Agorante | Sergey Romanovsky |
Zoraide | Pretty Yende |
Ricciardo | Juan Diego Flórez |
Ircano | Nicola Ulivieri |
Zomira | Victoria Yarovaya |
Ernesto | Xabier Anduaga |
Fatima | Sofia Mchedlishvili |
Elmira | Martiniana Antonie |
Zamore | Ruzil Gatin |
Direttore | Giacomo Sagripanti |
Regia | Marshall Pynkoski |
Scene | Gerard Gauci |
Costumi | Michael Gianfrancesco |
Luci | Michelle Ramsay |
Maestro del coro | Giovanni Farina |
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai | |
Coro del Teatro Ventidio Basso |
Per la sua sesta opera del periodo napoletano Rossini si trovò a lavorare di nuovo con il marchese Berio di Salsa, che già aveva fornito il libretto per Otello, stavolta su un argomento tratto da un cosiddetto “poema eroicomico” di Niccolò Forteguerri, il Ricciardetto, scritto negli anni venti del Settecento. Nel dover ridurre in versi la storia dell’amore tra un crociato cristiano e la figlia di un principe asiatico, contesa anche da un re africano a sua volta già sposato con una vendicativa regina, Berio produsse un libretto dove i personaggi spesso si perdono tra intrighi e sotterfugi tali da rendere la comprensione della trama una vera impresa, e dove i caratteri “antropologici” sono appena sbozzati, diversamente da quanto accadrà con i turchi di Maometto II e gli scozzesi de La donna del lago. Nel mettere in musica l’intreccio Rossini avviò delle parche sperimentazioni sul collaudato schema da opera seria, che avrebbero trovato la strada della drammaticità epicheggiante della successiva Ermione, salvo poi fare una rapida quanto apparente marcia indietro con le opere successive.
Nell’ampia sinfonia troviamo quindi per la prima volta l’espediente della banda in scena, sinfonia che trapassa direttamente nel coro d’introduzione Cinto di nuovi allori; gli amorosi sono tenore e soprano mentre la rivale è contralto, e il finale affidato al soprano non è l’usuale rondò ma una gran scena con pertichini degli altri personaggi che modula nella successiva scena di battaglia. Con un prudentissimo senno di poi inoltre colpiscono le parole che Zomira rivolge alla rivale amorosa Zoraide Ma per Ricciardo il cor sospira ancora? Confidati all’amica, io non ti ingannerò, come nella scena del carcere la stessa Zomira che prorompe in L’inganno è ormai compito; sono alfin vendicata. Più non ti curo, ingiusta sorte ingrata. Lampi lontani di Amneris e Azucena?
Non è improprio pensare di mettere in scena le opere serie del repertorio rossiniano, basate su libretti non propriamente scorrevoli, ricorrendo alla chiave dell’ironia e del metateatro, cercando di far vedere quasi con un certo eccesso ciò che nella trama non si riesce a capire con chiarezza: lo fece Ronconi nell’unico allestimento precedente a questo, basato sull’oleografia ottocentesca del selvaggio civilizzato dall’occidentale progredito, e lo fece Davide Livermore nel Ciro in Babilonia rappresentato come kolossal del cinema muto negli anni ’10 del novecento. Il problema, nel caso presente, è cercare di capire se l’impostazione di Marshall Pynkoski sia stata proprio quella dell’ironia o più semplicemente una mano registica quasi del tutto inesperta a cercare una qualsivoglia chiave drammaturgica. Ballerino e coreografo, Pynkoski da qualche anno si è dedicato alla regia di opere liriche principalmente in Mozart e nel Settecento francese. Per la sua prima incursione nel repertorio protoromantico si potrebbe quindi pensare che abbia voluto recuperare alcuni stilemi registici per cercare di rendere con mano ironica il farraginoso l’intreccio degli amori nascosti e non corrisposti nell’immaginifica Nubia del libretto.
