Mirko Zeta | Marcello Lippi |
Valencienne | Daniela Mazzucato |
Danilo | Manuel Lanza |
Hanna Glawari | Fiorenza Cedolins |
Camillo De Rossillon | Vittorio Grigolo |
Visconte Cascada | Armando Gabba |
Raoul De Saint Brioche | Stefano Consolini |
Bogdanovich | Alessandro Battiato |
Silviana | Bérangère Warluzel |
Kromow | Marco Santoro |
Olga | Manuela Boni |
Pritschitch | Massimiliano Gallo |
Praskowia | Giuditta Saltarini |
Njegus | Vincenzo Salemme |
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Direttore | Daniel Oren |
Regia | Vincenzo Salemme |
Scene | Alessandro Chiti |
Costumi | Giusi Giustino |
Maestro di Coro | Andrea Giorgi |
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Coro e Orchestra |
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Dell'opera di Roma |
L’operetta, sostituita sui palcoscenici italiani, in gran misura, dalla commedia musicale, torna nei nostri teatri maggiori in occasione delle feste di Natale e di Capodanno. E’ un genere – ricorda Mario Bortolotto nel libro Consacrazione della Casa – che “trasforma in senso borghese quel filone che si vuole aureo” – “il suo accento futile e godereccio – aggiunge – è ricco di troppi armonici legittimisti per non incantare molti sopravvissuti alle bufere” (delle guerre del XIX secolo – n.d.r). Si adatta, quindi, ad un continente vecchio in cui il declino è uno dei temi più frequenti di conversazione, pure nei foyer dei teatri. La vedova allegra di Franz Lehár è, però, un’operetta speciale. La sua prima rappresentazione, al Theater an der Wien, ebbe luogo il 30 dicembre 1905, appena tre settimane dopo quella di Salome di Richard Strauss a Dresda. E nel suo genere è rivoluzionaria tanto quanto il lavoro di Richard Strauss lo è “nel filone aureo”. In effetti, all’inizio del XX secolo, l’operetta pareva una forma di spettacolo ormai al tramonto. In Austria con la morte di Johann Strauss si era conclusa l’età dell’oro nella quale il genere rispecchiava una borghesia ricca (e molto poco “imperiale”). In Francia, non c’erano più né Jacques Offenbach né il mondo (principalmente quello del Secondo Impero) nei cui confronti le sue operette lanciavano un’ironia graffiante. Viveva nelle satire sottilmente perverse che in Gran Bretagna la “premiata ditta” Gilbert & Sullivan lanciava nei confronti della società vittoriana e post-vittoriana – in lavori densi di “idioms” (frasi idiomatiche e doppi sensi) e, quindi, difficilmente traducibili e apprezzabili a Sud della Manica. La vedova allegra arrivò con una vera carica rivoluzionaria per tre motivi. In primo luogo, per quanto adattata da una mediocre “pochade” di successo di Meilhac, non era una rappresentazione, più o meno ironica, della società e della politica del tempo ma una lettura visionaria di come la “Mitteleuropa” (Lehár veniva da un piccolo villaggio ungherese e per lustri si era guadagnato il pane nell’esercito, e guidando, quando poteva, bande di paese) si immaginava Parigi (metropoli dell’avvenire) e prendeva in giro gli Staterelli balcanici (considerati in via di modernizzazione). In secondo luogo, utilizza una linea melodica ricchissima e vi inserisce brani da “filone aureo” (la canzone di Vilja al secondo atto) unitamente a prestiti dal melologo (parlato accompagnato da orchestra). In terzo luogo, l’azione drammatica slitta, oltre che nei numeri musicali, nella danza, in una danza in cui, oltre ai valzer, alle polke, alle mazurche ed alle marce tradizionali, viene inserita la musica etnica (per l’appunto slava, portando in orchestra liuti d’ascendenza araba). Infine, la commedia in musica è coperta da un velo di malinconia, anticipatore, quasi quanto lo avrebbe fatto sei anni dopo Der Rosenkavalier di Strauss e Hofmannsthal, dei colpi di pistola di Sarajevo e, con la Prima Guerra Mondiale, della fine di un mondo. L’orchestrazione e la vocalità, in linea con questi tre aspetti fondanti, ne fanno un capolavoro musicale, adorato da concertatori del livello di Kleiber, Rudel, von Karajan e von Matacic.
