Atrace, Re di Macedonia | Alessandro Ravasio |
Ipomene, sorella del Re di Macedonia | Michela Guarrera |
Cloridoro, cugino del Re | Carlotta Colombo |
Atamira, figlia del Re di Corinto | Sabrina Cortese |
Acrimante, cugino del Re di Corinto | Mauro Borgioni |
Bibi, servo di Acrimante | Giacomo Nanni |
Delfa, nutrice di Ipomene | Alessio Tosi |
Tideo, aio di Ipomene e consigliero | Riccardo Pisani |
Corimbo, consigliero | Luca Cervoni |
Proserpina | Maria Elena Pepi |
Demonio | Guglielmo Bonsanti |
Due pastorelle | Maria Elena Pepi, Luca Cervoni |
Coro di stallieri e diavoli | Luca Cervoni, Riccardo Pisani, Guglielmo Bonsanti |
Attori | Gaetano Carbone, Alessandro Gaglio, Valerio Leoni, Guido Targetti |
Direttore | Alessandro Quarta |
Regia | Cesare Scarton |
Scene | Michele Della Cioppa |
Costumi | Anna Biagiotti |
Luci | Andrea Tocchio |
Reate Festival Baroque Ensemble |
L’empio punito di Alessandro Melani (1639-1703), andato in scena per la prima volta a Roma nel 1669, dormì per quasi tre secoli e mezzo, e ora è stato rappresentato in due versioni musicali e due allestimenti diversi a distanza di appena quindici giorni. È bene sottolineare la componente visuale delle due produzioni attuali, perché, in effetti, già qualche anno fa si sono registrate un paio di esecuzioni in forma di concerto, a Lipsia (2003) e a Montpellier (2004), dirette da Christophe Rousset, nonché – in forma di selezione di arie in forma semiscenica – a Pisa (2015), sotto la direzione di Carlo Ipata, che ha curato anche la revisione della versione integrale rappresentata a Pisa e Pescia (vedi la recensione di Fabrizio Moschini) durante questo ottobre 2019. Artefice della produzione qui recensita, invece, è stato il direttore Alessandro Quarta, spiritus rector del Reate Festival, giunto alla sua undicesima edizione, e che si è svolto a partire dal 28 settembre, andando avanti fino al 17 novembre prossimo.
Rieti dispone di uno splendido teatro, il Flavio Vespasiano, costruito alla fine dell’Ottocento nelle forme del classico ferro di cavallo in rosso e oro, con tre ordini di palchi e una galleria, inaugurato nel 1893, in cui negli anni Ottanta e Novanta si svolse annualmente uno dei non troppi concorsi italiani di canto utili. Il Concorso “Mattia Battistini” – intitolato al grande baritono reatino (1857-1928) – fu utile perché non si limitava al conferimento di una qualche cianfrusaglia di metallo ai vincitori, ma produceva ogni anno un paio di opere, messe in scena dopo opportuna preparazione scenica da parte della animatrice del concorso, la grande attrice Franca Valeri, che quindi aiutava concretamente i giovani cantanti nei difficili inizi della carriera. Essendo venuto a mancare il direttore Maurizio Rinaldi ed essendosi posto con sempre maggiore evidenza il problema del reperimento di un’orchestra adeguata alle opere ottocentesche prodotte, con repliche in diversi teatri del Lazio, il Concorso “Battistini” fu sospeso una ventina d’anni fa, privando, quindi, Rieti delle legittime attese della popolazione di poter contare su un’istituzione musicale locale di un certo peso, e l’Italia centrale del secondo concorso di canto – accanto a quello, prestigiosissimo, del Teatro Lirico Sperimentale “Adriano Belli” di Spoleto, fondato nel lontano 1947 – in grado di competere con quelli di Milano (As.Li.Co.) e Treviso (“Toti Dal Monte”, con la bella appendice della “Bottega” di Peter Maag, terminata anch’essa con la dipartita del direttore d’orchestra che ne era stato l’ideatore).
Il vuoto creatosi a Rieti venne riempito dai propositi di Bruno Cagli, il compianto presidente-sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, di non limitarsi – in seno alla istituzione romana – alla sola attività sinfonica, bensì di spaziare anche nel campo dell’opera lirica. Tra l’Opera Studio e i festival di belcanto, tenutisi per qualche anno a settembre, le sue iniziative non possono che essere considerate lodevoli, ma si sono scontrate più di una volta con i soliti problemi finanziari che troppe volte stroncano attività extra e non limitate alla missione riconosciuta dal ministero. Dopo aver lanciato un festival del belcanto a Rieti, che si è avvalso di un direttore d’orchestra assai celebre, ma le cui ambizioni eccedevano forse le possibilità locali, si è ora optato per un festival incentrato sulla musica antica, con diversi concerti d’organo e uno dedicato all’Oratorio romano del Sei/Settecento, e punteggiato da un paio di incursioni nella musica contemporanea. In campo teatrale si segnalano, oltre all’Empio punito, una serata di tango con Miguel Angel Zotto e una versione in un solo atto della Turandot pucciniana, dedicata alle scuole.
