König Kandaules (t) | Peter Svensson |
Nyssia (s) | Nicola Beller Carbone |
Gyges (br) | Kay Stiefermann |
Phedros (br) | Nicolò Ceriani |
Syphax (t) | Cristiano Olivieri |
Nicomedes (br) | Paolo Orecchia |
Pharnaces (bs) | Jeremy Milner |
Philebos (bs) | Matias Tosi |
Simias (t) | Alex Wawiloff |
Sebas (t) | Giulio Pelligra |
Archelaos (bs) | Alexey Birkus |
Der Koch (bs) | Ventseslav Anastasov |
Direttore | Asher Fisch |
Regia | Manfred Schweigkofler |
Scene | Manfred Schweigkofler e Angelo Canu |
Costumi | Mateja Benedetti |
Luci | Claudio Schmid |
Orchestra del Teatro Massimo di Palermo | |
Teatro Massimo di Palermo (primo allestimento in Italia) |
«Che diremo di quei mariti i quali non si accontentano di prendere piaceri lussuriosi con le loro mogli, ma stuzzicano altresí lo stimolo sia nei loro amici e compagni, sia negli altri? … come fece Candaule re di Lidia, il quale, bestia com’era e quasi il silenzio gli pesasse e gli facesse torto, lodò a Gige la rara bellezza di sua moglie e gliela fece vedere ignuda, talché l’altro se ne innamorò e ne godé a piacimento, e, ucciso quello stupido, s’insignorí del suo reame». L’abate e signore di Brantôme, qui tradotto da Alberto Savinio, sembra quasi riassumere, nelle sue Dames Galantes scritte alla fine del secolo XVI, l’argomento dell’opera novecentesca in scena di questi giorni a Palermo, per la prima volta in Italia (infatti, il suo racconto ne costituisce una fonte).
Il re Candàule del titolo compare nel primo libro d’Erodoto, sullo spartiacque tra mito e realtà, come ultimo dei discendenti del semideo Eracle che per ventidue generazioni regnarono sulla Lidia, nell’entroterra dell’attuale Smirne. Innamorato della moglie Nissia –Erodoto inizia il suo racconto, rigorosamente realistico, sottolineando la cosa, inusuale nella civiltà greca antica–, Candaule vuole convincere della sua bellezza e della propria fortuna Gige, prediletta guardia del corpo, e gl’insegna come nascondersi per ammirare Nissia nella sua nudità. Ma la donna se ne accorge ed è subito certa che il vero colpevole dell’affronto patito sia il re ed impone a Gige la scelta tra essere ucciso e uccidere Candaule, con tutta facilità, dopo che questi si sarà addormentato soddisfatto al fianco di lei. Gige, dopo breve titubanza, sceglie di sopravvivere. Gli storici riferiscono la vicenda all’anno 716 a.e.v.; i discendenti di Gige e di Nissia regneranno per un paio di secoli sulla Lidia. Oggi, il termine “candaulismo” è usato in psicologia per indicare una sindrome identificativo-esibitiva talora sfociata in casi di cronaca nera. Pochi decenni dopo Erodoto, Platone, nella sua opera piú ampia e sistematica, trasforma la vicenda storica in mito politico tramite l’invenzione d’un anello magico che rende invisibile Gige, per alludere alla certezza dell’impunità che induce al mal fare.
In epoca piú vicina a noi, il veloce racconto in cui il “padre della storiografia” aveva compendiato con realistica sintesi complessità psicologiche, ammonimenti religiosi a non vantare la propria fortuna, meccanismi d’alternanza dinastica, dignità e indegnità di classe e di sesso, s’arricchisce d’elementi fantastici e retorico-moralistici e discende per li rami della cultura europea dal De casibus virorum illustrium di Boccaccio a Hans Sachs e al citato Brantôme, dai Contes de La Fontaine al trageda romantico Hebbel, da Fénelon a Gautier e a Marius Petipa. Tacciamo dei numerosi pittori che s’occuparono della vicenda. Alla fine del secolo XIX, André Gide, a quel tempo influenzato da Oscar Wilde, ne dà la sua versione: il dramma Le roi Candaule, miseramente caduto al debutto parigino nel 1901, conobbe poi una discreta diffusione nei Paesi di lingua tedesca grazie alla traduzione di Franz Blei. Ne deriva, negli anni Trenta, il libretto del König Kandaules, in cui il carattere grottesco tende a prevalere sul tono piú estetizzante dell’ipotesto.