Questa premessa è essenziale per comprendere la tesi secondo cui, quale che sia l’adattamento de La vedova allegra – il vostro “chroniqueur” ha spesso lodato attualizzazioni e trasposizioni – occorre rispettarne lo spirito. Non mi scandalizzerei di fronte ad una ambientazione “visionaria” nella New York di oggi (quale immaginata da una piccola borghesia europea) ed il Pontevedro fosse una Repubblica bananiera dei Caraibi o dell’America centrale. Sempre che venga rispettato il carattere “visionario”, l’equilibrio tra parole e musica e la magnifica partitura. Nel 1990, il Teatro dell’Opera di Roma riprendeva lo spettacolo prodotto dal S.Carlo di Napoli e lo riproponeva con grande successo; era l'allestimento curato da Mauro Bolognini in cui la vicenda veniva ambientata negli Anni '30 (prima di una Seconda Guerra Mondiale, i cui spari restavano distanti): costruito attorno a Raina Kabaivanska e Mikael Melbye, funzionava perfettamente e venne ripreso, oltre che nella capitale, in molte altre città.
Dubito che “il libero adattamento” di Vincenzo Salemme, fortemente contestato alla “prima” dalle proteste di spettatori che al secondo atto richiedevano la sospensione dello spettacolo, verrà ripreso. A Roma o altrove. A mio avviso, contiene seri errori di impostazione, di sintassi e di grammatica. Quelli di impostazione riguardano la trasposizione della vicenda in una Napoli macchiettistica ed una massiccia riscrittura delle parti parlate. Non ci sarebbe stato nulla di male nel trasferire l’azione nella Napoli dell’inizio del XX secolo – la Napoli di Salvatore Di Giacomo, capitale della cultura e del bel vivere dell’Italia e dell’Europa meridionale, vera controparte al sole di Parigi. In questo quadro, si sarebbe ben potuto utilizzare, per i numeri musicali, il testo originale tedesco (un piccolo miracolo non solo di ironia ma anche di fusione tra parola e musica) invece della pessima traduzione ritmica di tradizione. La Napoli di Salemme è invece quella delle commedie all’italiana Anni ‘50 e degli show televisivi. L’epoca è imprecisata: il Re sarebbe Carlo III (nel Settecento), ma Chez Maxim’s è un cabaret quasi da Anni ‘30 (più vicino alla Berlino di Weimar che alla ville lumière della belle époque), nel finale protagonisti e comprimari sono coperti da sacchetti di rifiuti della Napoli di questi giorni e non mancano riferimenti a compact disc taroccati nonché alle televisioni berlusconiane. Nulla di visionario, quindi, ma un’ambientazione a metà tra i filmetti che Totò girava con quatto lire in pochi giorni (tipo Imperatore di Capri ) e le trasmissioni di Michele Santoro, inframezzate da lazzi da avanspettacolo di provincia (quali quelli dei cinema varietà degli Anni ‘40). Niente di più distante dallo spirito del capolavoro di Lehár. Ove ciò non bastasse le parti riservate ai dialoghi vengono dilatate a dismisura dando allo spettacolo dimensioni quasi wagneriane (tre ore e mezzo, intervalli compresi). Inoltre, agli interpreti viene richiesto di scimmiottare il dialetto napoletano: anche al povero Manuel Lanza che è spagnolo, a Fiorenza Cedolins che è friulana, a Vittorio Grigolo che è aretino. E via discorrendo. Gli esiti sono disastrosi.