Dopo le prime recite del lavoro di Melani, andate in scena al Teatro di Villa Torlonia di Roma, una struttura inaugurata nel 1905 e meritevolmente recuperata per l’opera lirica nel 2018, ma dalla limitata capienza di posti, L’empio punito è dunque stato rappresentato al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti, dove il pubblico – tra cui si notava un gran numero di studenti, adeguatamente preparati – ha molto apprezzato l’insolita proposta. Il merito di questa operazione va senza dubbio ad Alessandro Quarta, la cui direzione adrenalinica ha spronato l’ottimo Reate Festival Baroque Ensemble a non limitarsi a un sostegno ispirato ai criteri del minimo sindacale, bensì a fornire una interpretazione di grande passionalità, specie nel nutrito settore dei bassi, che però non oltrepassava mai i limiti del buon gusto.
Non si può scindere la questione della cosiddetta prassi esecutiva – recuperare quella antica, ma con quale strumentario, sulla base di quali testimoni? O adeguarsi ai tempi e utilizzare strumenti moderni? (cosa improponibile per il repertorio seicentesco, ma certamente ipotizzabile per il tardo Settecento) – da quella della base testuale dell’esecuzione, ovvero dalla scelta dell’edizione musicale. In mancanza di un’edizione critica completa – ma Carlo Ipata ha fornito nei Tesori Musicali Toscani (Pisa) fin dal 2014 significativi estratti (ausermusici.org) – Alessandro Quarta ha preparato egli stesso (sul programma di sala purtroppo non viene specificato nulla di preciso) una versione assai snella dell’Empio punito, che era ispirata a criteri di immediata godibilità teatrale. Il proposito è riuscito in pieno, ma va detto comunque che nell’allestimento pisano l’opera arrivava a durare qualcosa come tre ore e mezzo (ognuna delle due parti, in cui venne divisa, durava un’ora e tre quarti), mentre a Roma e a Rieti la prima parte durò appena 75 minuti e la seconda solamente un’oretta.
Come è possibile? L’opera di metà Seicento è caratterizzata dalla presenza di un’infinità di personaggi; la trama principale viene intersecata da un plot secondario nonché da scene comiche, che evidentemente intercettavano il gusto dell’epoca, ma che possono rendere difficile al pubblico odierno di riuscire a seguirne le evoluzioni. Ragione per cui talvolta ci si vede costretti a farsi largo nell’aspra selva delle scene minori per non perdere del tutto il filo dell’azione principale. (La Dori di Cesti, del 1657, rappresentata a Innsbruck nell’agosto scorso – vedi la recensione di Vittorio Mascherpa – ne è un esempio calzante.) Col senno di poi – cioè dopo aver visto anche l’allestimento pisano di Jacopo Spirei, diretto da Carlo Ipata – si apprezzano anche maggiormente le scelte radicali di Alessandro Quarta, ma bisogna intendersi sul fatto che siano, appunto, radicali.
L’empio punito costituisce la prima opera basata su El burlador de Sevilla y convidado de piedra (1616) di Tirso da Molina, il cui protagonista, dopo molte trasformazioni, da Molière e Goldoni a Bertati/Gazzaniga, è poi approdato a essere l’eroe eponimo del Don Giovannidi Da Ponte/Mozart, circostanza che fa dell’opera di Melani, su libretto di Filippo Acciaiuoli (drammaturgia) e Giovanni Filippo Apolloni (versi), un antecedente irrinunciabile per comprendere meglio l’incidenza di un siffatto personaggio. Se Giovanni Macchia, Stefan Kunze e Nino Pirrotta hanno fatto la loro parte nell’indagare il cammino sei-settecentesco di Don Juan, gli allestimenti attuali sono quasi altrettanto importanti per recuperare un elemento topico dell’opera barocca.
Il casting reatino ha puntato su voci giovani, ben affiatate, di buon livello, forse senza momenti d’eccellenza assoluti, ma con una scelta basilare che io personalmente ho molto apprezzato: nonostante il protagonista dell’Empio punito a Roma nel 1669 sia stato un castrato, si è vivaddio evitato di scritturare un controtenore. (Parlando di prassi esecutiva e di filologia, gioverebbe ricordare di tanto in tanto che si tratta di un falso storico…) Acrimante, pertanto, a Rieti ha cantato con registro baritonale, il che ha fatto tirare un sospiro di sollievo, dato che Mauro Borgioni non solo dispone di una bella voce ben timbrata, ma sa impiegarla con eleganza e quel tocco di autoironia che non guasta quasi mai; fin dall’aria “Tormentose faville” la sua interpretazione era votata a una notevole brillantezza, che ha giovato molto all’insieme, ma in genere nessuno dei cantanti ha indugiato sulla contemplazione del proprio ombelico, come invece talvolta può capitare in qualche titolo di repertorio. (La proposta reatina ha dalla sua, in questo senso, il merito di una salutare cura di ossigeno).