Non si potrebbe altrimenti spiegare quanto visto (anzi, non visto) sul palco: cantanti che si muovevano solo con diligenti entrate da destra a sinistra e viceversa, impegnati nei più triti e ritriti topoi dell’opera buffa settecentesca, e il coro schierato al proscenio metà da una parte e metà dall’altra; il tutto davanti a una scenografia di tele dipinte senza un minimo di prospettiva che si alzavano a rivelare una doppia serie di archi con balaustra sotto uno sfondo di azzurro che nel finale diventava un cielo notturno con stelle sbrilluccicanti. Scenografie anche belle a vedersi ma buone per tutti gli usi, tali che non sarebbero incongrue per un Maometto II, per restare a Rossini, o per un Così fan tutte o per un Trovatore.
Qualche esempio dei citati triti e ritriti topoi settecenteschi: Zoraide e Zomira cantano il loro duetto tra smorfie, inchini e mossette degne del più abusato clichè sul rapporto tra nobil padrona e servetta; nei terzetti e quartetti i protagonisti sono regolarmente disposti lato destro-centro-lato sinistro-in cima a una scala, seduti compostamente e/o mano su cuore; il culmine si raggiunge con la sortita di Ricciardo, il quale arriva su una barchetta di legno trascinata da un figurante che attraversa l‘intero palco con due ballerini che muovono teli azzurri a simulare le onde del mare e tre damine complete di ombrellino che lo guardano dalla balaustra in posizione di tre quarti. Una volta sceso, per operare il suo travestimento esce dal palcoscenico di lato, si vedono panni piovere addosso al sodale Ernesto (vestito da vescovo) e rientra in costume popolare ungherese o giù di lì a braccia aperte, suscitando l’inopportuna ilarità del pubblico. Il tutto confezionato in un minestrone di costumi che spaziavano dal citato stile ungherese di Ricciardo e del coro alla tenuta da domatore di leoni di Agorante al pastello da damine settecentesche di Zoraide e Zomira. Onnipresenti in scena, un gran numero di ballerini giravano intorno ai cantanti con coreografie fin troppo invadenti, soprattutto nel secondo atto, firmate dalla signora Pynkoski, al secolo Jeannette Lajeunesse Zingg. Per trovare una giustificazione a tutto ciò viene quindi da pensare che una simile brutta parodizzazione del settecento in musica sia stata espressamente voluta e decisamente poco riuscita: il tutto per non arrivare a concludere, come detto sopra, che sic et simpliciter si deve parlare di un’inesperienza e di una sciatteria registiche a livelli fra i più elevati. Un vero peccato, soprattutto in considerazione che la parte musicale è stata invece di eccellenza.
Il debutto di Juan Diego Flórez nel ruolo del titolo è stato una sorta di quadratura del cerchio, essendo stato scritturato nell’edizione del 1996 per la parte di Ernesto ed avendo studiato comunque la parte di Ricciardo in quanto cover di Gregory Kunde (e sappiamo poi titolare last minute del Corradino di Matilde di Shabran, trampolino di lancio per la sua carriera internazionale). C’era inoltre qualche perplessità su come il tenore peruviano potesse affrontare un nuovo ruolo prettamente belcantistico dopo la decisa virata di repertorio verso parti più schiettamente romantiche, da Edgardo a Gennaro fino ai vari titoli del repertorio francese recentemente introdotti. Perplessità ampiamente superate da una prestazione non meno che eccellente, dove anzi la suddetta virata ha mostrato di aver notevolmente giovato alla robustezza del medium della voce, oltre che alla maturazione dell’interprete. Tutta la parte, infatti, viene innervata da un'interpretazione dove nemmeno una sillaba di recitativo viene trascurata e dove amore, empito guerriero e disperazione vengono sempre ricondotti nell’ambito dell’aulicità rossiniana ma con i famosi “accenti nascosti” che si fanno via via più “palesi”, senza mai però sconfinare in aperto romanticismo (basti sentire tutto il recitativo che precede la cavatina e il modo in cui fraseggia l’incipit S’ella mi è ognor fedele). E tuttora con pochi confronti rimane la sicurezza delle agilità di forza sgranate a tutte le altezze, nel quadro di una solidità vocale, anche negli acuti sempre centrati e tenuti, che se non ha più la spericolatezza degli esordi ha acquistato in espressività. In questo modo anche le parti musicalmente più deboli, soprattutto nel secondo atto, vengono rese al meglio possibile.