Nato nel 1871 a Vienna, Alexander Zemlinsky godette ai suoi giorni di grande fama come direttore d’orchestra, ammirato e da Stravinskij e da Schönberg. Un poco vittima, perlomeno da giovane, del proprio aspetto poco attraente, ma anche capace d’ironizzare sul fallimento della propria corte ad Alma Schindler, che gli preferí Gustav Mahler «e gli altri che’l seguiro», conobbe la maggior fioritura a Praga, dove condusse per oltre quindici anni il Neues Deutsches Theater (l’attuale Státni Opera) fondato da Angelo Neumann, impresario della prima tournée del Ring fuori Bayreuth e inventore dei Theaterzüge. Nel 1927 passò alla Krolloper di Berlino come “vice” di Klemperer; abbandonato nel 1930 l’impegno teatrale per l’insegnamento, tre anni dopo rientrò a Vienna, ma l’Anschluss lo costrinse a fuggire in America. Dopo pochi mesi d’esilio soffrí d’un tracollo cardiaco e si spense nel 1942, ormai dimenticato.
I lavori pubblicati da Zemlinsky con il numero d’Opus non raggiungono la trentina; vi prevalgono le composizioni che vedono protagonista la voce umana, pur non mancando sinfonie e quartetti, il quarto e ultimo dei quali scritto in memoria dell’amico Berg (ricordiamo che proprio Zemlinsky, rifiutando dopo Schönberg e Webern di completare Lulu, suggerí la forma esecutiva che quest’opera manterrà per oltre quarant’anni, sino a Cerha e Boulez). Non dotato d’una personalità onnivora e dominatrice come Mahler, la sua professione di direttore lo espose a sospetti d’eclettismo: fu persino detto “compositore postumo in vita”.
Nelle sue composizioni, sempre rispettose d’una chiarezza formale che ci sembra provenire da Brahms, Zemlinsky non rinunziò mai al solido ancoraggio della tonalità, «manto continuamente teso e tormentato eppure mai lacerato», ma ne «intorbida l’atmosfera» in uno «stile floreale connotato da moduli orientali e arcaismi modali»; quindi il suo linguaggio «ha l’effetto di un ininterrotto stato d’emergenza dell’anima» (cosí scrive, benissimo, Quirino Principe). I sensibili echi di Debussy e Wagner non ci appaiono disgiunti da inflessioni straussiane, specie nella condotta vocale dei personaggi d’opera: proprio questo genere musicale sembra essere stata la maggiore ambizione di Zemlinsky, che lasciò un canone d’otto titoli, da Sarema, composta a poco piú di vent’anni, a Der König Kandaules(“Il re Candaule”), iniziato dopo il ritorno a Vienna, interrotto e rivisto dopo la morte di Berg e la conoscenza del manoscritto di Lulu, ma ancora incompiuto nella stesura dell’orchestrazione e definitivamente abbandonato quando Artur Bodanzky, ex-allievo di Zemlinky e da oltre vent’anni direttore del Metropolitan per il repertorio tedesco, considerò il finale del second’atto improponibile nel maggiore teatro newyorkese, già profondamente turbato dalla caduta dei sette veli di Salome...
