Margherita | Alexia Voulgaridou |
Faust | Deith Ikaia Purdy |
Mefistofele | Ildebrando D’arcangelo |
Pantalis | Nadia Sturlese |
Nerèo | Hiroki Watanabe |
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentin |
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Maestro del Coro | Piero Monti |
Direttore Riccardo Muti |
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Esecuzione In Forma di Concerto |
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Ravenna, Palazzo Mauro De André |
Il festival ravennate continua la propria indagine sul diabolus in musica con la terza rappresentazione in odor di zolfo: il Mefistofele di Arrigo Boito. L’opera del compositore padovano si colloca in una storia secolare di riduzioni e adattamenti del dramma goethiano e della sua traduzione musicale. Dal 1790, anno della pubblicazione dei primi frammenti del Faust di Goethe, si contano a tutt’oggi più di 350 lavori musicali ispirati al mito faustiano, fra i quali una trentina di opere liriche. Il Mefistofele è il tentativo coraggioso di ridurre, per la prima volta, i due Faust del poeta tedesco. Boito, nello scrivere il libretto ebbe il pregio di preservare il sostrato simbolico e allegorico del capolavoro goehtiano, mantenendo termini-chiave quali ad esempio la scommessa tra Faust e Mefistofele («se avvien ch’io dica all’attimo fuggente: /Arrestati! Sei Bello!») o i termini con i quali Mefistofele definisce se stesso («una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene»), sui cui Boito costruì una delle scene più celebri di tutta l’opera «Sono lo spirito che nega» (atto I, scena II). La portata simbolica e polisemica del lavoro boitiano non fu compresa ed apprezzata, nel 1868, dal pubblico scaligero della prima rappresentazione. La ferrea volontà di trasporre, con la maggior fedeltà possibile, le molteplici dimensioni simboliche e allegoriche del lavoro goehtiano condusse Boito a creare uno spettacolo dalle proporzioni spropositate e intollerabili per il pubblico dell’epoca: si trattava di quasi sei ore di musica. A causa del fiasco clamoroso l’opera fu dunque ritirata dal cartellone, ritornò sulle scene soltanto nel 1875, al Teatro Comunale di Bologna, piazza nota per la maggior disponibilità alle novità teatrali. Si trattava di un secondo Mefistofele, notevolmente ridotto, meno di tre ore di musica, e anche sostanzialmente mutato negli intenti. Il pubblico bolognese riservò all’opera un’accoglienza calorosa, e anche negli anni successivi essa continuò a mietere successi ed accogliere il favore del pubblico europeo. Al fallimento del primo Mefistofele contribuirono innumerevoli fattori, dalla realizzazione scenica, alla scarsa qualità degli interpreti; furono però soprattutto le particolari qualità drammaturgiche dell’opera a destare maggiore perplessità nel pubblico scaligero. Boito inserì un sotteso metateatrale, che chiariva la propria posizione culturale e i valori concettuali del poema, servendosi principalmente di tre mezzi: le allusioni disseminate nel corso dello spettacolo, gli apparati del libretto (le note e il «Prologo in teatro») e le enunciazioni testuali. Fu dunque possibile cogliere nel testo, in modo allusivo, aspre critiche anticlericali, anti-imperiali e antiborghesi, che certamente indispettirono non poco il pubblico “ben pensante” dell’epoca. Inoltre nel «Prologo in teatro» Boito suggerì allo spettatore “colto” quale fosse l’atteggiamento da tenere nel corso dell’opera: invitò il pubblico a rinviare il giudizio sullo spettacolo e a non reagire istintivamente con applausi o fischi. Chiedeva dunque allo spettatore di distaccarsi dal continuum scenico per interrogarsi sul substrato intellettuale, e di farsi trasportare dal continumm stesso, commuovendosi e a partecipando in modo sensibile allo svolgimento dell’opera. Il primo Mefistofele si presentava, dunque, al pubblico come progetto teatrale innovativo: fu chiesto loro di differire il proprio giudizio integrando visione e cultura, e cercando di non fermarsi alla sola superficie sensibile, ma