German | Maksim Aksenov |
Il Conte Tomskij e Montedoro | Tómas Tómasson |
Il Principe Eleckij | Vitalij Bilyy |
Čekalinskij | Vadim Zaplechny |
Surin | Mikhail Korobeinikov |
Čaplickij e Il Cerimoniere | Vladimir Reutov |
Narumov | Gabriele Ribis |
La Contessa | Elena Zaremba |
Liza | Oksana Dyka |
Polina e Bellosguardo | Elena Maximova |
La Governante | Anna Viktorova |
Maša | Magdalena Krysztoforska |
Prilepa | Yuliya Poleshchuk |
Regia | Richard Jones |
ripresa da | Benjamin Davis |
Sciene e costum | John Macfarlane |
Luci | Mario De Amicis |
Coreografia marionette | Green Ginger |
Direttore d'orchestra | James Conlon |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
Orchestra e coro del Teatro dell'Opera di Roma | |
Coro di voci bianche dell'Opera di Roma |
Il sipario si alza e un enorme volto femminile dipinto ci scruta, mentre le note dell'Andante mosso che introduce l'opera creano un'atmosfera misteriosa. Lentamente, crescendo, il ritratto si trasforma e al volto giovanile subentra una faccia bianca, truccata, in disfacimento: siamo entrati nel grottesco e morboso mondo creato da Pëtr Il'iĉ Čajkovskij.
La Dama di Picche, secondo i dati del sito Operabase, attualmente è tra le 50 opere più rappresentate al mondo, eppure all'Opera di Roma si è potuta ascoltare solo nel 1956 in traduzione italiana. Va dato merito, dunque, ai vertici del teatro romano per aver concesso al pubblico la prima serie di recite in lingua originale, nonché la seconda in assoluto, di questo capolavoro russo. La regia è di Richard Jones, realizzata in co-produzione tra vari teatri, inaugurata alla Welsh National Opera nel 2000 e giunta a Bologna nel 2002. Questa recensione è basata sulle recite del 23 e del 30 giugno.
Ci troviamo in una Russia post-rivoluzione che da un lato ci tiene a rappresentarsi ancora sfarzosa, con profluvi di servitori che attorniano la Contessa e dame di compagnia che affollano la stanza di Liza, ma dall'altro non può impedire al tempo e alle ristrettezze di corrompere anche le dimore nobiliari, lasciate all'incuria e poverissime di mobilia. L'atmosfera immaginata dal regista (ripreso in questa e altre occasioni da Benjamin Davis) e realizzata grazie alle scene e ai costumi di John Macfarlane, dunque, sfida il libretto di Modest Čajkovskij, eludendo i canoni grand'operistici, ma rimanendo nei binari della narrazione puskiniana e, anzi, recuperando in parte l'ironia dello scrittore russo messa in ombra nell'adattamento melodrammatico.
L'attacco viene portato al cuore dell'impianto grand'operistico: le danze del secondo atto vengono sostituite da uno splendido spettacolo di marionette curato da Green Ginger, i giardini d'inverno e il lungofiume vengono realizzati con la sola presenza in scena di tre panchine, gli scuri fondali sembrano voler comunicare il cupo delirio di German, negli abiti non c'è traccia di sfarzo (Polina, per cantare la romanza del secondo quadro, indossa addirittura delle bianche scarpe da ginnastica) e dimentichiamoci la Zarina col suo imponente codazzo.
