Hans Sachs | Wolfgang Koch |
Veit Pogner | Christof Fischesser |
Kunz Vogelgesang | Kevin Conners |
Konrad Nachtigall | Christian Rieger |
Sixtus Beckmesser | Markus Eiche |
Fritz Kothner | Eike Wilm Schulte |
Balthasar Zorn | Ulrich Reß |
Ulrich Eißlinger | Stefan Heibach |
Augustin Moser | Thorsten Scharnke |
Hermann Ortel | Friedemann Röhlig |
Hans Schwarz | Peter Lobert |
Hans Foltz | Christoph Stephinger |
Walther von Stolzing | Jonas Kaufmann |
David | Benjamin Bruns |
Eva | Sara Jakubiak |
Magdalene | Okka von der Damerau |
Nachtwächter | Tareq Nazmi |
Direttore | Kirill Petrenko |
Regia | David Bösch |
Scene | Patrick Bannwart |
Costumi | Meentje Nielsen |
Video | Falko Herold |
Luci | Michael Bauer |
Drammaturgia | Rainer Karlitschek |
Maestro del Coro | Sören Eckhoff |
Bayerisches Staatsorchester | |
Chor und Extrachor der Bayerischen Staatsoper |
Siamo in una Norimberga, o meglio, in una qualsiasi città della Germania, nella quale come per un paradosso temporale di una macchina del tempo impazzita troviamo mischiati elementi degli anni trenta (costumi degli apprendisti), quaranta (Magdalene e in genere alcuni abiti femminili), cinquanta (David, Eva e alcuni Maestri), settanta (Walther – ma si tratta di una mise che potrebbe essere utilizzata anche in qualsiasi periodo successivo), ottanta (Pogner e Beckmesser), novanta (le parabole sui terrazzi delle case scalcinate del secondo atto). Sachs è al di fuori del tempo e vive e lavora in una roulotte con la scritta luminosa Sachs, che perderà le due esse (ach), dopo la baruffa (qui un episodio di violenza gratuita). Le scene, per lo più scure, ci portano in una periferia degradata dove regna la violenza e le forze dell’ordine (il guardiano notturno – poliziotto di quartiere del secondo atto, impersonato da un ottimo Tareq Nazmi) devono soccombere alla banda di teppisti della zona. Walther è un giovane apparentemente senza arte né parte, giunto in città con la sua chitarra che amoreggia in un furgoncino con Eva mentre passa la processione dei fedeli che canta il corale Da zu dir der Heiland kam. Ragazzo ribelle e insofferente delle regole (alle quali è invece attaccatissimo David, forse un futuro Beckmesser, come lui schernito e picchiato), dopo il fallimento della prova, spacca un busto di Wagner e se ne va facendo il gesto dell’ombrello (il momento meno convinto della prova attoriale di Kaufmann). Nel finale, dopo il Preislied, rifiuta la coppa del vincitore e, nonostante la tirata finale di Sachs, volta le spalle a tutti e se ne va con la sua chitarra e con Fräulein Pogner.
È il finale il momento più controverso di questa produzione, che ha provocato al chiudersi del sipario alcune contestazioni. La gara del Johannistag è ripresa dal canale TV di Pogner, ricco boss del rione, sponsor della manifestazione, nonché padre di Eva. Al momento della tirata sulla supremazia dell’arte germanica, la trasmissione, proiettata su un grande schermo nel fondo scena, comincia ad offuscarsi, appaiono i puntini neri su fondo bianco, indizio di mancanza di segnale, che si propagano su tutto il palcoscenico, coro e solisti compresi. Ad un tratto iniziano ad affiorare confuse immagini: si vede una bocca in primissimo piano con baffetti stile Hitler, poi persone che gridano con facce stravolte dalla collera (documentario d’epoca? O una manifestazione di ultras odierni di estrema destra?). Poi, sempre a proposito di interpretazione dei Meistersinger in chiave storico-politica, c’era stato un altro momento inquietante: la marcatura degli errori di Walther, durante la prova del primo atto, aveva luogo con scariche elettriche alla sedia sulla quale il ragazzo era stato costretto a sedersi. Si può discutere fino allo sfinimento (e lo è stato fatto) se sia legittimo accostare la musica di Wagner ad un movimento di là da venire e del quale il compositore aveva sposato solo alcune tematiche, che pure a suo tempo sarebbero divenute alcuni dei pilastri del nazismo (nazionalismo e antisemitismo). Ma pur tenendo conto che i Meistersinger siano stati l’opera più “compromessa” con il regime, usata durante i congressi annuali e fatta segno di particolari apprezzamenti da Hitler stesso (le cui frequentazioni con i discendenti del compositore sono ben note), ritengo che elucubrare sull’ideologia di un artista riguardo a futuri avvenimenti sia cosa del tutto oziosa.
