Franz Joseph Haydn | Sinfonia n.94 in Sol maggiore "Sorpresa" |
Krzysztof Penderecki | Concerto per viola e orchestra |
Jean Sibelius | Sinfonia n.5 in Mi bemolle maggiore op.82 |
Direttore | Case Scaglione |
Viola | Caeli Smith |
Juilliard Orchestra | |
Toscanini diceva che un’orchestra deve saper suonare Haydn, Mendelssohn e Strauss: tutto il resto viene di conseguenza. Ma lo disse quando Strauss era un culmine di virtuosismo modernista: cosa direbbe oggi? Forse un programma come quello presentato da Case Scaglione e la Juilliard Orchestra lunedì alla Alice Thully Hall potrebbe andare bene. Haydn che resta Haydn, cioè il perfetto esempio di classicismo che non è uscito dai gusti del pubblico; Sibelius come esempio di Romanticismo, tardo ma ben legato alla tradizione sinfonica classica saldamente tonale; Penderecki a fare la parte del contemporaneo.
Un programma dunque che non può non far bene a un’orchestra giovane, composta da studenti ancora in formazione. Pur trattandosi della crema di una delle scuole musicali più prestigiose al mondo, infatti, si sente che c’è ancora strada da fare. Si sente, cioè, l’eccellente preparazione degli studenti (tra i quali una metà abbondante proviene dall’estremo Oriente) ma ancora una certa rigidità esecutiva con qualche indecisione qua e là. Che il lavoro sia in corso lo dimostra il fatto che l’esecuzione di tutti i tre brani è stata alquanto disomogenea, con passaggi eseguiti con grande perizia (lo stringendo alla fine della sinfonia di Haydn così come l’Allegro moderato che chiude il primo tempo di Sibelius) ed altri più opachi per mancanza di compattezza e di morbidezza di fraseggio. Scaglione in realtà ha curato il legato e i mutamenti dinamici, cercando di ottenere coerenza nel discorso musicale soprattutto nella “Sorpresa” di Haydn. Musicista che però appunto, come diceva Toscanini, non perdona: nel celebre Andante l’orchestra non era sempre pulitissima, e qui come altrove nel concerto l’impressione di un’esecuzione didascalica ha tolto qualcosa al respiro della musica. Saggiamente Scaglione ha tenuto tempi abbastanza comodi nei due movimenti estremi della “Sorpresa”, evitando così ulteriori problemi e permettendo ai suoi ragazzi di cercare i colori giusti e la grazia nel fraseggio che a tratti ha convinto.
Sia Sibelius sia Penderecki, rispettivamente nella Quinta Sinfonia e nel Concerto per viola, cercarono di organizzare la propria opera in modo che essa risultasse unitaria: l’uno affidandosi, come di consueto, a una sorta di intuizione quasi religiosa (“un credo” in una certa condizione esistenziale, disse); l'altro fondando il brano su un chiaro nucleo tematico che ne costituisse l’ossatura: entrambi forzando così nella direzione del poema sinfonico due opere che vogliono essere, contemporaneamente, un omaggio alla tradizione classica. Il Concerto del musicista polacco ha chiuso la prima parte del programma mettendo in luce la bravura di Caeli Smith, che sta seguendo un master alla Juilliard ma che ha già una notevole esperienza come solista. Intensa, precisa e ricca di personalità, la Smith ha osato non poco con un brano che pretende moltissimo dall’esecutore, la cui parte è un arco sonoro quasi ininterrotto la cui responsabilità nell’architettura della composizione è massima, a partire dalla presentazione dell’intervallo di seconda minore discendente che è la cellula fondamentale del concerto. Sulle peripezie tecniche ed espressive della viola l’orchestra si innesta con una serie di episodi che ruotano sempre intorno alle stesse idee, prova di grande abilità di scrittura data anche la scarsezza del materiale tematico; ne risulta un brano compatto e deciso nella sua fisionomia lamentosa e cupa, che dalla viola trae il suo colore fondamentale. Applausi e ovazioni per la Smith, senz’altro meritati; ma è vero che nella sala si respirava una certa aria di famiglia: molti dei presenti erano allievi della scuola, amici e parenti degli orchestrali, e alla fine della Quinta di Sibelius le urla di saluto ai vari strumentisti non si contavano. Nonostante anche qui, come dicevo, non tutto sia andato per il verso giusto. Qualche responsabilità ce l’ha anche Sibelius in questa sua tormentata sinfonia, più volte modificata ma che, come quasi tutte le altre, non lo accontentò mai del tutto. Il lungo e articolato primo movimento - ma non solo quello - conserva lo spirito della fantasia, e in questa forma Sibelius pensò di licenziare il pezzo finché non si decise per la sinfonia. L’andamento sognante, non sempre chiaro nella direzione, di quest’opera vorrebbe una scioltezza, un abbandono poetico che nell’esecuzione è affiorata solo a tratti. Di nuovo, come in Haydn, nei tempi più placidi la compagine era un po’ slabbrata, rifacendosi nei passi più brillanti come l’Allegro molto del terzo movimento. Quel che è sempre piaciuto, ad ogni modo, è lo spirito, l’intenzione con cui l’orchestra ha cercato di ottenere ciò che potrà maturare solo col tempo. Scaglione, “vice” di Alan Gilbert alla New York Philharmonic, sembra aver lavorato nella direzione giusta.
La recensione si riferisce al concerto del 26 ottobre.
Lorenzo De Vecchi