Dopo alcuni decenni d’oblio, a partire dagli anni Settanta la musica di Zemlinsky è ricomparsa nei cartelloni; oggi godono d’una certa notorietà, anche grazie al convinto proselitismo d’un direttore di primo piano come James Conlon, almeno i due atti unici Una tragedia fiorentina (1917) e Il nano (1922), entrambi basati su lavori estetizzanti di Oscar Wilde che Zemlinsky carica espressionisticamente d’una robusta dose di “vissuto”: nel primo la crisi coniugale, culminata nel suicidio dell’amante, che aveva sconvolto la vita della sorella Mathilde, prima moglie di Schönberg; nel secondo il rifiuto oppostogli dalla bella e corteggiatissima Alma.
Il libretto del König Kandaules è diviso in tre atti, rispettosi dello schema classico esposizione-peripezia-catastrofe. Nel breve prologo in Melodram, Gige, già compagno di giochi di Candaule giovane ma ora povero pescatore estraneo alla corte, si dice contento delle quattro sole cose che possiede, la capanna la rete da pesca la moglie la povertà, e si contrappone al re, sempre circondato da adulatori perché spinto da una stravagante generosità a voler condividere tutto il suo; aggiunge un quinto motivo della propria contentezza: la forza congiunta all’orgoglio. Notiamo subito che il Melodram, forse sulla scorta dell’esempio berghiano, ritornerà nel corso dell’opera, in bocca sia ai protagonisti sia ai comprimari, ogni volta che Zemlinsky vorrà rendere meglio riconoscibili gli snodi narrativi della vicenda.
Nella prima scena, Gige rifiuta l’invito del Cuoco di trattenersi durante il banchetto che sta per cominciare, e s’allontana vantandosi di non essere un servo. Giungono i cortigiani, che scherzano sulla “disponibilità” della cuoca della reggia, “tesoro della sera prima”; poi si stupiscono alla notizia che al banchetto sarà presente anche Nissia, la moglie del re: questi, si dice, l’ama e ammira appassionatamente. Nella scena successiva, Candaule conferma la prossima comparsa della regina e qualcuno esprime il timore che, sebbene fortunatissimo e felice, l’incauto re possa incorrere in una disgrazia per opera di sua moglie o di sé stesso. Nella terza scena, la regina, inizialmente velata, accetta riluttante di mostrare il proprio volto. Il banchetto si scalda e Candaule fa mostra di considerare la moglie, proprio per i suoi insoliti pregi, un bene da condividere con i suoi amici. Nissia ne è contrariata: secondo lei è meglio uccidere la felicità che condividerla; assorta nei propri pensieri nota che, che in lontananza, sulla riva del mare, una capanna è in fiamme. Al colmo del festino, uno dei commensali sta per inghiottire un misterioso anello nascosto in un boccone di pesce. Porta l’iscrizione “nascondo la felicità”. Il cuoco riferisce che il pesce è stato portato da un certo Gige. Dopo essersi paragonata alla felicità, che appassisce se svelata, Nissia ottiene finalmente il permesso di coprire di nuovo il volto. Candaule, che ha ricevuto l’anello ma non ha voluto metterlo al dito, manda a chiamare Gige, con il proposito di farlo bere per divertire la compagnia. Nell’ultima scena del prim’atto Gige rifiuta il vino, risponde con secche parole alle domande del re, racconta che la capanna bruciata era la sua, incendiata per errore dalla moglie ritornata ubriaca dalla cucina del palazzo. Il re vuole conoscere la donna; i cortigiani deridono il pescatore per la sua convinzione d’essere il solo a possederla; Gige dichiara il proprio potere assoluto su di lei e la pugnala. Candaule ammira il suo gesto ed è colpito dall’orgoglio con il quale Gige, ormai in possesso solo della propria miseria, rifiuta di dichiararsi suo servo; riconosce di non essere suo padrone, ma riesce a trattenerlo a corte. Alla fine del prim’atto (circa 50 minuti), il re leva distratto e frettoloso le mense.