La regia di Jones alterna splendide trovate a cadute più o meno volontarie. La scena della Contessa ne è un bell'esempio: il dipinto dietro al quale German si nasconde, enorme e appoggiato in un angolo, è lo stesso visto all'inizio dell'opera; la Contessa entra in scena, levandosi la parrucca e rivelando i capelli grigi e scomposti, poi si cambia e le cameriere preparano di fronte al dipinto una vasca in cui si immerge, dopo aver rievocato i tempi che furono, finendo di canticchiare tra sé e sé. Fin qui perfetto, poi il disastro. German esce dal nascondiglio, fa “ciao ciao” con la manina per vedere se è addormentata, poi la sveglia e, durante la perorazione, a un certo punto le tira via l'asciugamano, gettandolo a terra e lasciandola nuda, contrariata ma del tutto silente; quindi, estrae un pistolone modello Beretta. Al vederlo, la Contessa muore in posa artistica. La reazione composta di Liza, di fronte al cadavere della nonna, suggella in modo poco convincente la scena. All'inizio della scena successiva, però, il gigantesco ritratto del volto pallido visto durante il preludio si ripresenta, deformato ancora di più, rappresentando il disfacimento finale, il totale annichilimento della carne che segue alla morte della Contessa e introduce alla tremenda visione dei funerali da parte di German.
Il coro viene gestito con poca coerenza: nella scena finale, la cura ad personam dà ottimi frutti, ogni membro è definito scenicamente e funzionale all'azione; in altri momenti, gestito unitariamente, dà voce al delirio di German; spesso, però, le masse corali si avvicendano in scena vagando qua e là senza criterio, rivolgendosi direttamente al pubblico, ferme al centro del palco.
Anche le trovate meta-teatrali non convincono: il coro femminile, durante la romanza di Polina, crea una stereotipica e immobile coreografia che termina con tutte le ragazze sdraiate, a mo' di cadaveri, proprio mentre la melodia si conclude sulla parola “tomba”; German, durante la coinvolgente aria in cui Liza scopre il proprio amore segreto, gattona buffamente sul soffitto della casa, si affaccia alle finestre, sporgendosi, e svolge così la prima metà del duetto, dopodiché scompare, per entrare poco dopo nella stanza di Liza rompendo la quarta parete e, con essa, l'illusione scenica. A tal proposito, val la pena dire che, a seconda delle serate, si è assistito a cambiamenti registici: il 23 giugno Liza, sparito German, è salita sul pianoforte per cercare invano di arrivare alla finestra (causando risatine tra il pubblico), il 30 giugno si è limitata a rimanere immobile mettendosi le mani tra i capelli; il 23 Tomskij, durante la ballata dell'ultima scena, sculaccia e gioca eroticamente con una donna vestita da uomo, il 30 la stessa scena ha avuto come controparte un uomo truccato in modo femminile (riprendendo la versione registica originaria).
Alcuni momenti sono memorabili. Nella scena dell'apparizione, il letto matrimoniale in cui German riposa è attaccato verticalmente a un fondale; questo e degli artifici tecnici creano il bell'effetto di visione dall'alto nella stanza. L'effetto, oltretutto, non è fine a sé stesso, ma funzionale all'elemento fantastico: anziché il fantasma della Contessa, ne appare lo scheletro gigante (ricorda quello del famoso Ballo in Maschera dello stesso regista), direttamente nel letto, corroborando l'atmosfera grottesca (alcuni ridono, altri rimangono affascinati o spaventati) e sottolineando l'implicita tensione sessuale tra i due che percorre l'opera da cima a fondo.
Lo stesso scheletro gigante compare proprio nel finale, dopo la beffa della terza carta, affacciandosi dalle finestre della casa da gioco e spingendo German al suicidio. La scena finale è tutta ambientata attorno a un grandissimo tavolo verde rotondo e leggermente inclinato, sul quale i personaggi salgono nei momenti di maggior concitazione drammatica, che richiama quello già visto nello spettacolo di marionette.
Il duetto finale tra Liza e German è giocato sul senso di incomunicabilità: lui entra in pigiama e soprabito, evidentemente assorto dalla scatola che ha in mano, avvolta da una busta di plastica con la quale, alla fine della scena, Liza si ucciderà, e ripete le amorose frasi di lei meccanicamente, come si fa per far vedere che stiamo seguendo il discorso quando in realtà siamo presi da ben altro. Si scuote solo alla domanda “Dove andiamo?” e, con gli occhi che brillano di pazzia, risponde “Alla casa da gioco!”. Aggiungendo a queste scene la già citata recita di marionette e, in virtù della splendida interpretazione del tenore, le scene che vedono German come protagonista, il giudizio complessivo sulla regia di Jones è decisamente positivo.