Può essere legittimo invece, ma non necessariamente condivisibile, che un regista sfrutti suggestioni, o meglio incubi, che una musica può suggerire, indipendentemente dalla volontà del compositore. E in questo caso David Bösch ha portato avanti le sue scelte con una certa coerenza e con indubbia professionalità. Il peccato capitale di questa produzione è stato però quello di non dare il giusto rilievo e di non scandagliare l’immensa gamma di possibilità offerte da un personaggio come quello del maestro ciabattino, qui ridotto ad unus inter pares invece di primus, come sarebbe giusto.
E dire che Wolfgang Koch, pur non possedendo il carisma di Bryn Terfel o la mobilità espressiva di Gerald Finley, resta pur sempre un interprete di rango, capace di superare l’immenso tour de force che il ruolo comporta, se non con souplesse, sicuramente con un certo agio; non è interprete banale e se il personaggio non è uscito fuori a tutto tondo, giudico il risultato parziale demerito soprattutto del regista (come già detto) e, in parte, di Kirill Petrenko.
Il direttore russo dà della partitura wagneriana una lettura smagliante, chiarissima, energica, a momenti tagliente e, qua e là, solcata da sciabolate quasi espressionistiche, in linea con le atmosfere di Bösch. I dettagli strumentali balzano in evidenza con un nitore impressionante, grazie a un’orchestra in stato di grazia, e chi cercasse magniloquenza bayreuthiana d’antan (e non solo), edonismo sonoro, empiti romantici, estenuati lirismi, resterà deluso. Date queste premesse, i brani a sfondo patetico o di carattere più intimo, come il monologo del lillà, la scena tra Eva e Sachs, il monologo della follia o il quintetto del terzo atto, acquistano una luce nuova, ma li diresti un filino asettici, inglobati comunque in una lettura di grande coerenza e compattezza.
Chi beneficia in modo straordinario dell’approccio di regista e direttore, è il personaggio di Beckmesser, che balza ad un’evidenza quasi protagonistica. Il Märker è l’uomo che non riesce ad andare oltre le regole, non riesce a cogliere il nuovo; impossibilitato a staccarsi dalle consuetudini. non può e non vuole andare oltre. La sua limitatezza, sia a livello artistico, sia a livello umano, lo rende incapace di soddisfare le sue ambizioni artistiche, come di essere corrisposto nel suo desiderio di amore. Deriso e bistrattato, ridotto ad una maschera di sangue nella baruffa-pestaggio, buato al suo solo apparire già prima della prova, in una mise improbabile, con canottiera a rete e vestito dorato, affronta l’esibizione, ma non riuscirà a portarla a termine a causa dell’incapacità di comprendere un testo per lui inaccessibile da tutti i punti di vista. Sconvolto, vede naufragare tutto; prima incolpa Sachs del suo fallimento puntandogli contro un’arma, che poi invece rivolgerà verso se stesso. Grande interprete di questa figura è Markus Eiche, impeccabile vocalmente e grande talento di artista. Mai un effetto gratuito, il ruolo è tutto risolto nel canto; l’attore è così coinvolgente da rendere un personaggio, di solito antipatico o grottesco, pur con tutte le sue meschinità, se non vicino, certo degno di comprensione e umana solidarietà. A lui, alla fine, tra le generali ovazioni, forse il tributo più caloroso del pubblico.
