Ottone | Varduhi Abrahamyan |
Adelaide | Olga Peretyatko |
Berengario | Riccardo Fassi |
Adelberto | Renè Barbera |
Eurice | Paola Leoci |
Iroldo | Valery Makarov |
Ernesto | Antonio Mandrillo |
Direttore | Francesco Lanzillotta |
Regia | Arnaud Bernard |
Scene | Alessandro Camera |
Costumi | Maria Carla Ricotti |
Luci | Fiammetta Baldisseri |
Maestro del coro | Lorenzo Fratini |
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai | |
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno |
È molto difficile inquadrare lo stile del metateatro in una categoria ben definita. Si potrebbe genericamente parlare di un espediente retorico nel quale i protagonisti di un’opera teatrale rendono a loro stessi e al pubblico la consapevolezza della finzione scenica che stanno vivendo, ma tali e tanti sono i livelli di interazione che si possono creare da fare apparire metateatro anche ciò che programmaticamente non nascerebbe come tale. Premessa, questa, che riteniamo necessaria per scrivere della nuova produzione di Adelaide di Borgogna per le cure di Arnaud Bernard alla regia, le scene di Alessandro Camera e i costumi di Maria Carla Ricotti andata in scena come terza opera del Rossini Opera Festival 2023. Inquadrarla nell’ambito del metateatro, infatti, appare naturale ma alquanto riduttivo per la complessità di azione e interazione che si vedono sul palco, che suscitano continua attenzione da parte dello spettatore. L’assunto metateatrale di partenza è che l’azione di svolge come una serie di prove dell’allestimento proprio di Adelaide di Borgogna e proprio al Rof, riconoscibile dall’inconfondibile marchio sull’attrezzeria e sui caravan che si vedono dietro garage posti a fondo scena, dai quali sortiscono gli arredi, e su questo primo piano di azione se ne innestano poi numerosi altri in un vorticoso e permanente interagire.
Durante le prove si consuma anche il dramma della gelosia fra tenore e soprano, il primo beccato dal secondo ad amoreggiare con una comparsa durante la sinfonia, dramma che si trascinerà per tutto il resto delle prove-opera in un continuo alternarsi di piani d’azione: quando nella seconda scena il tenore si rivolge supplice al soprano cantando fra l’altro “Ah! non voler che duri eterno in noi lo sdegno. Dammi la destra: il regno dividerò con te” non è mai chiaro se parli il personaggio e l’interprete (e analogo metadialogo si verificherà ad apertura secondo atto). Dramma teatrale e interpretativo si scioglieranno entrambi nel finale, quando il mezzosoprano si spoglierà dei suoi abiti regali per chiedere la mano del soprano, giustappunto sotto il rondò di Ottone che giubila “d’Imene il talamo” con Adelaide.
Cura estrema è riservata dalla regia al descrivere un tipico ambiente di prove teatrali, con regista e aiuto regista presenze fisse in scena, seduti sulla destra, che seguono l’azione e danno continui suggerimenti, o artisti e comparse che si intrattengono alla macchinetta del caffè quando non sono in prova. Arnaud sembra anche strizzare l’occhio alle continue polemiche melomaniacali sul rispetto della volontà dell’autore riguardo i luoghi di ambientazione, perché le scene che si susseguono sul palco (vero e metaricostruito) propongono un gotico medievale fiammeggiante di cartapesta e fondali dipinti, con costumi rigorosamente d’epoca, per arrivare all’apoteosi di una splendida cappella palatina nel finale sullo stile dei fondali di Sanquirico, con gli elementi che scendono dall’alto a comporla, imparagonabile a qualsiasi pur sofisticata videoproiezione, il tutto illuminato con grande perizia dalle luci di Fiammetta Baldiserri (sembra quasi di vedere lo scenografo che dice “volevate l’oleografia? Eccovi serviti”).
Una simile impostazione porta con sè una recitazione spesso improntata alla parodizzazione del gesto e del porgere, ad accentuare le passioni nelle interazioni fra cantanti e personaggi di cui sopra e la natura sempre un po' “sapida” delle prove di allestimento di un’opera: citiamo come esempio preclaro l’ingresso trionfante di Ottone su un cavallo di cartapesta, in puro stile “allestimento handeliano di Pierluigi Pizzi”, che poi sull’andante della cavatina scende dal cavallo con prudenza e l’espressione “vabbè, è andata…”. Non si può negare che ciò spesso porti a un sentore scenico da opera semiseria, anche se non sembra incongruo voler ricorrere alla chiave della metaironia in alcune opere serie rossiniane come elemento supplementare di sostegno per un intreccio librettistico spesso farraginoso (Davide Livermore lo fece in modo convincente nel Ciro in Babilonia e un po' meno nell’Elisabetta Regina d’Inghilterra). Ricordiamo infatti che la vicenda portante è quella della leggendaria Adelaide, vedova del re d’Italia Lotario I, e promessa a forza al figlio del presunto assassino Berengario, marchese d’Ivrea, contrastato dall’imperatore Ottone, con una trama che prevede battaglie che cominciano e finiscono in poche battute di musica e repentini cambi di ambientazione.
