Francesca | Daniela DessÌ |
Paolo Il Bello | Fabio Armiliato |
Giovanni, Lo Sciancato | Alberto Mastromarino |
Malatestino Dall’occhio | Ludovith Ludha |
Samaritana | Patrizia Orciani |
Biancofiore | Bernadette Lucarini |
Smaragdi | Giacinta Nicotra |
Ostasio | Danilo Rigosa |
Garsenda | Mimì Park |
Adonella | Sandra Pacheco |
Altichiara | Irene Bottaro |
Ser Toldo Berardengo | Mario Bolognesi |
Il Giullare | Mario Bellanova |
Il Torrigiano | Angelo Nardinocchi |
Il Balestriere | Luca Battagello |
Il Prigioniero | Pasquale Carlo Faillaci |
Orchestra e Coro del Teatro Dell’opera di Roma |
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Direttore Donato Renzetti |
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Maestro del Coro | Andrea Giorgi |
Regia | Alberto Fassini |
Scene | Mauro Carosi |
Costumi | Odette Nicoletti |
Coreografia | Marta Ferri |
Luci | Bruno Monopoli |
L’opera di Zandonai mancava dal palcoscenico del massimo teatro lirico capitolino dal 1975 (protagonisti, sotto la direzione di De Fabritiis, erano I. Ligabue e R. Bondino). Era giusto quindi tornare a considerare la lussureggiante partitura di Zandonai e riproporla in un’edizione tutto sommato di alto livello come quella che è stata collocata quasi in coda al cartellone 2003. Una musica quella di Zandonai in cui è facile individuare, a parte nell’imitazione di accordi medievaleggianti (in relazione all’epoca della vicenda), dei nuclei straussiani (molte assonanze ad esempio nel II atto con Elektra) e wagneriani (reminescenze del Tristano e Isotta). Ma troviamo anche motivi che ricordano da vicino anche il tardo Puccini (il finale III fa pensare al finale I di Fanciulla del West). Come che sia, il risultato al quale arriva Zandonai è originale, tipicamente novecentesco con aperture anche a stili e movenze che caratterizzeranno il teatro successivo. Ma ciò che è interessante notare è la distribuzione del soggetto in 4 atti perfettamente equilibrati anche sul piano dell’atmosfera che vi si respira: il I e il III atto sostanzialmente elegiaci ed amorosi con un forte meccanismo di sospensione e di attesa (specie per la protagonista). Taglienti, violenti o addirittura barbarici il II ed il IV dove però abbiamo una forte caratterizzazione dei personaggi ‘noir’ in opposizione ai turbamenti di Francesca e all’ardore passionale di Paolo. Possiamo subito iniziare dicendo che l’orchestra si è comportata molto bene nell’andamento esecutivo, guidata anche da un Renzetti di grandissime qualità che ha saputo ottenere dal complesso strumentale romano non solo le sonorità magniloquenti dei passi più accesi (il finale II era impressionante in quanto a dovizia sonora, come anche tutta la prima parte del IV), ma anche oasi liriche in cui la scrittura prevede pianissimi. Notevolissimi in proposito due momenti: l’ingresso di Francesca nel I atto (in cui la frase iniziale di Francesca «Amor mi fa cantare» è stata preparata con belle sonorità felpate, ma non inconsistenti) e tutta la lettura della vicenda di Lancillotto e Ginevra che chiude il III. Insomma una intelligente prestazione in cui però pesava un taglio, a mio avviso ingiustificato, come la scena dell’incubo (IV atto, sc. II), ma su questo ne parlerò più avanti. Sul piano vocale Francesca da Rimini presenta per i personaggi maggiori una scrittura piuttosto impegnativa, specialmente per il soprano e il tenore chiamati ad esprimere diversi stati d’animo. In Paolo dall’eroismo battagliero, al ricordo, fino alla passione; in Francesca il turbamento, il contrasto interiore, il senso di colpa e, chiaramente, tutta la carica della sensualità che un personaggio simile porta con sé. Ma anche Gianciotto e Malatestino non possono essere sottovalutati: il primo contrassegnato da una deformità fisica che si riflette nella violenza verbale e di comportamento (sarebbe interessante considerare sul fatto che questo tipo di personaggi