Alfonso XI | Simone Piazzola |
Leonora di Gusman | Anna Maria Chiuri |
Fernando | Celso Albelo |
Baldassarre | Simon Lim |
Don Gasparo | Andrea Galli |
Ines | Renata Campanella |
Direttore | Matteo Beltrami |
Regia | Andra Cigni |
Scene | Dario Gessati |
Costumi | Tommso Lagatolla |
Luci | Fiammetta Baldisserri |
Maestro del coro | Corrado Casati |
Orchestra Filarmonica Italiana | |
Coro del Teatro Municipale di Piacenza | |
Nuovo allestimento in coproduzione Teatro Municipale di Piacenza e Teatro Regio di Parma |
Il Teatro Municipale di Piacenza dopo essere stato costretto a rinviare, causa pandemia, La favorita prevista per la stagione 2021, l’ha riprogrammata puntualmente per questo 2022 – onore a Cristina Ferrari – e venerdì scorso è andata in scena in quella che ormai potremmo definire “inusuale”, traduzione italiana di Francesco Jannetti, di fatto la versione che ha reso celebre nel mondo questo capolavoro donizettiano, ed è stata utilizzata per oltre un secolo, sino alla riscoperta dell’originale francese che a partire dagli anni ’80 del secolo scorso ha preso sempre più piede. Questa non è certamente la sede per metterci a disquisire sulle due versioni e sulle ragioni, soprattutto legate alla censura, che portarono alla massima diffusione nell’800 la traduzione italiana, ma dobbiamo ammettere che per tanti di noi, cresciuti ascoltando “Spirto gentil, “Una vergine un angiol divin” e “O mio Fernando”, cantati da Kraus, Pavarotti, Raimondi, Cossotto o Maria Luisa Nave, questa scelta di Piacenza è stata vissuta con un pizzico di affettuosa nostalgia.
Lo spettacolo pensato da Andrea Cigni, regista intelligente di cui più volte abbiamo apprezzato le qualità artistiche (Ernani del Circuito Lirico Lombardo nel 2012, Don Pasquale visto a Bergamo nel 2015, Otello a Trapani nel 2019, per citare i primi spettacoli che ci vengono in mente) ci è parso davvero deludente, soprattutto perché ha sacrificato totalmente la vicenda descritta dal libretto sull’altare di un’idea che ci è parsa piuttosto debole ed impostata su una forzatura completamente avulsa dalla drammaturgia dell’opera. Durante l’ouverture, in bella mostra sul proscenio, sei teche contenenti altrettanti costumi, uno per ogni personaggio dell’opera ed ognuno di colore diverso. La scena, asettica, si illumina e mostra un piccolo anfiteatro che rappresenta quello che nel gergo delle facoltà di medicina viene chiamato “teatro anatomico”, luogo dove gli insegnanti dissezionano i cadaveri di fronte ai giovani aspiranti chirurghi.
Per tutta la durata dell’opera sulle gradinate siede il coro. I personaggi vengono spinti in scena sdraiati su barelle come fossero cadaveri da sezionare. In realtà prendono vita, si alzano e si avvicinano, ognuno alla teca contenente il proprio costume che indosseranno aiutati da alcune comparse. Secondo l’idea registica, dal momento della vestizione il personaggio è imbrigliato nel proprio ruolo e non è libero di essere sé stesso ma deve sottostare a determinate regole dettate dal proprio titolo e condizione sociale. Solamente nel finale, abbandonando i costumi, potranno lasciarsi andare ed esternare i propri autentici sentimenti. Quindi il teatro anatomico diventa luogo dal quale gli spettatori (il coro) osservano le azioni della vicenda e ne sono giudici. Pochissimi sono i movimenti richiesti ai personaggi principali, pressoché inesistenti quelli dettati agli artisti del coro.
Peccato che in questo modo l’opera dia quasi l’idea di una rappresentazione in forma di concerto.
Uno spettacolo complessivamente bruttarello nel grigiore delle scene di Dario Gessati, sollevato parzialmente dai bei costumi colorati di Tommaso Lagattola e dalle luci di Fiammetta Baldisserri.