Nella prima scena del second’atto (circa 35 minuti) il re parla con Gige, ora suo intimo e riccamente vestito, di felicità e miseria, del loro diverso atteggiamento nei confronti della donna amata: Gige l’ha uccisa non sopportando di condividerla con altri, Candaule non si sente appagato se altri non ne conoscono e ammirano la bellezza. Alla domanda se amasse la donna uccisa, Gige risponde semplicemente che nelle notti d’inverno era calda nel suo letto e lo chiamava “padrone”. Il re è assalito da un pensiero incoercibile: dopo avergliene dimostrato l’imprevisto potere, propone a Gige di rendersi a sua volta invisibile infilandosi al dito l’anello magico trovato nel pesce, e assistere al suo prossimo colloquio con Nissia. Gige, dapprima riluttante, finisce per accettare. Nella seconda scena, che si svolge tutta in presenza di Gige invisibile, Nissia diventa sempre piú affettuosa con il re; si spoglia fino a restare nuda e alla fine, mentre il re s’allontana richiamato dai suoi ospiti, si sdraia sul letto nuziale nella stanza ormai buia. Gige è sempre invisibile ma non intangibile; il re, urtandolo mentre s’allontana, gli impone di restare con Nissia ed esce di scena augurando “ora tutto sia felice intorno a me”.
Dopo un preludio orchestrale piuttosto ampio, a cui è affidato un compito descrittivo e di commento dell’accaduto, il terz’atto (circa 40 minuti in tutto) s’apre con una scena dei cortigiani che commentano ignari l’agitazione di Candaule alla ricerca dell’anello magico. Poi Gige, solo, ricorda l’appassionata notte d’amore con Nissia e chiede all’anello di nascondergli i suoi stessi pensieri: “Gige ha paura di Gige”. Nella terza scena Nissia, languida e ancora eccitata, ricorda a Candaule la notte trascorsa come la migliore dei loro amori; il re, contrariato e perplesso, s’allontana imponendole di non seguirlo. Gige, sempre invisibile, è stato presente e ha sentito tutto. All’inizio dell’ampia scena finale, Gige, sfilatosi l’anello e tornato visibile, lo porge alla regina perché sia restituito al re, provocandola a indagare sull’accaduto, che le racconta all’inizio con esitazione e poi con sensuale entusiasmo. Al grido di Nissia: “Candaule! Mi credevo amata!” Gige risponde “Regina, lo siete!” e presto accetta l’ordine d’uccidere il re (l’alternativa che invece del re muoia Gige non viene proposta dalla regina modo molto convinto). Ricompare Candaule, che vuole accompagnare Nissia nelle sue stanze perché sta per cominciare un banchetto per soli uomini; la donna rifiuta e dà a Gige, di nuovo invisibile, l’ordine di colpire. Ucciso Candaule, la regina proclama Gige proprio sposo e re. Mentre i cortigiani s’avvicinano tremanti alle mense, Nissia, che Gige vorrebbe costringere a rimettersi il velo, proclama trionfante: “Mai piú velata! Candaule ha lacerato il mio velo!”; su queste parole Zemlinsky chiude l’opera lasciando l’ultima parola alla donna ed eliminando l’ordine “restauratore” di Gige, che nell’ipotesto di Gide suonava: «Eh bien! Recousez-le.» (Non molto diversamente, a nostro parere, Berg aveva eliminato da Lulu la maledizione finale che Wedekind pone in bocca alla Geschwitz.)
Solo nel 1989, quasi 50 anni dopo la scomparsa di Zemlinsky, la vedova Louise affida ad Antony Beaumont, già autore d’un nuovo completamento del Doktor Faust busoniano, il compito di giungere a una versione rappresentabile dell’opera. All’inizio del lavoro non era chiaro se i 122 fogli esistenti del cosiddetto Particell, una sorta di spartito con indicazioni dello strumentale, corrispondessero a tutto il materiale originario oppure solo a una parte di esso. Dopo un lungo e paziente lavoro di riordino, Beaumont poté concludere che nulla era andato perduto. Inoltre, Zemlinsky aveva lasciato l’orchestrazione di 846 battute del prim’atto (su circa 1200 di esso e 2800 dell’intera opera) e la riduzione pianistica delle prime 260 battute. Sempre secondo Beaumont, le annotazioni strumentali del Particell sono molto dettagliate, con indicazione d’insoliti assoli per clarinetto in Mi bemolle, sassofono contralto, ottavino, tuba, controfagotto, e anche di particolari modalità esecutive come pizz., sul ponticello, con sordino, Flatterzunge, glissando.
