Conte d'Almaviva | Edgardo Rocha |
Don Bartolo | Simone Del Savio |
Rosina | Chiara Amarù |
Figaro | Florian Sempey |
Don Basilio | Ildebrando D'Arcangelo |
Fiorello | Vincenzo Nizzardo |
Ambrogio (attore) | Sax Nicosia |
Berta | Eleonora De La Peña |
Un ufficiale | Fabio Tinalli |
Regia, Scene e Luci | Davide Livermore |
Costumi | Gianluca Falaschi |
Illustrazioni | Francesco Calcagnini |
Video | D-WOK |
Effetti magici | Alexander |
Direttore d'orchestra | Donato Renzetti |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
Fortepiano | Marco Forgione |
Coro e Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma |
Grazie alla notorietà del titolo, all'occasione speciale (la celebrazione per i 200 anni dalla prima assoluta), alla diretta televisiva e al clamore suscitato dalle contestazioni della prima, le otto recite de Il barbiere di Siviglia al Teatro dell'Opera di Roma hanno registrato il “tutto esaurito”. A prescindere dal giudizio critico sulla messa in scena, dunque, la dirigenza dell'ex teatro Costanzi può festeggiare: ancora una volta, la scelta di mettere mano a un nuovo allestimento premia con ottimi risultati al botteghino (si parla di quasi “800.000 euro di incasso complessivo”). Un volano per le prossime produzioni, a cominciare dal Benvenuto Cellini di Berlioz con la regia di Terry Gilliam che sarà messo in scena a partire dal 22 marzo.
“Me ne fregio!” ha scritto il regista Davide Livermore sulla propria pagina Facebook, il giorno dopo i fischi e i buuu. Citazione della battuta con cui il grande Ettore Petrolini rispose a un'onorificenza elargitagli da Mussolini. Petrolini, dunque, se ne freg(i)ava delle onorificenze, Livermore delle contestazioni. Citazione è anche il gesto con cui il regista, dal palco, ha risposto ai contestatori: un grido e una posizione di combattimento tratti dall'anime Ken il guerriero. Citazioni sparse a piene mani anche all'interno della messa in scena: cinematografiche, musicali, operistiche, teatrali, estetiche. Si parla di icone come Tim Burton & Stanley Kubrick, Elvis Presley & Freddie Mercury, celebri allestimenti che furono della medesima opera, celebri gag e chi più ne ha più ne metta. Quasi il corrispettivo registico del cavalier Marino, il sommo maestro della poesia barocca che si vantava di “leggere col rampino”.
La cavalcata promessa dal regista nei duecento anni dalla “venuta al mondo” del Barbiere si sostanzia – oltre che nei cambi di costumi e arredamento – nella presenza di elementi caratterizzanti delle varie epoche: Lindoro effettua la sua “serenata” usando un “vecchio” telefono a cavo, ma nell'ultima scena coristi e personaggi si aggirano sul palco brandendo cellulari e panini da fastfood.
Su tutta l'opera viene spalmata l'idea della rivoluzione: dove Beaumarchais, Sterbini e Rossini non avevano osato, Livermore si butta a precipizio. Una non troppo lunga sfilata di celebri monarchi, capi di stato e/o dittatori più o meno sanguinari, compreso Mussolini appeso a testa in giù (sottilissima ironia che, probabilmente, ha maldisposto parte del pubblico romano fin dal principio), tutti schiumati e decapitati dal rasoio di un barbiere più e più volte. Alla fine del video introduttivo, anche Beaumarchais viene decapitato e dal suo collo spunta il faccione di Rossini. Dai ritratti, rubinetti aperti fanno scorrere fiumi di sangue, e dai corpi senza testa spuntano simboli di dominio economico-capitalistico come la faccia di Paperino, una trivella petrolifera et cetera. Un topo imperversa nei video e sul palco: elemento di disturbo e caos, dice Livermore. Un figurante vestito da orso rimane fermo a lungo, poi si rende protagonista di un paio di gag: elemento che rappresenta la conservazione e le forze reazionarie, dice Livermore.
E poi c'è la magia. Poiché lo spettacolo sembrava povero e privo di stimoli sui quali riflettere, Livermore decide di riempirlo inserendo, qua e là, piccoli sketch tratti dalla tradizione magica: la scatola in cui viene inserito e arrotolato su sé stesso Bartolo, la finta levitazione (finta perché Bartolo svela il trucco che c'è dietro, con ammiccamento “meta-” di cui si sentiva la necessità, data la scarsità di elementi scenici già presenti) e qualcos'altro.
Un enorme caravanserraglio di simboli, idee, interpretazioni, riproposizioni. In tutto ciò, il pubblico, intento a decodificare, interpretare, destrutturare e ristrutturare, di tanto in tanto si sarà chiesto perché dei tizi stessero sul palco a cantare e altri in una buca là davanti, con degli strumenti in mano. La trama poi, complice l'addetto ai sovratitoli che ha deciso di cominciare a lavorare con dieci minuti di ritardo e, ogni tanto, ha pensato bene di distrarsi, forse non sarà stata compresa per bene proprio da tutti i presenti. Ma in fondo, avranno pensato i realizzatori, la trama di quest'opera è fin troppo nota: facciamo tutto in 50 sfumature di grigio, ché piace tanto, e riempiamolo con ogni cosa ci passi per l'anticamera del cervello. Così daremo modo a chiunque di trovare qualcosa di carino, ai critici di esercitarsi in esercizi di stile e ai detrattori di appigliarsi a qualcuno degli elementi che non hanno trovato di proprio gradimento.