Gli errori di sintassi riguardano sopratutto l’impiego dell’amplificazione per i dialoghi. Salemme (uso a televisione ed a spettacoli all’aperto) forse non può farne a meno. Non si rende conto che ciò rompe gli impasti musicali di tutto lo spettacolo, non solo dei melologhi accompagnati da orchestra. L’orecchio del pubblico fa davvero fatica a passare dall’amplificazione “al vivo”, spesso gli attacchi orchestrali non si riescono ad udire. Si tocca l’abisso all’inizio del terzo atto quando Salemme (che interpreta anche Niegus trasformato in Pulcinella) canta in scena (amplificato) mentre orchestra e coro non sono amplificati. Gli errori di grammatica sono relativi principalmente all’orchestrazione. La direzione artistica del Teatro dell’Opera avrebbe dovuto ricordare a Salemme che non è né un Rimski-Korsakov, né uno Shostakovic né un Henze (mirabili riorchestratori di Mussorsgsky e di Monteverdi). Neppure un piccolo Guiraud (modesto riorchestratore di Bizet e di Offenbach). Non avrebbe dovuto permettergli di eliminare i liuti slavi, o di renderli inudibili e di introdurre i mandolini napoletani in Lippen schweigen. Forse Salemme ritiene che il pubblico del Teatro dell’Opera non conosce cosa sono una partitura ed una strumentazione, ed e pronto a pagare € 130 per quattro scherzi di dubbio gusto?
Difficile comprendere come e perché, Daniel Oren (di cui si ricordano ottime esecuzioni de La vedova allegra ) abbia accettato di essere parte di tale pasticcio. Impossibile esprimere un giudizio sull’orchestra. Sarebbe ingeneroso, date le condizioni in cui ha dovuto suonare . E’ auspicabile che, per minimizzare il danno, nelle repliche si tagli drasticamente il parlato e si rinunci a amplificazione ed a mandolini. Lo spettacolo, infatti, non è tutto da buttare o da dimenticare. La parte vocale è di certo livello. In primo luogo, il concertato a sette voci Ja, das Studium der Weiber (vero e proprio asse portante del lavoro) riesce a resistere alle soubrettes di Salemme (accompagnate da frizzi e lazzi dozzinali), segno che la musica è vincente rispetto a chi ne fa strazio.
Pur se negli ultimi anni, Fiorenza Cedolins ha preferito ruoli relativamente spinti (lo si avverte nella passionalità della canzone di Vilja) è un soprano lirico puro a tutto tondo, magnifica nei duetti con Manuel Lanza (divertentissimo il Dummer, dummer Rietersmann, nonostante le pessima versione ritmica di tradizione); la sua è una Hanna Glawari matura ed astuta (più che passionale) che riconquista con abilità il proprio uomo (anche se la regia la obbliga a scimmiottare Sofia Loren ne L’oro di Napoli) – più simile, in effetti, a quella della Schwarzkopf che a quella della Kabaivanska.
Daniela Mazzucato è ammirevole per l’abilità di cantare e danzare, il ruolo di Valencienne con la stessa freschezza vocale ed interpretativa di venti anni fa.
Di buon livello il Danilo di Manuel Lanza, dalla voce morbida e suadente – affascinante il suo Ich gehe zu Maxim.
Il trionfatore dello spettacolo è Vittorio Grigolo che dà a Rossillon, spesso affidato ad un tenore caratterista, lo spessore vocale ed interpretativo che merita; un Rossillon passionale e sensuale (specialmente in Wie eine Rosenknospe) dal legato dolcissimo ma con un volume ed un fraseggio in grado di primeggiare nel quintetto del secondo atto.
Il pubblico ha meritatamente dato ai cantanti il doppio degli applausi, a ragione delle condizioni difficili in cui hanno lavorato.
Giuseppe Pennisi