Poiché le parti orchestrate dall’Autore mostrano significative revisioni della musica scritta nel Particell, il lavoro del realizzatore mantiene comunque un notevole margine d’incertezza rispetto alla forma finale che all’opera avrebbe dato Zemlinsky. Beaumont conclude l’articolo allegato alla prima registrazione dell’opera, ricordando che per la conclusione ha usato, senza mutarlo, un impasto orchestrale del Lied von der Erde: motto del lavoro di Zemlinsky potrebbero infatti essere le parole »Dunkel ist das Leben, ist der Tod« (“oscura è la vita, è la morte”) che compaiono nel Trinklied vom Jammer der Erde, primo pezzo della grande “sinfonia” mahleriana. Resa materialmente possibile da una commissione della Staatsoper di Amburgo, la realizzazione dell’ultima opera di Zemlinsky raggiunse la scena nel 1996, con la direzione di Gerd Albrecht. La prima presentazione in Italia è nuovo merito del Teatro Massimo di Palermo, istituzione non insolita a iniziative di questo genere: basti ricordare lo storico Re Ruggero di Szymanowski, allestito nel lontano 1949 in uno spettacolo con le scene di Guttuso, che il librettista dell’opera dichiarò “vicino alla perfezione”.
A nostro parere, non ha molto senso neppure l’altra vieta accusa rivolta a Zemlinsky, cioè d’avere musicato «libretti assolutamente inadeguati e troppo datati»; preferiamo osservazioni piú oggettive come quella, ancora di Principe, che i suoi personaggi sono «accomunati da situazioni di disagio, di follia e di abnormità», ma è facile constatare che i libretti piú popolari del repertorio melodrammatico sono pieni zeppi d’anormali, di folli, di disagiati, e sono diventati «pane da nutrirsene» il pubblico solo grazie alle virtú chiarificatrici e catartiche della musica che hanno ispirato ai vari Mozart Rossini Verdi Wagner Puccini Strauss Berg Britten. Conveniamo, invece, che nel caso di Zemlinsky abbia senso parlare di tematica centrata sulla scissione della personalità e specificamente sul tentativo di sfuggirle. Ma è ben noto che nel teatro musicale il problema di destare l’interesse del pubblico alla vicenda rappresentata può essere risolto solo dal musicista e, in subordine, dai suoi interpreti.
Come ha osservato Peter Ruzicka, il contenuto musicale del König Kandaules non comporta radicali novità nel linguaggio dell’autore, caratterizzato dall’uso di fasce sonore, punti d’organo, complessi bitonali e polifonia severa. Il canto spiegato, le grandi esplosioni espressive sono riservate ai tre protagonisti, mentre i comprimari s’avvalgono quasi costantemente del recitativo e brevissimi, diremmo quasi sfuggiti sono i passaggi “concertati” che potrebbero ricordare la disputa degli Ebrei in Salome o il quintetto delle maschere in Ariadne auf Naxos, anche se la rinunzia non ci sembra contrastare con l’ipotesi d’un riferimento straussiano, al quale abbiamo già accennato, nella condotta vocale di Kandaules, da un inizio che può ricordare Bacchus a un certo smarrimento finale nemmeno troppo lontano da Aegisth. Se è qui lecito esporre la nostra impressione di spettatori, diremmo che Zemlinsky raggiunga piú volte la capacità d’emozionare con forza; questo avviene nei tratti in cui i tre protagonisti s’abbandonano alle loro passioni, compiutamente inverate dall’invenzione musicale fino alla travolgente conclusione dell’opera. Invece, meno immediato ricordiamo il coinvolgimento emotivo durante le scene d’insieme, prevalenti nel corso del prim’atto, e durante il lungo colloquio tra Kandaules e Gyges che apre il secondo, quando abbiamo piú sentito di dover ammirare l’ottima fattura orchestrale e la lodevole concisione espositiva.