etichettati come ‘cattivi o violenti’, lo siano anche a causa di deficienze e deformità fisiche contro le quali la violenza rappresenta la protesta) ed il secondo che oltre a tali deformità ha in sé quello che Francesca individua benissimo nel IV atto nella frase «Sei un fanciullo perverso». Ecco appunto la perversione ! Potremmo definire Malatestino come un “figlioccio spirituale” di Scarpia e un fratello solo un po’ più nobile di Tonio. Gli altri personaggi, in gran parte femminili, servono come corona della vicenda. Di essi almeno due hanno uno spazio maggiore nell’economia della vicenda: Samaritana (qui interpretata da un’ottima Patrizia Orciani) e Biancofiore (una brava Bernadette Lucarini. Per inciso: Biancofiore è stato il debutto di una grandissima cantante: Toti dal Monte e ciò a 2 anni dalla I assoluta di quest’opera - 1914 - ad appena 17 anni nel 1916). E veniamo più direttamente a ciò che si è visto e sentito. Anzitutto la regia, le scene e soprattutto il gioco di luci. Ambientata in un’epoca dichiaratamente liberty, più vicina a D’Annunzio che al Medioevo, la regia è stata di estrema coerenza facendo muovere i personaggi con atteggiamenti molto vicini al teatro/cinema dell’epoca. Ad esempio Francesca nel I atto ricorda molto da vicino certe dive del muto. Ma questo non significava, nel prosieguo degli atti, enfasi o cattivo gusto che potevano rappresentare insidie a causa della passionalità della trama (veicolata anche dall’autore del libretto) e della magniloquenza sonora della partitura. C’è da dire invece che i personaggi si sono mossi anche con un certo dinamismo, anche se nel II atto mi sarei aspettato un maggiore coinvolgimento e dei movimenti più ‘guizzanti’. Di fortissima presa e ottimamente reso l’abbraccio e il bacio del finale III (anche per il rapporto che lega la coppia protagonista) nonché tutto l’inizio del IV anche se qualcuno degli esecutori - come vedremo - non era perfettamente all’altezza pur non mancando di meriti. Belli anche i costumi: cangianti nella coppia Paolo-Francesca, immutati ma efficaci nella coppia degli altri due fratelli Malatesta. La scena non occupava tutto lo spazio del palcoscenico, ma era circoscritta da tre mura che lasciavano - a destra e a sinistra - la possibilità di vedere l’ingresso dei personaggi ed aveva poco di medievale, ma era notevole nel presentarci specie nel III e nel IV atto una separazione di fondo con una cancellata che lasciava trasparire ora il mare, ora il cielo. Colori belli, ma la carta vincente era il sapiente gioco di luci che commentavano i risvolti della vicenda: dal biancore dell’attesa di Francesca nel I atto al grigio ferro della battaglia (II atto), al celeste dell’idillio primaverile e dell’amore dei due protagonisti (III atto), fino ad arrivare alle tetre e rossastre tinte del IV, specialmente nella I parte dove un enorme coperchio a specchio si elevava dal centro lasciando vedere una scala a chiocciola che conduceva nella prigione dove Montagna viene decapitato. I richiami scenico-gestuali alla Salome di Strauss erano evidenti anche perché Malatestino invece di gettare la testa mozza a terra (come da libretto), la poneva sul tavolo apparecchiato di Gianciotto. Molto cangiante, in fatto di colore, anche il finale, indice appunto di una trasformazione: dalla gioia dell’incontro sospirato (e temuto) espresso con tinte celesti fino al grigio terrore mortifero della fine in cui i due muoiono trapassati dall’unico colpo di Gianciotto e cadono abbracciati, segno appunto del luogo comune che vede amore-morte in stretto connubio. Finale un po’ scontato, ma di forte presa per il pubblico, non moltissimo per la verità, che ha applaudito calorosamente. Veniamo alla parte vocale: molto brava la Dessì che ha saputo rendere scenicamente e vocalmente il suo personaggio. Di notevole compattezza, il suo organo vocale le ha permesso di rendere le diverse esigenze del