La parte musicale, purtroppo, è stata solo leggermente migliore di quella visiva. La sera di giovedì 18 febbraio, va detto, ad alcune delle pecche che si erano ascoltate in televisione era stato già posto rimedio; soprattutto non c'è stato quasi nessuno sfasamento tra buca e palco (di certo, nessuno grave come quelli sentiti la sera della prima). La direzione di Donato Renzetti alla guida dell'Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma, purtroppo, non è risultata convincente per altri motivi: i tempi genericamente lenti, la pesantezza del suono e la mancanza di quel brio e di quella tensione sottopelle che, soli, rendono giustizia a una musica che, altrimenti, rischia di apparire davvero, come ha scritto qualche giornalista che forse di opera non mastica molto, “bella, ma un po' meccanica […], vicina ai carillon per bambini”.
Chiara Amarù, interprete di Rosina, la sera del 18 si è dichiarata indisposta “per un grave problema muscolare”. Ciononostante, a parte qualche problemino di intonazione, ha portato a casa una buona prestazione ed è stata giustamente ricompensata da molti applausi: voce abbastanza potente, capace di districarsi bene nei meandri di una coloratura a volte infida, autoironica e smaliziata quel tanto che basta per calzare a pennello nei panni della giovane innamorata segregata in casa, cantante dal fraseggio intelligente e dotata di gran verve, in grado di catturare l'attenzione del pubblico e di svettare nei concertati.
Il giovane Florian Sempey è dotato di voce ampia ed è generoso nell'usarla: note tenute con apparente facilità e qualche acuto fuori ordinanza, seppur dall'effetto non travolgente. Bene nelle agilità, anche se a tratti si nota una leggera differenza di vedute tra l'agogica del cantante e quella del direttore. Come interprete, Sempey si mostra tradizionale e corretto, con qualche leggerissimo problema di dizione (soprattutto sulle doppie), ma da Figaro ci si aspetta sempre qualcosa in più: un guizzo, un carisma che ancora difettano parzialmente e che, si spera, giungeranno con l'esperienza e l'affinarsi del ruolo.
Edgardo Rocha è tenore di grazia in grado di emettere tutte le note del Conte Almaviva (e non è poco, soprattutto nella versione comprendente il rondò finale Cessa di più resistere) e anche di effettuare variazioni e inserire acuti extra. La voce è piccola, però, e non è compensata da una proiezione particolarmente efficace: l'impietosa pietra di paragone è la maggiore udibilità che ha, fin dall'inizio, la voce del bravo Vincenzo Nizzardo nei panni di Fiorello. Non lo aiuta, oltretutto, l'accompagnamento orchestrale abbastanza pesante in alcuni momenti che lo costringe a sforzare, perdendo la soavità che dovrebbe contraddistinguere una voce chiara come la sua.
Simone Savio è un Don Bartolo dal fraseggio accattivante, dal canto corretto e dal volume più che dignitoso. Nei diabolici sillabati, soprattutto quello noto dell'aria A un dottor della mia sorte, perde un po' di volume nelle note conclusive per non inficiare l'agogica e non prendere fiato ove non andrebbe preso. Scelta che sento di condividere, ma che mette in risalto i limiti naturali del cantante che a tratti fatica a star dietro alle estreme difficoltà canore proposte da Rossini. L'interprete, comunque, anche grazie alla valida e divertente recitazione (messo su una sedia a rotelle per buona parte dello spettacolo), coglie un meritato successo.
Ildebrando D'Arcangelo mostra di divertirsi molto nei panni del Basilio dalla mano meccanica (pluricitazione), artificio che però crea alcuni problemi all'ascolto a causa del rumore alto e usato con enorme frequenza anche durante il canto. La voce del basso è pastosa, bella da ascoltare come sempre e si lancia con baldanza negli acuti. Nessun problema nei sillabati e ottime la dizione e l'espressività del canto.
Eleonora De La Peña veste bene i panni di Berta: “eccì” a tutto spiano e una ben cantata Il vecchiotto cerca moglie le valgono gli applausi del pubblico. Bene anche Fabio Tinalli nei panni di un ufficiale e l'attore Sax Nicosia in quelli del perennemente stanco Ambrogio.
Marco Forgione al fortepiano si prende qualche risata quando, nel recitativo precedente alla “serenata” telefonica, produce l'inconfondibile suoneria del Nokia tratta dal Gran Vals di Francisco Tarréga, idea divertente. I recitativi vengono accompagnati da un gran quantitativo di note, rendendolo di fatto il co-protagonista della serata assieme all'orchestra. Alcuni recitativi comunque vengono tagliuzzati, anche per scelte registiche, come alcune righe della lettera che Rosina lascia cadere dal balcone, lette di fretta e a denti stretti da Figaro e dal Conte.
Il coro dell'opera di Roma diretto da Roberto Gabbiani non è certo in una delle serate più felici, considerando però l'attenuante del palco grande e diviso in modo complesso, per cui qualche attacco non proprio in sincrono e qualche disomogeneità tra le voci è più che comprensibile.
Michelangelo Pecoraro