La riserva, del resto possibile anche per un largo numero di titoli del grande repertorio, non ha alcuna attinenza con l’eccellente livello esecutivo della recita alla quale abbiamo assistito. La compagnia di canto convocata dal Teatro Massimo ci è apparsa d’alta qualità, diremmo ideale per questo titolo. In ordine di locandina, il folto gruppo dei comprimari, gli otto “cortigiani” e il Cuoco, comprende Nicolò Ceriani, Cristiano Olivieri, Paolo Orecchia, Jeremy Milner, Matias Tosi, Alex Wawiloff, Giulio Pelligra, Alexey Birkus e Ventseslav Anastasov, tutti vocalmente correttissimi e ben caratterizzati anche dal punto di vista scenico. Solo la maggiore importanza dei loro ruoli ci induce a ricordare la piú forte impressione lasciataci da Matias Tosi come Philebos all’inizio del terz’atto, da Nicolò Ceriani e Cristiano Olivieri come Phedros e Syphax negl’insiemi del primo.
L’ottima riuscita ci porta subito a riferire del ruolo svolto dal direttore israeliano Asher Fisch, un “veterano” del titolo avendone presentato già nel 1997 la seconda realizzazione assoluta alla Volksoper di Vienna (teatro del quale Zemlinsky era stato direttore musicale negli anni precedenti Praga). A noi è sembrato che il livello di precisione e di qualità timbrica dell’Orchestra del Massimo, impegnata in un titolo completamente nuovo, non abbia lasciato nulla a desiderare: compatto, a tratti sontuoso il suono degli archi, sempre molto “cantati” gl’interventi dei fiati; quindi Fisch, sicuro della resa orchestrale, ha potuto seguire e, per cosí dire, tenere costantemente in pugno il palcoscenico, soddisfacendo in tutto a quello che ci pare l’obbligo primario d’un direttore d’opera: mantenere sempre la tensione espressiva dello spettacolo.
Determinante ci è parso anche il contributo dei tre protagonisti, impegnati in quattro recite a distanza d’un giorno l’una dall’altra e tutti ugualmente lodevoli per intonazione, dominio tecnico della parte, impegno espressivo, gioco attoriale; nessuno di loro ha mai dato l’impressione di “forzare”, d’essere al limite delle proprie capacità vocali. Il baritono tedesco Kay Stiefermann ha reso un Gyges che, sempre coerente con la propria orgogliosa scontrosità di carattere, sa anche mostrare di cedere al richiamo sensuale, dominato però subito dalla consapevolezza del raggiunto potere, sí che non è sembrato una forzatura registica il duro tentativo finale d’imporre nuovamente il velo a Nyssia. Dopo la sicurezza mostrata già nel parlato del prologo, il suo “assolo” introspettivo del terz’atto, che costituisce la pagina solistica piú estesa della partitura e, a nostro parere, anche quella di maggiore scavo psicologico, è stato reso in modo non solo impeccabile, ma anche molto coinvolgente.
Nicola Beller Carbone, tedesca di nascita e perfezionamento musicale, spagnola di formazione culturale, è veramente apparsa tutt’uno con la parte di Nyssia, trascorrendo impalpabilmente, senza mai dover subordinare l’esecuzione musicale all’impegnativo ruolo scenico affidatole da testo e regia, dall’imbarazzo al risentimento, dall’orrore per l’uccisione della moglie di Gyges a un’ambigua giustificazione del gesto, dall’affettuoso desiderio di Kandaules alla felicità per il suo creduto amore, dall’ira per il tradimento subíto alla determinazione d’appropriarsi dell’amante e del potere per non rinunziarvi piú: varietà timbrica e crescente potenza d’emissione, sostenute da un vibrato ideale, hanno seguíto come meglio non potremmo immaginare l’evoluzione psicologica del personaggio.