Maksim Aksenov, già noto al pubblico romano per aver interpretato il ruolo del protagonista nella Rusalka di inizio stagione, non ha una voce molto potente e non è dotato di particolare squillo, limiti non indifferenti; in compenso, è fornito di un timbro vellutato molto gradevole, la voce rimane abbastanza corposa quando scende all'ottava bassa e riesce con sicurezza a dominare gli acuti, anche alleggerendo e sfumando ove necessario. Ma, soprattutto, Aksenov interpreta: nel canto, nei recitativi, immedesimandosi nel personaggio, riesce a rendere con credibilità un ruolo faticoso e difficile come quello dell'ossessionato German. La cavatina non colpisce, pur venendo svolta correttamente, mentre il primo duetto con Liza e la scena dell'apparizione sono ben fraseggiati e interpretati con musicalità e intensità. Ottima la lettura di entrambi i biglietti di Liza. Il quarto quadro soffre di debolezza musicale, oltre che delle debolezze drammatiche di cui abbiamo detto, ma i brani cantati da Aksenov e il suo rovistare frenetico nei cassetti, alla ricerca del segreto, fanno scorrere la scena. Le due perle giungono verso la fine dell'opera: nel duettino con Liza lo sguardo perso nel vuoto e il muoversi a scatti della testa fanno tutt'uno con un canto meccanico, che si anima solo al baluginare dei “mucchi d'oro” che lo attendono alla casa da gioco. Il modo in cui corre fuori scena, poi, lasciando in mano a Liza la busta di plastica con cui si ucciderà, è del tutto credibile e fondamentale per la visione drammaturgica. Ancora meglio nell'ultima scena, in cui a un canto coinvolgente e a tratti potente (nell'aria in cui sfida la morale imperante e invita i presenti a “cogliere l'attimo”) fa da contraltare un florilegio di alleggerimenti, chiaroscuri e pianissimo di un'intensità assolutamente realistica, come l'ultima richiesta di perdono al principe e l'invocazione dell'amata. Il suicidio con la pistola, del tutto credibile, rappresenta la ciliegina sulla torta.
Discorso quasi opposto per la Liza di Oksana Dyka: voce potente e acuti penetranti, ma debole nella discesa all'ottava bassa, dal timbro querulo e, soprattutto, poco comunicativa, sia emozionalmente che a causa di un fraseggio abbastanza piatto. La recitazione è scialba, al pari del canto, in un ruolo che richiederebbe un maggiore abbandono: di fronte alla nonna morta, l'espressione è quasi la stessa del primo duetto d'amore e del suicidio (sulla ridicolezza del quale, oltretutto, forse incide non poco la realizzazione maldestra). Le sue arie scorrono senza infamia né lode, e il momento di maggior approvazione da parte del pubblico, con breve applauso a scena aperta, giunge al termine dell'aria nella scena sulla Neva.
Da un punto di vista prettamente canoro, il mattatore della serata è senza dubbio Vitalij Bilyy nei panni del Principe Eleckij: potenti e comunicativi gli interventi nella prima e nell'ultima scena, ottima l'aria «Ja vas lyublyu», in cui comunica a Liza di essere addirittura disposto a farsi da parte, pur di vederla felice, al termine della quale riceve un grande applauso condito da vari “Bravo!”; la voce è pastosa, ben governata e proiettata, sia nella salita all'acuto che nell'ottava bassa, il fraseggio convincente. Molto bene anche la Polina di Elena Maximova, voce scura, molto musicale, sicura negli acuti e potente in basso, rende con grande fascino la malinconica romanza da salotto, il precedente duettino con Liza e la canzone popolare successiva. Molto bene anche nel sotto-ruolo mozartiano di Bellosguardo.
