Giulio Cesare | Sonia Prina |
Cleopatra | Jessica Pratt |
Cornelia | Sara Mingardo |
Sesto | Maite Beaumont |
Tolomeo | Jud Perry |
Achilla | Guido Loconsolo |
Nireno | Riccardo Angelo Strano |
Curio | Antonio Abete |
Direttore | Alessandro De Marchi |
Regia e costumi | Laurent Pelly |
Regia ripresa da | Laurie Feldman |
Scene | Chantal Thomas |
Luci | Joël Adam |
Orchestra e coro del Teatro Regio | |
Maestro del coro | Claudio Fenoglio |
Sbarca a Torino Giulio Cesare di Händel secondo Laurent Pelly, già andato in scena nel 2011 all’Opéra Garnier di Parigi. L’allestimento di Pelly è un gioco di suggestioni tra antico e moderno, eroismo e mito, antiquariato e contemporaneità. Non convince, però, del tutto. Le scene raffigurano l’interno del deposito di un museo egizio, in cui sono accatastati statue e altri reperti archeologici. Potrebbe essere il museo egizio di Torino o forse quello del Cairo, considerando che gli indaffarati inservienti indossano il fez. I cantanti sono statue che prendono vita e interagiscono in questa dimensione: alcune arie sono cantate all’interno di teche espositive, come maschere mortuarie che si risvegliano dalla propria immobilità per dispiegare il proprio canto; Cleopatra entra in scena a bordo di un carrello, piuttosto che trascinata su una lettiga. Nel finale, tutti i protagonisti sono restituiti alla loro forma: marmoree testimonianze storiche incorniciate tra scaffali. Il richiamo al passato, la dialettica col mito e la storia: tutto è puro citazionismo.
Potrebbe sembrare ironico, è forse nelle intenzioni di Pelly lo è, ma l’impressione è quella di un can-can sovraccarico, didascalico, banale. Per non parlare del secondo atto, in cui i rimandi classici si infittiscono in una sfilata derivativa, tra merletti e scorci alla Watteau, neoclassiche sculture e cornici barocche. Una sorta di epopea come Arca russa di Sokurov, ma senza originalità né coerenza.
Il capolavoro di Händel, che debuttò nel 1724 al King’s Theatre di Londra con due superstar dell’epoca, il castrato Francesco Bernardi detto “Senesino” e il soprano Francesca Cuzzoni, è opera complessa e lunga: trenta arie con da capo precedute da recitativo secco, tre ariosi, quattro recitativi accompagnati, due duetti, vari brani di musica strumentale e cori, per una durata complessiva che sfida persino Wagner. La trama è nota e si rifà alle vicende di Cesare in Egitto. Dopo la vittoria di Farsalo nel 48 a.C., Cesare raggiunge l’Egitto inseguendo il rivale sconfitto Pompeo. Qui scopre che Pompeo è già morto, assassinato dal re Tolomeo per ingraziarsi i favori di Cesare che, invece, ne resterà inorridito. Si intrecciano quindi i giochi amorosi di Cleopatra e Cesare e i tentativi di Achilla e di Tolomeo di insidiare Cornelia, vedova di Pompeo. Lieto fine con vendetta e ritorno all’ordine legittimo.
L’esecuzione musicale è pregiatissima. Alessandro De Marchi è esegeta attento e capace del repertorio barocco. Dirige con controllo pieno del golfo mistico e degli interpreti sul palco, come dimostrano i particolarmente riusciti tripudi del coro in apertura al I atto (“Viva, viva il nostro Alcide!”) e in chiusura del III (“Ritorni omai nel nostro core”) e l’epifania di Cleopatra nelle vesti di virtù in “V’adoro, pupille” del II atto. L’Orchestra del Teatro Regio è abile, incisiva e dai suoni puliti.
Il cast è di alto livello. Sonia Prina è Giulio Cesare. Nonostante qualche incertezza e sbavatura all’inizio come in “Empio, dirò, tu sei”, Prina è capace di cogliere il virtuosismo di Händel, col suo bel timbro scuro: è un autentico contralto dalla tecnica finissima e persino toccante nel recitativo accompagnato “Alma del gran Pompeo” (atto I), mesto struggimento sulla fuggevolezza della vita e l’inconsistenza della gloria umana, di cui non resta che un’ombra. Jessica Pratt è una melodiosa Cleopatra che vola con la sua limpidissima voce dagli acuti al registro medio e basso, sfumandoli dolcemente. Poca morbidezza, forse, e qualche acuto sparato nelle impervie “Che sento? Oh dio!” e “Se pietà di me non senti”. Per il resto, possiede una bella e agile voce ed una buona tenuta nell’emissione (“Tutto può donna amorosa”). Convincente anche la sua metamorfosi in scena da femme fatale, che vuole accattivarsi cinicamente il favore di Cesare per il trono, a donna sinceramente innamorata.
Sara Mingardo è una indimenticabile e dolente Cornelia, dal timbro prezioso e ambrato: un suono brunito che modula lievemente attraverso un’estesa gamma di colorature. Mingardo canta con cognizione e precisione filologica disarmante (“Cessa ormai di sospirare”), mai con virtuosismo fine a se stesso. La sua tecnica elegante s’accompagna a trepidanti momenti, carichi di pathos, come nell’aria “Priva son d’ogni conforto” (atto I) e in “Non ha più che temere quest’alma vendicata” nel III atto.
Completano il cast l’intenso Sesto di Maite Beaumont, l’agile e aggraziato Tolomeo di Jud Perry, l’Achilla di Guido Consolo (preciso e con un buon fraseggio) e gli adeguati Nireno di Riccardo Angelo Strano e Curio di Antonio Abete.
Pelly è anche l’autore de La traviata che, dal 2009, è punto di forza del repertorio del Regio. Neanche nel caso di quest’ultima messinscena è, a mio avviso, possibile parlare di grande teatro. Eppure nell’opera di Verdi c’era un dettaglio capace di scuotere: il preludio del primo atto accennava già alla morte di Violetta, con la fugace apparizione in scena di una bara e un corteo funebre. Una trovata interessante e coerente che in questa occasione è sembrata invece mancare.
Successo pieno per il direttore e l’intera compagnia di canto, dissensi per Pelly.