Ma c’è anche di più, sempre a modesto parere di chi scrive: in occasione dell’esecuzione di Eduardo e Cristina, la cui musica è ampiamente debitrice dell’Adelaide, molto si è scritto e detto sull’estetica rossiniana che consente (-irebbe) di applicare “un’aura sonora comune” ai diversi intrecci drammatici, “movenze favorite riproposte sulla tavola rossiniana in sempre diversi impiattamenti”, “figure sonore astratte ricorrenti di opera in opera, di scena in scena, come un repertorio d’ingredienti primari, e prive sia di una reale identità melodica, sia di un valore semantico extramusicale (non riferibili cioè a significati collegabili alla narrazione drammatica)” (citazioni tratte dal saggio di Marco Beghelli nel programma di sala di Eduardo e Cristrina). Se si ritiene dunque che Rossini sviluppi di volta in volta temi musicali applicabili, con i dovuti aggiustamenti, a qualsivoglia situazione librettistica, perché pretendere poi che l’azione si svolga pedissequamente secondo quanto il libretto prevede? L’estetica drammaturgica deve forse trovarsi totalmente sganciata da quella musicale? Pur senza demonizzare le posizioni di chi non ritiene valido l’approccio di Arnaud sopra descritto, bisogna però riconoscere che si percepisce in questo allestimento una cura, uno studio del dramma e una vera mano registica non così facile da vedere in altre situazioni.
È stato inoltre molto interessante ascoltare a breve distanza la musica originale dell’Adelaide rispetto a quella riassemblata dell’Eduardo e Cristina, in special modo quella gemma assoluta della produzione rossiniana che è il duetto “Mi dai corona e vita”. Laddove Bignamini concertava giustamente con tensione drammatica per dare unità al tutto, con la stessa orchestra Francesco Lanzillotta ha privilegiato sonorità più levigate ed apollinee, in piena consonanza di stile con la classicità appena increspata di romanticismo che deve caratterizzare opere come questa (già per La donna del lago e soprattutto Ermione il discorso si farebbe diverso). Si è sentito benissimo il lavoro del direttore per esaltare le tante preziosità timbriche della partitura, rendere a dovere ogni effetto di crescendo e dare sostegno al canto senza però ridurre mai l’orchestra a mera accompagnatrice. Sempre istruttivo poi guardare il gesto di un direttore, quando la posizione lo consente: la mano che quasi disegna le note nell’aria durante l’accompagnamento dell’oboe nell’introduzione alla cavatina di Ottone, marca la differenza fra il concertatore di razza e il routinier che porta a casa la recita.
Nel corso degli anni Olga Peretyatko ha ampliato il repertorio con ruoli da drammatico di agilità, da Anna Bolena a Norma fino al prossimo debutto ne Il trovatore, e questo ha sicuramente irrobustito il registro centrale, più ricco di armonici e al servizio di un timbro sempre molto bello nella sua luminosità: questo ha consentito al soprano un’esecuzione non meno che affascinate di “Occhi miei piangeste assai”, per l’appunto tutta giocata in zona centrale e con mezzevoci davvero pregevoli. Di contro il registro acuto è sembrato decisamente più faticoso da manovrare, e le agilità più laboriose, cose che comunque si sono più o meno riassorbite nei momenti di assieme. I nodi però sono venuti al pettine durante la grande aria “Cingi la benda candida”, portata a termine col preziosissimo sostegno del direttore, le cui agilità nella parte finale sono risultate meccaniche e rallentate, e con una chiusa che tradiva grande stanchezza. Confrontata alle colleghe en travesti delle prime due opere Varduhi Abrahamyan è sembrata meno incisiva sul piano della scolpitura della parola, ma rispetto ai primi ascolti di vari anni fa la voce si è fatta più omogenea nei registri, la coloratura si è dipanata fluidissima a tutte le altezze e il timbro screziato ha valorizzato al massimo la parte del condottiero innamorato. Timbro che si è sposato benissimo con quello del soprano, consentendo quindi un’esecuzione del sublime duetto del primo atto di grande fascino. Molto brava anche nell’esecuzione del grande rondò finale “Vieni: tuo sposo e amante”, dove ha mostrato un’ottima solidità tecnica e vocale.
Nella parte del classico tenore rossiniano amoroso non riamato Renè Barbera ha sfoggiato un’espansione vocale non così comune, che applicata una coloratura precisa e fluida ha consentito un’esecuzione della difficilissima aria del secondo atto “Grida, o natura, e desta” non meno che elettrizzante: meritatissimo il caldo applauso tributatogli dal pubblico al termine e nelle uscite finali. È molto bello anche il timbro da basso cantabile di Riccardo Fassi, autorevole Berengario tanto nei recitativi scolpiti quanto nell’aria “Se protegge amica sorte”, che sarà brutta e apocrifa finché si vuole ma richiede comunque una notevole estensione in acuto. Considerazioni simili per la brava Paola Leoci come Eurice, dall’emissione flautata ampiamente valorizzata nell’aria (altrettanto apocrifa e anch’essa bruttarella) “Sì, sì, mi svena”. Rispetto alle recite di nove anni fa, quando era presente un mezzosoprano, il ruolo di Iroldo è stato in questa occasione riassegnato a un tenore, stante una divergenza fra fonti apografe e libretti a stampa dell’epoca che non precludono la scelta della voce maschile: molto dotato timbricamente è apparso il giovane Valery Makarov, proveniente dai ranghi dell’Accademia Rossiniana. Completava bene il cast Antonio Mandrillo, la cui emissione puntuta ha reso molto bene la natura dell’irrequieto sottoposto di Ottone.
Rispetto alla prova tutto sommato accettabile in Eduardo a Cristina, in questa occasione il Coro del Teatro Ventidio Basso ha sfoggiato ben altro mordente: la proverbiale frase “vale da solo il prezzo del biglietto” penso che si possa ben applicare in questa occasione al coro di damigelle “O ritiro, che soggiorno” precedente a “Occhi miei piangeste assai”, dove sotto il tappeto sonoro steso da Lanzillotta si è creata davvero un’atmosfera magica.
Buono il successo finale per tutta la compagnia, compreso il team registico, e ancora numerosi rispetto alle sere precedenti i posti vuoti nella Vitrifrigo Arena.
La recensione si riferisce alla prima del 13 agosto 2023.
Domenico Ciccone