di esplorare tutti i livelli dell’opera. Si trattava, infatti, di uno spettacolo articolato in più strati: brani chiusi, scene ad effetto, pantomime, simbolismi e rimandi al sociale. Tutto ciò scomparve in blocco dal secondo Mefistofele, la sistemacità con cui Boito tagliò ogni riferimento metaoperistico tradì il carattere censorio dell’operazione. In realtà egli cercò di accogliere le esigenze del pubblico (scafato e prezioso conoscitore delle regole teatrali), sacrificando le proprie ragioni a quelle del teatro. Diede all’opera quella teatralità e quadratura che volutamente volle negargli nel primo esperimento: riequilibrò la materia drammaturgia con gli “stop and go” – così la critica anglosassone sintetizzò le scansione formale dell’opera italiana – momenti di tensione alternati a momenti di distensione. Ripristinò la logica delle attrazione, del gioco ad effetti, eliminando tutte le divagazioni che andavano ad attenuare l’effetto, e gli anticlimax atti ad interrompere il flusso dell’azione. Nell’eliminare gli elementi extrasensibili dalla struttura drammaturgica, egli maturò una nuova concezione teatrale come arte degli inganni e delle apparenze, più vicina ad un teatro-teatrale ottocentesco che non all’epicità di un teatro brechtianamente inteso, che egli aveva originalmente presagito. Lo spettacolo, andato in scena al Palazzo de André, prevedeva un’esecuzione, in forma di concerto, dei momenti più significativi dell’opera. La direzione del maestro Muti, tesa essenzialmente alla ricerca dell’effetto, ha privilegiato il clamore vigoroso e incessante delle scene collettive: in cui le compagine corali e orchestrali esplodono con tutta la loro veemenza sugli accordi fortissimi e vibranti. In tali scene, particolarmente congeniali al direttore, egli coglie tutta la misura effettistica e teatrale di una partitura creata per stupire e “straniare” lo spettatore. In altri punti l’eccessivo vigore avrebbe dovuto cedere il posto ad un maggiore differenziazione di colori e ad una maggior ricerca di sfumature delicate e trasognate; come nell’episodio della morte di Margherita e nell’ultima aria di Faust «Giunto sul passo estremo». Il maggior peso dato all’orchestra – aggiunto alla pessima acustica del Palazzo de André – ha viziato e compromesso la performance dei tre cantanti protagonisti, cui è stato riservato un ruolo marginale e di secondo piano rispetto al volume orchestrale. Idelbrando d’Arcangelo, nei panni di Mefistofele, ha dato una lettura del personaggio precisa ed elegante; manca però al basso pescarese il peso vocale adeguato al ruolo luciferino. La voce, dalla natura essenzialmente leggera e brillante, ha trovato talvolta difficoltà nel superare la barriera orchestrale e nell’adeguarsi alla drammaticità di alcune pagine dell’opera. Il soprano greco Alexia Voulgaridou è dotata di un ottimo materiale vocale, potente e dal bel timbro, anche se talvolta impreciso e poco controllato nel registro acuto. Si conferma una Margherita molto espressiva e comunicativa nel trasmettere l’angoscia che invade il suo personaggio. Il tenore hawaiano Keith Ikaia Purdy, interprete di Faust, ha reso nel complesso una prestazione inadeguata sia dal lato vocale, sia dal lato interpretativo. Voce dalla consistenza piuttosto leggera e dall’emissione spesso forzata, ha dato l’impressione di trovarsi continuamente in difficoltà, soprattutto nel controllo e nel dosaggio dei fiati. Nei duetti con Margherita la voce del tenore è stata inoltre inesorabilmente coperta dal maggior peso e squillo vocale del soprano greco; ne è un esempio il duetto soprano-tenore «Lontano, lontano, lontano». Purdy, cercando di realizzare il pezzo in falsetto, ha prodotto un effetto flebile e inconsistente, trasformando l’a due in un soliloquio di Margherita. Altrettanto dicasi per l’aria finale del tenore, «Giunto sul passo estremo», cantata senza particolare trasporto e convinzione. Il pubblico ha decretato un caloroso successo alla serata, riservando ovazioni soprattutto alla figura del maestro Muti.
Luana D'Aguì