Anche per iI ruolo di Cloridoro non si è ricorsi a un falsettista, bensì a una voce femminile, e cioè quella di Carlotta Colombo, che non ha fatto rimpiangere per nulla la supposta soluzione più appropriata al problema della resa delle parti in origine affidate ai castrati, che invece molto spesso si rivela una trappola. Per il ruolo di Delfa (la nutrice di Ipomene), di cui si invaghisce Bibi (il servo di Acrimante, ovvero il futuro Leporello), dando luogo a scene di irresistibile comicità, si è seguita invece giustamente la tradizione seicentesca, che, come nel caso della nutrice della monteverdiana Poppea, prevedeva l’esecuzione da parte di un tenore (idea ripresa poi da Wolf-Ferrari nel Campiello del 1936). Il talento attoriale di Alessio Tosi è indubitabile, salutato da generosi applausi, ma qualche volta forse si è ecceduto in qualche gigioneria; fin dall’aria “Il tuo ben non fa più caccia” il suo ironico contrappunto alle smancerie arcadiche è risultato elemento vitale e costitutivo della messinscena, e, per esempio nell’aria “Ridi amor, ch’hai fatto assai”, egli ha anche potuto sfoggiare una vena ritmica non comune. Il suo innamorato, Bibi, ovvero Giacomo Nanni, era perfettamente calato nella parte dell’alter ego di Acrimante/Don Giovanni, circostanza sottolineata anche dai costumi (neri e speculari), ma al contempo Bibi aveva parecchio spazio per la sua parallela storia con Delfa, la cui resa scenica ha suscitato ampi consensi. Di Ipomene (Michela Guarrera) si è apprezzata soprattutto l’aria “Aurette tenebrose” e di Atamira (Sabrina Cortese) la dolente “O finto veleno” come l’energica “Morte, finisci un dì d’un agitato sen l’aspro tormento”, punteggiata, quest’ultima, dagli archi con grinta insospettata, alla cui fine ella cade nelle braccia di quattro attori (bravissimi, e sempre puntuali). Di Atrace (Alessandro Ravasio) piace ricordare “Fu troppo acuto dardo” nel primo atto e la grande incisività del doppio “Muora Acrimante” nel dialogo con Tidemo (Riccardo Pisani); la loro cerimoniosità era del tutto adeguata all’azione di stato che pure ci è stato dato ammirare. Forse l’ancheggiare di Proserpina (Maria Elena Pepi) era un po’ eccessivo, ma vocalmente lei non lasciava nulla a desiderare. Completavano il cast Luca Cervoni e Guglielmo Buonsanti, apparsi versatili in più ruoli.
La regia di Cesare Scartonera intenta a far funzionare l’ingranaggio, piuttosto complicato, cosa che è filata liscia come l’olio, senza mai perdere il ritmo incessante delle entrate e uscite dei numerosissimi personaggi; quinte mobili, leggere e trasparenti, vagamente “à la Klimt”, specchi bluastri e dei praticabili tutti sghembi sono perfettamente bastati a fornire la cornice scenica, entro la quale la compagnia si è mossa con grande appropriatezza. Onde movimentare ulteriormente la scena la scelta di impiegare i già ricordati quattro attori (Gaetano Carbone, Alessandro Gaglio, Valerio Leoni, Guido Targetti) si è rivelata felice, anche se non ho colto il nesso tra Melani e i giocatori di pallone di Henri Rousseau, il doganiere, ora in mostra al Palazzo Reale di Milano, ma la scenetta del gioco non ha distratto poi troppo (che sia da intendere come citazione del sublime Don Carlo di Luchino Visconti del Teatro dell’Opera di Roma, in cui le dame di corte si esibirono in una sorta di tennis ante litteram?).
L’insieme ha comunque funzionato benissimo, e così la punizione finale dell’empio non si è fatta attendere troppo – i tempi spediti staccati da Quarta hanno giovato molto, ma va detto anche che in Melani si è potuto apprezzare un freschissimo alternarsi di brevi ariette, duetti e altri pezzi d’insieme, che è ben lontano dalla meccanica, sempiterna successione di recitativi e arie di molto Settecento serio.
Uno spettacolo, insomma, fruibile anche da un pubblico non altamente specializzato come in un festival d’ élite, che si vedrebbe volentieri anche in DVD.
La recensione si riferisce alla replica del 6 ottobre 2019.
Johannes Streicher