Il tenore Peter Svensson, nato a Vienna e formatosi nei Wiener Sängerknaben, ha condotto König Kandaules dal generoso entusiasmo iniziale allo sconforto che ne precede l’eliminazione attraverso tutte le sfumature d’una presa di coscienza del fallimento di sé stesso che sarà ben difficile da dimenticare. Diremmo che si può riconoscere nell’adesione di quest’interprete all’evoluzione psicologica del personaggio la familiarità con il ruolo di Rienzi che lo portò, a metà anni Novanta, al suo primo grande successo. La sua vocalità di Heldentenor non perde mai di vista la flessibilità e, diremmo, la piacevolezza del “bel canto”.
La parte scenica dello spettacolo è stata diretta dal tirolese Manfred Schweigkofler, regista e co-autore insieme ad Angelo Canu del geometrico e funzionale impianto scenico a due piani, completo di sipario scorrevole. I costumi, un poco da fiaba gozziana per i cortigiani, piú individuati per i protagonisti, erano disegnati dalla slovena Mateja Benedetti. Alle prese con un testo sostanzialmente del tutto sconosciuto al pubblico e stracarico d’ambiguità e riferimenti, Schweigkofler ha optato, a nostro parere molto opportunamente, per illustrarne la vicenda aggiungendo solo poche ma efficaci sottolineature. Nella sua visione dell’opera ci è parso privilegiare il ruolo di Nyssia: non senza fondate ragioni, tra le quali la grande presenza scenica della Beller Carbone, capace di calamitare l’attenzione dello spettatore anche per i lunghi tratti del prim’atto in cui non canta ma trascorre incerta per il palcoscenico in un abitino giallo da donna-oggetto. Per la scena d’amore del second’atto ricompare avvolta in un gioco di veli rossi, destinati a cadere completamente (ma senza sospetto di cattivo gusto) quando Gyges le s’avvicinerà sospinto da Kandaules. Nel terz’atto indossa un diverso abito giallo, pomposo quasi da regina barocca, che diremmo voglia esprimere la consapevolezza del nuovo potere raggiunto insieme alla soddisfazione sessuale.
Una didascalia del libretto sottolinea che è del tutto inutile simulare con qualche artifizio scenico l’invisibilità di chi porta l’anello, poiché basterebbe alludervi tramite una gestualità adeguata di coloro che non li vedono. Schweigkofler, la Benedetti e il lighting designer Claudio Schmid hanno seguito una via intermedia: i visibili e il non-visibile sono stati mossi in modo del tutto significativo e convincente; particolarmente efficace è riuscito il progressivo coinvolgimento di Gyges nella seduzione che Nyssia tenta d’operare su Kandaules; ma, per renderla meglio comprensibile, l’invisibilità è stata anche sottolineata da un gioco di luci sui costumi, prima di Kandaules e poi, molto piú a lungo, di Gyges. Non possiamo dire che la scelta ci sia piaciuta, ma non sapremmo quale altra soluzione sarebbe stata preferibile. Ricordiamo infine che il preludio orchestrale al terz’atto è stato risolto come una specie di sogno erotico di Kandaules, moltiplicando sulla scena figure semisvestite di brave e belle figuranti, che quasi costantemente rivolgevano a lui e al pubblico le loro apprezzabili terga: alla fine, un piccolo battimano le ha premiate.
Alla recita a cui abbiamo assistito, larghi vuoti in platea e nei palchi. Dopo la conclusione, convinti applausi d’una parte del pubblico, mentre il resto usciva educatamente e senza fretta. Le date cosí vicine delle repliche, purtroppo necessarie in un sistema produttivo come il nostro, ci sembrano limitare il richiamo di quest’ottima realizzazione d’un titolo piú che meritevole d’entrare in repertorio. Speriamo vivamente che qualche altro teatro italiano voglia riprendere l’allestimento e segnaliamo la qualità insolita del libro-programma di sala.
Vittorio Mascherpa