Conte d'Almaviva | Vittorio Prato |
La Contessa | Francesca Sassu |
Figaro | Simone Del Savio |
Susanna | Lucrezia Drei |
Barbarina | Leonora Tess |
Cherubino | Aurora Faggioli |
Bartolo | Ion Stancu |
Marcellina | Isabel De Paoli |
Don Basilio | Jorge Juan Morata |
Don Curzio | Riccardo Benlodi |
Antonio | Jonathan Kim |
Due contadine | Carlotta Linetti, Simona Pallanti |
Direttore | Erina Yashima |
Regia | Giorgio Ferrara |
ripresa da | Patrizia Fini |
Scene | Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo |
Costumi | Maurizio Galante |
Maestro del coro | Maurizio Galante |
Maestra al cembalo | Maria Silvana Pavan |
Orchestra Giovanile Cherubini | |
Coro San Gregorio Magno | |
Coproduzione Festival di Spoleto 59, Fondazione Teatro Coccia di Novara, Teatro Alighieri di Ravenna |
Una fortunata messa in scena delle Nozze di Figaro, nata a Spoleto nel 2016 e in seguito ripresa più volte, è giunta al Teatro Alighieri di Ravenna. Una regia essenziale, scevra da protagonismi traspositori, e per questo molto controcorrente, ci riporta in un’epoca senz’altro vicina agli anni nei quali Mozart/Da Ponte concepirono il loro capolavoro. La scena, opera di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, coppia che ha vinto tre premi Oscar per la scenografia, si presenta come un teatrino-giocattolo come quelli che si vedono nei musei del Settecento, o anche come una maquette ingrandita. Ogni atto ha un suo fondale e un decoro al boccascena in forma di sipario disegnato su legno, ed è contrassegnato da un colore guida, ripreso nei costumi, eleganti e di squisita fattura. È il colore che dà il tono agli eventi. Le suppellettili sono pochissime, tutte funzionali allo sviluppo della vicenda che non sempre è di così immediata comprensione. Così nel primo atto, nella scena vuota come da libretto, sono evidenti la poltrona ed il drappo che la ricopre. Compare il nastro che ha tanta parte nel procedere degli eventi. Nel secondo bastano il letto e un bel paravento dipinto.
Nel terzo due poltrone imponenti, nel quarto una panca e l’accenno di un giardino nel fondale. Tutto è semplice ed essenziale, si sfronda per chiarire ogni gesto dei cantanti, nella fattispecie anche ottimi attori. In questo contesto i protagonisti della vicenda sono vestiti e truccati come porcellane di Meissen, spesso con i capelli in tinta con l’abito: verdi, rossi, rosa, rigidi e innaturali, striati di bianco e gessosi, così come sono candide le facce, ravvivate da guance rosso carminio. I cappelli sono pochi ma molto espressivi: i quattro pan di zucchero di Cherubino, un clown rococò in quattro diverse monocromie, verde, rosa, rosso e blu. Indimenticabile il cappello da giardiniere di Antonio in paglia intrecciata con una estesa falda all’australiana sulla schiena, indossato su un abito da lavoro bianco latte di rara eleganza. Tutto all’insegna del poco ma buono o, per dirla con Ludwig Mies van der Rohe, del less is more. La regia è tutta modellata sui personaggi, ogni gesto è funzionale alla narrazione, nessuna sovrastruttura, tutto serve. Un grande lavoro in origine di Giorgio Ferrara, qui ripreso da Patrizia Frini. Erina Yashima, dalla buca, si inserisce in questa logica non solo come direttrice della brillante Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, ma anche come evocatrice del testo attraverso la musica. Yashima canta con il palcoscenico per tutta la durata dell’opera, e spesso dirige con la grazia di una danzatrice. Riesce a stabilire un contatto diretto con i cantanti, non li abbandona con lo sguardo ed è rapidissima nell’assecondarli. Dà quasi l’impressione di dirigere “sulle parole”, cui dà corpo e vita con la musica. Così le arie assumono per intima forza i tempi giusti, quelli che permettono di respirare e scandire il testo con senso ed espressione, e i recitativi non sono mai sembrati così belli. Yashima ha un’energia incredibile, ma anche sottigliezza, gusto, introspezione, chiarezza di pensiero che si riflette nell’efficacia del gesto.
La compagnia di canto, come di consueto a Ravenna, è molto giovane e merita qualche considerazione per come si è mossa nel suo complesso. È vero che Le nozze di Figaro è un’opera piena di momenti solistici celeberrimi ma, in quanto meccanismo teatrale di precisione, è anche un’opera corale. In questo senso il cast è stato eccellente, ciascuno ha dato un senso teatrale al proprio personaggio e al contesto, merito della regia ma anche delle capacità attoriali di tutti i componenti. Tra tutti, Simone Del Savio, Figaro, ha tenuto la scena con stile e autorevolezza vocale sfoderata in tutte le arie, ma in particolare in quella del quarto atto Aprite un po’ quegli occhi, soffusa di una vena di rassegnazione allo strapotere delle donne che l’ha resa irresistibile. Anche Lucrezia Drei, Susanna, è stata sorprendente per grazia e costruzione del personaggio. È lei, insieme alla sua padrona/sodale, la Contessa, a mantenere il controllo dell’intreccio. La voce gradevole, la dizione perfetta e la recitazione di gran classe la tengono lontana dai rischi insiti nel personaggio: petulanza, soubrettismo, faccette e mossette. Arriva al quarto atto in crescendo, così da offrire una incantevole interpretazione di Deh vieni, non tardar, con la complicità di un’orchestra lunare.
Il Conte di Vittorio Prato è molto distaccato, quasi avulso dal contesto. Né la voce né la presenza scenica lo soccorrono, non è abbastanza riprovevole e arrogante, e anche la sua vocalità è troppo sommessa per dare corpo al personaggio. Francesca Sassu, non sempre impeccabile dal punto di vista vocale, è stata però una Contessa più che credibile, non solo nelle scene di insieme, ma anche nelle arie. In particolare Dove sono i bei momenti, di solito segnata dalla malinconia, dal rimpianto e da una vena di autocommiserazione, qui invece pareva più improntata all’incredulità e in fondo anche a una velata ribellione. Anche Aurora Faggioli, Cherubino, dopo un inizio un po’ incerto ha sorpreso con una bella interpretazione di Voi che sapete, preziosa canzonetta che, in quanto tale, rischia in un attimo la banalità: in questa occasione ci è sembrato invece di ascoltarla per la prima volta. Isabel de Paoli, Marcellina e Ion Stancu, Bartolo, entrambi molto misurati e vocalmente nella parte, sono stati meno odiosi del solito, semmai due drop out che si arrabattano. Leonora Tess, Barbarina, graziosa sulla scena e nel canto ha interpretato con garbo la famosa aria del quarto atto L’ho perduta. Jorge Juan Morata, Don Basilio, Riccardo Benlodi, Don Curzio e Jonathan Kim, Antonio sono riusciti ad essere buffi con stile. I costumi raffinati ed espressivi di Maurizio Galante hanno aiutato a definire i personaggi. Il teatro era gremito, e non sono mancati gli applausi, lunghi e convinti.
La recensione si riferisce alla prima del 22 febbraio 2019.
Daniela Goldoni