Il Conte Tomskij di Tómas Tómasson è, assieme a Aksenov, il migliore nel fraseggio e nella recitazione: di grande capacità comunicativa, dotato di voce abbastanza potente, svolge un'ottima aria nella prima scena in cui racconta la storia della Contessa, con l'unica pecca dell'acuto finale, fisso e bruttino; molto bene anche nella ballata dell'ultima scena, in cui, oltre a cantare, sballotta di qua e di là il/la malcapitato/a di turno, schiaffeggiandolo/a sulle natiche e sbattendolo/a sul tavolo da gioco. Un tantino ruvido nel ruolo mozartiano di Montedoro, in cui non può mettere in mostra le proprie capacità recitative, essendo sostituito da un fantoccio, sopperisce allo stile con musicalità ed espressività.
La Contessa di Elena Zaremba, benché parzialmente afflitta da vibrato largo, è dotata di voce sonora e canta più che dignitosamente nel lungo e frastagliato quadro della propria morte; purtroppo la rapidità musicale non giova all'atmosfera di ipnotica malinconia che dovrebbe improntare queste pagine. Inoltre, il personaggio della Contessa dovrebbe essere dotato di enorme carisma che, purtroppo, nella Zaremba latita alquanto. In compenso, la recitazione è convincente e il fraseggio curato. Molto bene la Prilepa di Yuliya Poleshchuk, precisa nel canto e nelle fioriture del proprio ruolo mozartiano, nonché dotata di bel timbro.
Bene anche i comprimari. Vadim Zaplechny è un Čekalinskij becero e infantile (gestacci osceni ripetuti e risatacce durante la ballata di Tomskij e in altri momenti), Vladimir Reutov impersona Čaplickij nonché lo squillante cerimoniere, Gabriele Ribis Narumov, Magdalena Krysztoforska Maša; menzione speciale per gli ottimi Mikhail Korobeinikov nei panni di Surin e Anna Viktorova in quelli della fastidiosa governante.
I mesi spesi a preparare queste rappresentazioni sotto la direzione di Roberto Gabbiani si vedono tutti: il Coro dell'Opera di Roma ottiene degli splendidi risultati, compatto e musicalissimo fin dalla prima scena. Le voci femminili, nel secondo quadro, si cimentano con successo nella canzone popolare, quelle maschili che portano a casa un quadro finale al fulmicotone, con la ciliegina sulla torta del breve ma intenso compianto funebre per German, senza dimenticare il coro fuori scena nel momento in cui German rievoca i funerali della Contessa e il curatissimo Coro di voci bianche in apertura d'opera.
James Conlon dirige benissimo l'Orchestra dell'Opera di Roma, trovando il bandolo della matassa in una partitura così eterogenea, piena di riferimenti, citazioni e differenti linguaggi musicali. Già dal preludio si vede come il lavoro sul suono orchestrale sia quello che da sempre contraddistingue Conlon, con una ricerca di musicalità schietta, eufonica, in cui gli archi svolgono un lavoro imponente, venendone ricompensati da alcuni momenti assai riusciti, come il perfetto e memorabile ingresso all'interno dell'aria di Eleckij. Molta l'attenzione nell'intermezzo pastorale e nella scena dell'apparizione a produrre una resa analitica che, pur rispettando l'effetto d'insieme, non infici alcuna componente e dispieghi appieno il potenziale drammatico. L'unica pecca della direzione, come dicevo, mi sembra il quarto quadro, in cui, per tenere tutto insieme ed evitare sfilacciamenti, il ritmo troppo sostenuto fa sfumare l'effetto ipnotico e catartico che dovrebbe sortirne. Nel finale, oltre all'ottimo accompagnamento nella ballata di Tomskij e nell'ultima aria di German, la chiusa ieratica del tutto riuscita, con le voci scurissime e deploranti dei testimoni della morte, fa meritare a Conlon l'applauso convinto del pubblico.
Michelangelo Pecoraro