Nabucco | Dimitri Platanias |
Ismaele | Paolo Antognetti |
Zaccaria | Riccardo Zanellato |
Abigaille | Susanna Branchini |
Fenena | Anna Malavasi |
Gran Sacerdote | Luciano Leoni |
Abdallo | Stefano Consolini |
Anna | Elena Borin |
Direttore | Renato Palumbo |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Regia | Leo Muscato |
Scene | Tiziano Santi |
Costumi | Silvia Aymonino |
Luci | Alessandro Verazzi |
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino |
Il Nabucco che fu allestito al vecchio Teatro Comunale nel 2014, ultimo anno di attività della storica struttura, fu un indiscusso successo di pubblico, che premiò la qualità complessivamente buona della produzione.
Non sorprende, quindi, una riproposizione dello spettacolo all'Opera di Firenze, che è stato salutato da un tutto esaurito fin dalla prima rappresentazione. Oltre che dei responsabili della parte scenica, il cartellone vede la conferma del direttore e dell'interprete di Zaccaria.
La regia di Leo Muscato, ripresa con estrema cura, ha confermato le ottime impressioni che aveva suscitato due anni or sono. Già allora si era apprezzata la sobria eleganza, lo spiccato senso del teatro e il gusto moderno con cui veniva evocato l'oriente antico, senza cadere nelle tentazioni della spettacolarizzazione da grande arena estiva, ma neppure nella banale riduzione minimalista di un'opera che ha comunque una struttura monumentale (e pure un po' statica), dove il coro è spesso presente in scena e ha un ruolo di vero protagonista, anche a prescindere dalla pagina di gran lunga più popolare della partitura.
Il disegno luci vario e suggestivo di Alessandro Verazzi valorizza le scene stilizzate e a loro modo ricche di Tiziano Santi, basate soprattutto su pannelli scorrevoli. Anche i bei costumi di Silvia Aymonino contribuiscono in modo essenziale alla piacevolezza visiva dell'allestimento.
Muscato è un regista di talento che accetta la ieraticità quasi oratoriale del Nabucco, animandolo per quanto è possibile con i movimenti delle masse (arricchite da figuranti) e con elementi simbolici come il fuoco, senza stravolgerne la natura.
Rispetto a due anni fa, invece, è parsa meno convincente la direzione di Renato Palumbo, che pure ricalca l'impostazione di fondo di allora. In questa occasione, tuttavia, i contrasti nei tempi sono sembrati ancor più esasperati e, soprattutto, più ostentati e fini a se stessi. Sfugge quale sia la lettura interpretativa di un'opera che alterna, certo, la grandiosità ancora un po' ruvida ed esteriore, tipica del Verdi giovanile, con numerosi oasi liriche. Ma l'impressione, quanto meno alla prima, è di un'esecuzione in cui dalla pesantezza della Sinfonia si passa all'ostentazione di forza e di volume, anche a costo di coprire le voci, e dove alle cabalette - specie quelle del protagonista - viene impresso un tempo precipitoso. Con il Va, pensiero si torna alla lentezza e alla trasparenza, talmente accentuata da far passare (un brano del genere, ad una prima) nella quasi indifferenza.
Pare mancare anche un adeguato sostegno ad un cast piuttosto disomogeneo. Lo domina senza sforzo Riccardo Zanellato, che fu già un buon Zaccaria due anni fa, ma che con il tempo pare crescere, con lenta ma inesorabile costanza, sia nella consistenza vocale che nella finezza di interprete. Non è infrequente, anzi, è quasi la regola nel registro di basso, che la voce maturi dopo anni di carriera. Così uno strumento che era - e che ancora sostanzialmente è - relativamente delicato per il tipo di repertorio affrontato, ha raggiunto una sostanza tale da poter reggere un ruolo monstre come quello del Gran Pontefice di Gerusalemme. E se l'impervia scena d'entrata è ben risolta, con tanto di ripresa della cabaletta, la Preghiera Tu sul labbro dei veggenti è un capolavoro di accenti nobili e di canto sul fiato, senza mai alcuna sbavatura nell'intonazione, così come è raro ascoltare in questa pagina.
Più convenzionale il Nabucco di Dimitri Platanias, dai mezzi importanti, caratterizzati da un timbro peculiare ma non sgradevole, oltre che dal colore omogeneo in tutti i registri. A dir poco monolitico, tuttavia, nel fraseggio, nelle dinamiche e nell'espressività. Solo nel Duetto con Abigaille e soprattutto nel Dio di Giuda (dove è però la pagina ad estorcere qualche piano in più dell'usato) il baritono greco fa emergere sprazzi di personalità adeguata al ruolo del titolo.
Maggiori problemi con la protagonista femminile. Susanna Branchini possiede una voce disuguale, che acquista volume e forza di penetrazione solo nel settore medio-acuto. Partendo da queste caratteristiche, e pur senza una cavata sontuosa al centro, è riuscita in alcune occasioni ad essere un'Aida e una Leonora di Vargas più che dignitosa, cogliendo in quei casi la giusta cifra espressiva del personaggio. Cosa che non accade con Abigaille. Le note difficoltà del ruolo derivano non solo dalla consueta sadica scrittura del giovane Verdi, che esigeva dalle interpreti estensioni eccezionali, saliscendi vertiginosi, esplosioni barricadere e ripiegamenti lirici (nell'aria e nel finale), ma anche dalla derivazione belcantistica del personaggio, che in fondo è debitore di certe protagoniste donizettiane.
Un'interprete ideale è quasi impossibile da trovarsi, visto che molti soprani drammatici devono venire a patti con le agilità o con gli acuti estremi o con le note da eseguire in piano, mentre i soprani più lirici pagano pegno nei passaggi di forza e in tutti i momenti in cui deve emergere la guerriera, più che l'innamorata delusa. Ma l'importante è che il soprano abbia la consapevolezza delle proprie caratteristiche e scelga l'approccio più consono, senza avventurarsi per la strada più impervia per sé. Invece la Branchini pare optare decisamente per l'Abigaille più estroversa e drammatica senza averne i mezzi. L'ingresso in scena è subito problematico, con il registro di petto ostentato, ma inevitabilmente aperto per la mancanza di corpo nei gravi. Dopo qualche miglioramento, tutta la grande scena che apre il secondo atto è faticosa e pare in debito di fiato.
L'impressione, insomma, è che se proprio si deve affrontare questa parte (ma non è obbligatorio), si sarebbe potuto scegliere un diverso approccio, magari su suggerimento del direttore.
Non eccezionale neanche la Fenena di Anna Malavasi, in ogni caso non sotto la sufficienza, a parte la riuscita poco felice della salita al La naturale in Oh, dischiuso è il firmamento. Quello acuto non sembra il settore più sicuro neppure per il tenore Paolo Antognetti, dalla voce di caratteristiche prettamente liriche, il quale comunque disegna un Ismaele abbastanza convincente, grazie anche alla nitida dizione.
È molto incisivo il Gran Sacerdote di Belo di Luciano Leoni, da seguire in qualche ruolo più impegnativo. Qualche lieve difficoltà nell'ingrata parte di Anna per Elena Borin e in difficoltà molto più evidenti Stefano Consolini come Abdallo.
Orchestra professionale e Coro come sempre impeccabile sotto la direzione di Lorenzo Fratini, quest'ultimo premiato da caldi applausi, ben distribuiti per tutti gli interpreti, con un giustificato e particolare consenso per Zanellato.
La recensione si riferisce alla prima del 20 dicembre 2016.
Fabrizio Moschini