Alceste | Anna Caterina Antonacci |
Admète | Charles Workman |
Évandre | Topi Lehtipuu |
A Herold / Hercule | Luca Pisaroni |
Le Grand-prêtre / Apollo | Johan Reuter |
Coryphée | Sandra Trattnigg |
L’ Oracle/un Dieu Infernal | Mikahil Petrenko |
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Conducto | Ivor Bolton |
Chorus Master | Alois Glaßner |
Salzburger Bachchor |
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Mozarteum Orchester Salzburg |
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Concert Performance |
Il 23 aprile 1776 andava in scena a Parigi “Alcéste”, Tragédie-opéra in tre atti di Monsieur le Chevalier Gluck; fu il compimento di un´autentica rivoluzione, che il compositore tedesco operò nel panorama musicale francese e che troverà pieno compimento nelle successive “Armide” (1777) e “Iphigénie en Tauride” (1778), creando le basi di quella che sarebbe stata la produzione operistica francese almeno dei successivi trent’anni e che troverá, guarda caso, i suoi massimi esponenti in due italiani, Luigi Cherubini e Gaspare Spontini.
La rivoluzione di Gluck consisté, di fatto, nel “denudare” l’opera francese di tutto quello che Rameau, Lully e, in misura minore, Campra, avevano portato all’eccesso, vale a dire il virtuosismo vocale fine a se stesso, il ricorso frequente ad interludi danzati, la rigida partizione dei numeri intervallati a recitativi secchi secondo il canone metastasiano.
Gluck concepì i propri lavori come un unicum di arie, cori, intermezzi danzati e recitativi senza soluzione di continuità, di modo da garantirsi la costante attenzione del pubblico e di coinvolgerlo progressivamente nel divenire della musica e dell’azione scenica, spogliata anch’essa dei sontuosi apparati che la tradizione francese tanto amava.
Rispetto alla precedente versione italiana, che Gluck compose su libretto del de’ Calzabigi, nell’ “Alcéste” francese il ricorso al coro, che dialoga costantemente coi cantanti si fa più tangibile; il coro è infatti sempre presente, interagisce, sottolinea, commenta gli eventi ed i sentimenti dei protagonisti ed è egli stesso protagonista, ponendosi assai piú vicino alla tradizione greca ed all’archetipo euripideo che non alle di poco precedenti opere sul medesimo soggetto, quali ad esempio quella di Lully, più attenta al puro “stupire” che non all’effettiva sostanza.
L’integralissima versione vista ieri sera al “Residenzhof” è stata eseguita in forma concertante e, crediamo, che questa scelta del Festival sia stata assai azzeccata.
L’esecuzione in forma di concerto, con l’orchestra in buca ed i cantanti al proscenio, quest’ultimi comunque liberi di muoversi, ha contribuito non poco a comunicare all’uditorio l’atmosfera quasi di statica sacralità, potremmo dire di oratorio, che sicuramente Gluck ricercò nella sua composizione.
Ivor Bolton, concertatore attento e raffinato, che raramente delude, ha offerto l’ennesima buona prova di sé, mettendo in luce con grande acribia, ma anche con trasporto drammatico ed abbandoni lirici, tutto ciò che di bello la partitura gluckiana contiene, primi fra tutti i cori.
Alla sua lettura hanno dato notevole riscontro sia l’orchestra del Mozarteum, che nel corso degli anni abbiamo visto crescere costantemente dal punto di vista qualitativo, la quale ha offerto una prova assolutamente convincente, macchiata solo dalle trombe barocche fuori scena, veramente stonate.
Molto bene anche il Salzburger Bachchor, da lodare anche per il partecipe entusiasmo e per la qualità vocale delle parti soliste.
Decisamente positivo anche ciò che attiene ai solisti.
Anna Caterina Antonacci, autentica mattatrice della serata, ha offerto una performance maiuscola sotto tutti gli aspetti. La Antonacci non si limita a cantare, cosa che fa peraltro davvero bene, bensí trasmette emozioni ad ogni nota, infonde sentimento ad ogni frase, accompagna la musica con il gesto, che risulta sempre appropriato, mai sopra le righe, teso a sottolineare e mai a prevaricare.
La voce, come accennato sopra, è in splendida forma, perfettamente ristabilita dopo i malanni parigini: i centri sono corposi, i bassi pieni, gli acuti quasi sempre sicuri. Bene davvero.
Molto bene anche il giovane baritono bussetano Luca Pisaroni, oramai ben più che una promessa, il quale ha dato voce e presenza al doppio ruolo dell’araldo reale e di Hercule.
La voce di Pisaroni è bella, benissimo proiettata, elargita con generosità, soprattutto nell’impervia aria “C’est en vain que l’Enfer”. Alla fine per lui un meritatissimo successo.
Il tenore finlandese Topi Lehtipuu tratteggia un Evandre disperato ed umanissimo, affranto per la sorte di Admète ed ammirato dal coraggio di Alcèste. La voce, seppur non grande, passa con facilità grazie ad un bagaglio tecnico di tutto rispetto e ad un’emissione mai forzata. Speriamo di poterlo presto risentire magari come Tamino o Belmonte.
Tutti sopra la media i comprimari, ammesso che in un’opera come Alcèste si possa parlare di “comprimari”, dato ogni personaggio canta almeno un’aria.
Accomuniamo dunque in un convinto plauso Johan Reuter, Apollo e Gran Sacerdote, Mikahil Petrenko come Oracolo e Divinità infernale, e Sandra Trattnigg, ottima Corifea.
Unica dolente nota l’Admète di Charles Workman.
Il tenore statunitense, nonostante gli ammirevoli sforzi compiuti, appare vocalmente stremato, tanto da apparire in seria difficoltà a portare a termine la serata.
La voce, già non felice quanto a timbro, risulta ancora accettabile nel registro medio, divenendo, ahinoi, stridula nelle note acute e quasi sempre sul punto di spezzarsi.
Peccato perché la sua caratterizzazione del personaggio, a nostro parere odioso e degno di ogni biasimo, è stata resa con notevole perizia interpretativa.
Alla fine un pubblico attentissimo e assolutamente silenzioso (non un singolo colpo di tosse) ha decretato alla serata un successo pieno e convinto, con ovazioni, meritate, all’indirizzo della Antonacci.
Alessandro Cammarano