Risponde con analoga sicurezza e impegno interpretativo la Zoraide di Pretty Yende, soprano per nulla filiforme ma che anzi trova nel medium della voce le sue carte migliori quanto a colore e incisività, e producendosi in cadenze e variazioni con sovracuti facilissimi ma senza alcunché di circense. Anche nel suo caso colpisce la naturalezza del fraseggio, soprattutto nel duetto con Zomira e nel terzetto con Agorante e la stessa Zomira condotti in modo davvero partecipe. Peccato solo che un’evidente amnesia nel recitativo prima della grande aria del secondo atto Salvami il padre almeno l’abbia alquanto condizionata nella resa dell’aria suddetta, ben cantata ma con una percettibile tensione.
Alle prese con una “classica” parte Nozzari che prevede escursioni dal do grave al do acuto, Sergey Romanovsky ha abbastanza ben figurato grazie soprattutto alla fluidità della coloratura in zona centrale e, anch’egli, per l’estrema naturalezza nel porgere le frasi, pur con un timbro non privilegiato e acuti centrati ma non proprio sfolgoranti; molto bene, in questo senso il terzetto del primo atto e il duetto dei tenori che apre il secondo, e decisivo il sostegno del direttore nell’alleggerire l’orchestra per far percepire al meglio le note gravi. Note gravi che caratterizzano anche la parte di Zomira, scritta per il contralto Rosmunda Pisaroni, la quale nel sestetto a cappella del primo atto sprofonda fino al mi bemolle sotto il rigo: Victoria Yarovaya ne viene a capo molto bene, con voce uniforme che non deborda mai nelle note di petto e che mostra il giusto rilievo nei vari pezzi d’assieme, traendo anche il meglio possibile dall’aria Più non sente quest’alma dolente apparentemente poco più che di sorbetto ma strutturata su trilli e canto di sbalzo non semplicissimi . La breve parte di Ircano trova un interprete di lusso in Nicola Ulivieri, ben incisivo nelle frasi di sortita addirittura a metà del secondo atto che sfociano poi in un elaborato quartetto.
Analogamente al Pilade dell’Ermione, il personaggio di Ernesto nella numerologia rossiniana ha la dignità di “altro primo tenore”, avendo una parte di una certa estensione soprattutto durante il primo atto. Rispetto alle cospicue doti naturali in tema di squillo e robustezza già evidenziate in un Barbiere di Siviglia ad Ancona lo scorso mese di ottobre, Xabier Anduaga ha mostrato in questa produzione anche una notevole maturità d’interprete che lascia ben sperare per un futuro ricco di soddisfazioni. Del pari pregevoli Sofia Mchedlishvili come Fatima, Martiniana Antonie come Elmira e Ruzil Gatin come Zamorre, voci provenienti dai ranghi dell’Accademia Rossiniana e (finalmente!) portati a fare esperienza in parti di fianco di una produzione maggiore, e non buttati allo sbaraglio in ruoli protagonistici col rischio di venire bruciati come già successo in passato.
Sul podio, Giacomo Sagripanti fa mostra di aver condotto un lodevolissimo lavoro di concertazione, evidente nella cura dei piani sonori fra voci e orchestra durante gli assiemi e nella pulizia di tutti gli attacchi, e nel sostenere le voci nei momenti di maggior bisogno. Molto buona anche la gestione del fraseggio orchestrale, che trapassa dall’impetuoso finale del terzetto Agorante-Zomira-Zoraide al primo atto al naturismo sonoro dell’arrivo di Ricciardo in Nubia senza clangori o sdilinquimenti, ma cogliendo il quid di quell’aulicità rossiniana innervata però di romanticismo in nuce. Concorre in questo la qualità del suono dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, i cui clarinetto e flauto solisti si coprono di gloria durante la sinfonia (e si perdona facilmente una leggera svista del corno).
Coro che conferma l’ottima prestazione dello scorso anno ne Le siège de Corinthe per compattezza di suono e varietà di dinamiche, con menzione speciale per gli interventi fuori scena nel citato terzetto del primo atto e nella scena del carcere al secondo. Pubblico che ha applaudito calorosamente tutti gli interpreti, riservando ai responsabili della parte scenica qualche contestazione non immotivata.
La recensione si riferisce alla prima dell'11 agosto 2018.
Domenico Ciccone