ruolo, anche se si comprende che resta fondamentalmente un soprano lirico in cui alle sfumature e ai pianissimi risolti brillantemente, corrisponde forse meno la frequenza alle impennate acute che Francesca esige con certo slancio. Beninteso: in esse, la Dessì non ha sfigurato, ma non ha mostrato quella perentorietà, tipica di altre primedonne. Comunque sono rilievi non vogliono apparire negativi poiché non vanno a toccare la tecnica e la bravura di questa nostra cantante, quanto piuttosto - a mio avviso - la propensione vocale verso personaggi più lirici che marcatamente drammatici (come è Francesca ancor più di Tosca, anche per la lunghezza dell’opera). Una prova positiva che purtroppo non poteva giovarsi della scena dell’incubo (all’inizio della seconda scena del IV atto) che è stata tagliata: un vero peccato, perché la Dessì l’avrebbe superata molto bene, soprattutto in forza di quell’accentazione fervida che ha mostrato in tutta l’opera. Una cosa da riconoscere in positivo alla Dessì è il suo ampliamento di repertorio che andrebbe però dilazionato nel tempo, per non compromettere una delle voci più belle ed espressive che abbiamo in circolazione. Bravo anche Armiliato che - come è stato annunciato nell’intervallo tra II e III atto - non era in perfetta forma fisica. Ciò si è avvertito specie in alto, però con notevole presenza, dizione scandita e buona vocalità ha saputo rendere il personaggio di Paolo soprattutto sul versante passionale. Un po’ meno nelle espressioni elegiache e nelle mezzevoci. È chiaro che l’affiatamento della coppia protagonista ha contribuito non poco non solo alla riuscita delle varie effusioni, ma anche alla simbiosi vocale e scenica. Un grandissimo Gianciotto è stato Mastromarino: cantante molto dotato sul piano vocale specie nel volume (ricordava nel timbro il grande G. G. Guelfi), ha offerto anche in virtù del costume (alla Conan il barbaro, per intendersi) tutta la protervia e la rozzezza del personaggio («sciancato e rozzo e con quegli occhi di dimòne furente» lo definisce Ser Toldo nel I atto). Sguaiato (ma nella migliore accezione del termine), selvaggio e violento ha creato davvero un efficacissimo contrasto con la signorilità di Paolo e con la nevrosi di Malatestino, senza contare che in tutti i momenti di scrittura tesa la voce ha risposto a meraviglia, senza difficoltà e senza neppure risparmiarsi. Il pubblico l’ha capito e al termine dell’opera lo ha premiato. Meno attraente il Malatestino di Ludha e ciò soprattutto per un motivo: per lo scarso gioco della parola. Questo personaggio - specie nel IV atto - gioca molto sull’ambiguità del detto-non detto con le varie insinuazioni di cui è prodigo nei confronti di Francesca e Gianciotto. Ad esempio, le tipiche frasi interrogative a Francesca «Chi vuoi tu chiamare ?» oppure «Quale ?» in risposta a Francesca che gli risponde «Tuo fratello». E ancora, dinanzi a Gianciotto, troviamo espressioni come: «Tu ti chiami Gianciotto et io son quel dall’Occhio... Ma Paolo è il Bello» e quel che segue, non sono state l’ideale in fatto di perfidia nel canto di Ludha, peraltro corretto. Se si pensa a quanto hanno lasciato in disco M. Ferrara (nel live’veneziano del 1961 con la Gencer) e, soprattutto, P. De Palma (nell’edizione in studio con la Kabaiwanska) il divario era notevole. Ma il pubblico ha premiato anche questo solista e, forse, con ragione perché vere e proprie brutture o scadimenti non li ha fatti. Forse un maggiore coinvolgimento ed un maggior sapiente uso della parola non avrebbero guastato. Epilogo simpatico e per me molto gratificante: presente in sala come spettatrice una grandissima Francesca: Renata Scotto. Preso il coraggio mi sono avvicinato al suo palco e l'ho salutata e l'ho ringraziata per le grandi cose che ci ha donato nella sua carriera: una miniatura di persona, ma di una finezza ed una signorilità uniche. Immensa artista!
Luca Di Girolamo