Un personaggio estremamente semplificato è Walther, come già accennato ridotto a giovane ribelle, in jeans e maglietta neri e con chitarra al seguito. Nessun dubbio, nessun ripensamento, va dritto per la sua strada. I suoi interessi maggiori sono la birra, il fumo, le ragazze (e si ha proprio l’impressione che Eva sia solo l’ultima, per adesso, di una lunga serie). Jonas Kaufmann si adatta alla bisogna con spirito ed anche con buoni risultati, ma si capisce che non è del tutto nel suo elemento. Vocalmente risolve il lungo e impegnativo ruolo sempre con abilità e, spesso, con bravura, arrivando alla fine, se non fresco come una rosa, sicuramente del tutto in grado di affrontare il Preislied con tutti gli onori.
Una menzione a parte per Eike Wilm Schulte, settantasettenne, al cinquantesimo anno di carriera, omaggiato dalla regia con un simpatico espediente: Kothner, al suo apparire nella scena finale, viene festeggiato con un video augurale per i cinquanta anni del vecchio fornaio nella Gilda dei Maestri Cantori, tra gli applausi del popolo. Schulte conserva una voce ferma e sonora capace ancora di farsi valere. Come attore poi è tenero e commovente nel raccogliere e carezzare i cocci del busto di Wagner frantumato da Walther.
Gli altri Maestri sono meno caratterizzati da Bösch, ma dobbiamo sottolineare il bel timbro e la bella figura di Christof Fischesser, autorevole Pogner, e la prova complessivamente professionalissima di Kevin Conners (Kunz Vogelgesang), Christian Rieger (Konrad Nachtigall), Ulrich Reß (Balthasar Zorn), Stefan Heibach (Ulrich Eißlinger), Thorsten Scharnk (Augustin Moser), Friedemann Röhlig (Hermann Ortel), Peter Lobert (Hans Schwarz), Christoph Stephinger (Hans Foltz).
Sara Jakubiak è una Eva volitiva, ben consapevole di quello che fa e vuole, spontanea e sciolta in scena, con una voce ben timbrata e ben proiettata, gestita con ammirevole controllo.
Di ottimo rilievo anche la coppia Davide – Magdalene, Benjamin Bruns, scatenato attore, dotato di vocalità fresca e chiara, Okka von der Damerau, di opulenta figura con uno strumento sonoro e di bel colore. Entrambi musicalissimi, precisi, comunicativi
Una lode a parte per il coro diretto da Sören Eckhoff, dal suono compatto, duttile, dalle dinamiche illimitate.
Come già accennato, successo trionfale per tutti e in particolare per Petrenko, fatto bersaglio anche di contestazioni da parte di uno o due isolati buatori. Siamo in democrazia, per fortuna, e tutti i pareri vanno rispettati. Ma mi chiedo: di fronte ad una prestazione che non offre il fianco ad alcun rimprovero dal punto di vista esecutivo, ma anzi presenta alcuni crismi di eccezionalità, ha senso disapprovare rumorosamente un taglio interpretativo non gradito, anche perché abbastanza inedito? Il tutto mi ricorda un po’ quelli che fischiavano la Callas perché abituati alla Caniglia, o ancor di più quelli che contestavano Sinopoli perché troppo originale e concettoso.
Comunque sia, onore all’Opera di Stato Bavarese, che presenta, a livello mondiale, una delle stagioni più ricche, varie e con distribuzioni che noi italiani, ma non solo, ci possiamo purtroppo solo sognare. La discussione sulle regie è sempre aperta; tutto sommato, però, direi proprio che i melomani (e gli amanti della musica in generale) di Monaco di Baviera siano da ritenersi decisamente fortunati.
(La recensione si riferisce alla recita del 29 maggio 2016)
Silvano Capecchi