Al termine della rappresentazione i dissensi del pubblico provenienti da un po’ tutto i settori del teatro e non solamente dal loggione, ci sono parsi giustificati.
Sotto l’aspetto musicale la recita ha beneficiato della trascinante direzione di Matteo Beltrami, il quale si è divertito nel lasciar suonare un’Orchestra Filarmonica Italiana davvero in gran spolvero. In vari momenti, di quella che possiamo considerare la più verdiana delle opere donizettiane, abbiamo apprezzato la professionalità raggiunta da questa compagine musicale. Stupenda la qualità di suono mostrata nella sinfonia iniziale e dagli archi durante il grande concertato del finale terzo “Oh ciel! di quell'alma” per altro staccato da Beltrami, lento e maestoso come prescritto dalla partitura, in splendido contrasto con la successiva arrembante cabaletta “Maledetta è l'ora e il giorno”. Complimenti al violoncello protagonista all’inizio del preludio del quarto atto per l’intenso e vellutato colore evidenziato e agli ottoni che entrano poco dopo per la precisione e compattezza di suono. A Beltrami, come di consueto, non è mancata l’attenzione nei confronti del palcoscenico e, nonostante i tempi, laddove possibile, vivaci, tutto ha funzionato perfettamente senza problemi.
Buona la prova del coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato come sempre da Corrado Casati.
Anna Maria Chiuri nel ruolo di Leonora ha saputo far valere tutta la sua esperienza e intelligenza d’interprete per sopperire ad alcune difficoltà dettate da una tessitura che predilige soprattutto i soprani falcon. Il mezzosoprano altoatesino, piacentino d’adozione, ha lavorato di cesello sulla parola, sugli accenti, evidenziando una sicura personalità e risultando sostanzialmente vincente in un ruolo che sulla carta non appare propriamente scritto per la sua attuale vocalità.
A Celso Albelo nel ruolo di Fernando va dato il merito d’essere riuscito a portare a termine la recita senza gravi incidenti di percorso in un ruolo particolarmente complesso scritto per il mitico Gilbert Duprez. Peccato per l’emissione spesso nasaleggiante – a volte in misura davvero fastidiosa – evidenziata dal tenore canario, affiancata ad un registro acuto ispessito rispetto ad alcuni anni fa e di conseguenza meno facile e squillante. Troppo povero anche l’uso delle dinamiche, forse rese complicate da un’emissione che è parsa un po’ troppo alla ricerca del volume anziché della fluidità.
Simone Piazzola, nel ruolo di Alfonso XI, ha evidenziato il consueto stupendo timbro e ha dato prova di aver riconquistato il volume vocale di qualche anno fa; peccato che una certa tendenza a strascicare i suoni rendendoli fissi, abbia compromesso, soprattutto nel corso del secondo atto, la fluidità della linea di canto che, per un ruolo come questo da autentico baritono grand seigneur, dovrebbe essere morbida, omogenea e dare sempre l’impressione di galleggiare sul fiato.
Positiva senza riserve la prova di Simon Lim. L’artista coreano ha prestato la sua vocalità da autentico basso, forse non enorme ma davvero ben messa e ottimamente proiettata, rendendo credibile l’autorità religiosa presente in Baldassarre ma anche infondendo al suo canto i giusti toni affettuosamente paterni.
Preciso e squillante è risultato il Don Gasparo di Andrea Galli.
Un particolare plauso a Renata Campanella che si è distinta positivamente nel ruolo di Ines, disimpegnandosi perfettamente nella sua arietta del primo atto “Bei raggi lucenti”, dandoci per l’ennesima volta l’impressione d’essere un soprano che meriterebbe ben altre attenzioni da parte dei teatri.
Al termine risposta tiepida da parte del pubblico con contestazioni diffuse per lo staff registico e qualche isolato dissenso, a nostro parere non condivisibile, alla volta di Albelo e Chiuri.
La recensione si riferisce alla prima del 18 febbraio 2022.
Danilo Boaretto