabriele Lavia, al proprio debutto torinese nella regia d’opera. Il noto attore e regista, non nuovo al mondo del melodramma e a questo titolo, ha confezionato uno spettacolo classico, saldamente ancorato nell’ambito di una sapiente e rassicurante correttezza di mestiere. A ricreare efficacemente l’atmosfera sospesa di quegli anni, nei quali dopo le distruzioni del conflitto, ci si avviava lentamente verso una rinascita, i costumi realistici e sobri di Paolo Ventura (artefice anche delle scene d’epoca) e le luci mai abbaglianti di Andrea Anfossi.
Grazie alla straordinaria prova di Roberto Frontali, il più convincente tra i cantanti ascoltati l’altra sera, la figura di Tonio ha accresciuto la sua centralità rispetto alle abituali produzioni. Sotto i panni del commediante Taddeo, Tonio ha delimitato gli ambiti tra realtà e finzione divenendo il vero artefice nel reggere le fila del conciso e truce racconto ispirato al compositore da un reale fatto di sangue avvenuto nel 1865 nel comune calabrese di Montalto Uffugo.
Lo spettacolo ha mantenuto la sottile sovrapposizione di piani e situazioni così genialmente creata dalla musica e dai versi di Leoncavallo e alla fine, dopo il doppio assassinio, all’udire la celebre chiusa pronunciata da Tonio/Taddeo, contro la tradizionale prassi esecutiva che solitamente la riserva a Canio, l’ascoltatore si sente disorientato. Nel far muovere i personaggi, Lavia si è mostrato rispettoso per le tradizionali, e oggi un po’ scontate, convenzioni sceniche con protagonisti e coro spesso rivolti verso il pubblico e una recitazione ovvia e stereotipata. L’unica intenzione audace, modesta nella realizzazione, l’abbiamo vista all’inizio, durante il festoso arrivo della compagnia di commedianti in paese, quando l’Arlecchino di Peppe è sbucato dalla platea (con tanto di scivolata forse non voluta sul parquet del Regio) con le luci accese in sala. Il pubblico torinese, non numerosissimo alla prima, ha mostrato di gradire la solerte correttezza di Lavia, le voci e la direzione di Nicola Luisotti, anch’egli al suo debutto al Regio.
Il Canio delineato da Fabio Sartori ci è parso più sentimentale che accecato dalla gelosia. Grazie ad una felice aderenza emotiva della voce del tenore, la lettura del personaggio, forse un po’ datata, ha privilegiato il commosso monologo di “Vesti la giubba” e ha sacrificato invece i sentimenti di sanguinaria ferocia di Canio sia durante la gelida confessione della propria gelosia all’inizio della vicenda (“Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo”) sia nel corso della commedia finale in costume. Al di là di una certa ingenuità nella recitazione e, ci pare, di un’eccessiva inclinazione per una disperazione romantica più consona a Nemorino che ad un amante passionale, il cantante ha dato una prova complessivamente soddisfacente rivelando un registro acuto generalmente buono e un volume apprezzabile. Permane qualche perplessità sull’emissione che ci è parsa non sempre omogenea e curata nelle dinamiche lungo tutta l’estensione.
Nuovamente sulle scene ad appena un mese dal parto, Erika Grimaldi è in ottima salute vocale: grazie ad una solida tecnica vocale, non abbiamo avvertito difficoltà nel sostegno e nella tenuta del fraseggio. Lo smalto vocale del soprano ha trovato piacevole risalto nel duetto d’amore con il decoroso Silvio del baritono Andrzej Filończyk. Sotto l’aspetto interpretativo, la Nedda della Grimaldi è parsa credibile nella brama di libertà della ragazza: un desiderio non privo di ingenuità come abbiamo visto nell’infantile richiamo agli uccelli “boemi del ciel” nell’aria “Stridon lassù”.
Come già detto prima, Roberto Frontali ci è parso il migliore, straordinario sia dal punto di vista scenico che da quello musicale. Il baritono ha dato prova di una magnifica verveinterpretativa: senza eccedere ad aspetti truci del commediante deforme e amante respinto, Frontali ha saputo esprimere l’inconsistenza umana del personaggio, un vuoto morale che va al di là dei principi di bene e male e restituisce il personaggio alla sua dimensione più elementare.
Assolutamente gradevole il Peppe/Arlecchino di Juan José de León e soddisfacenti sia Vladimir Jurlin (Primo contadino) e Sabino Gaita (Secondo contadino). La direzione appassionata di Nicola Luisotti ha dato evidenza alla ricchezza musicale della partitura e alla raffinata strumentazione. Bella la presenza del coro, un po’ troppo irrigidito in scena, preparato da Claudio Fenoglio. Calorosa l’accoglienza da parte del pubblico.
La recensione si riferisce alla recita dell' 11 gennaio 2017
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Lodovico Buscatti