Corrado | Ivàn Ayòn Rivas |
Medora | Adriana Iorzia |
Seid | Marco Caria |
Gulnara | Roberta Mantegna |
Selimo | Matteo Mezzaro |
Giovanni | Cristian Saitta |
Un eunuco/Uno schiavo | Raffaele Feo |
Direttore | Matteo Beltrami |
Regia | Lamberto Puggelli |
ripresa da | Grazia Pulvirenti Puggelli |
Scene | Marco Capuana |
Costumi | Vera Marzot |
Maestro del Coro | Corrado Casati |
Orchestra Regionale dell'Emilia Romagna | |
Coro del Teatro Municipale di Piacenza |
Giunto davanti al teatro vedo con sospetto sul manifesto la fatidica strisciolina bianca di carta che annuncia l’indisposizione e la sostituzione del soprano Serena Gamberoni. Accomodato in platea, poco prima dell’apertura del sipario una gentile voce annuncia che il soprano Roberta Mantegna, malgrado un’indisposizione improvvisa, sosterrà ugualmente il ruolo di Gulnara. L’unico intervallo, fra il secondo e il terzo atto, doveva durare venti minuti: ne passano venticinque e lo spettacolo non ricomincia; ne passano altri cinque e le luci non si spengono. Ahi! Ahi! Arriviamo al trentacinquesimo minuto e l’apprensione aumenta. Al quarantesimo la stessa gentile voce annuncia un malore improvviso del tenore Rivas, che però continuerà la recita. Accidenti! Proprio l’atto terzo è la parte del Corsaro che Verdi prediligeva…..”
Chi nell’ormai lontano 1971 vide, trasmesso dalla RAI, il concerto finale del Concorso internazionale di voci verdiane da essa bandito, certamente ricorderà un giovane soprano dal lucente timbro argenteo, che interpretò una romanza da un’opera di Giuseppe Verdi che non era ancora stata “sdoganata”. Nemmeno nel 1951, cinquantenario della morte del musicista, era uscita dagli archivi, come invece accadde per Giovanna d’Arco e I due Foscari, che ebbero fra gli interpreti un giovane Carlo Bergonzi, il quale aveva appena lasciato la corda baritonale per quella tenorile, pronto a diventare uno dei migliori cantanti verdiani per pulizia di stile e precisione musicale. Il giovane soprano era Katia Ricciarelli, la romanza “Non so le tetre immagini”, l’opera Il Corsaro, che fu rappresentata per la prima volta al teatro Grande di Trieste il 12 ottobre 1848, stretta fra quel capolavoro dell’anno prima che è Macbeth e opere successive come Luisa Miller (dalla drammaturgia ben più stringente di quella del Corsaro), come Stiffelio (anch’esso a lungo negletto, ma dalla tematica assai moderna e scandalosa) e poi dallo scoppio della trilogia cosiddetta popolare.
Il Corsaro ebbe a Trieste una cattiva accoglienza e le poche successive rappresentazioni, una quindicina, in Italia e all’estero, si esaurirono entro gli anni Cinquanta dell’Ottocento. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso tuttavia Il Corsaro ha ripreso una, anche se non continua, felice navigazione.
A lungo quest’opera fu giudicata infelice e ritenuta composta da Verdi di malavoglia, costretto ad onorare un contratto con l’editore Francesco Lucca, da lui definito “esosissimo ed indelicatissimo”. L’assenza del musicista a Trieste per la prima rappresentazione (assenza che irritò il pubblico), alcune sue frasi come quella sopra riferita ed altre in una lettera a Piave in cui scrisse che “egli [l’editore Lucca] è stato con me indelicato, villano, esigente”, il dramma della prima guerra d’indipendenza che vedeva il Piemonte dei Savoia contro l’Austria (e Verdi scriveva al suo librettista: “Tu credi che io voglia occuparmi di note, di suoni?... Non c’è né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli Italiani del 1848. La musica del cannone!”) hanno sempre fatto credere che Verdi si fosse disinteressato del Corsaro, abbandonandolo al suo destino. Eppure un’analisi accurata della partitura rivela che non mancano momenti interessanti dal punto di vista sia musicale sia teatrale, soprattutto nel terzo atto, quello che l’autore preferiva. Ci sono nel Corsaro le “solite forme” (recitativo, aria o duetto, tempo di mezzo, cabaletta), ma ravvivate dal gioco orchestrale e dall’attenzione riservata più alla parola (la parola scenica!) che alla regolarità della melodia. Prova ne sia la lettera che Verdi scrisse al soprano Marianna Barbieri Nini, interprete del personaggio di Gulnara e già prima Lady Macbeth, ricca di consigli e alla quale raccomandava di pronunciare le parole con crudo realismo, “senza andare a tempo, senza badare alle note”.
Il libretto di Francesco Maria Piave è tratto dal poema di Lord Byron The Corsair del 1814 (la prima traduzione italiana è del 1819), già sfruttato da operisti come Giovanni Pacini e da coreografi (la figura del proscritto, dell’eroe ribelle e fuorilegge godette di grande favore nel melodramma romantico italiano dell’Ottocento: Il Pirata di Bellini, Il Paria di Donizetti, Ernani e I Masnadieri di Verdi stesso). Non c’è molta documentazione che ci indichi, come per altre opere, i suggerimenti talora imperiosi ma sempre pertinenti del musicista al librettista. Piave seguì il dettato del poemetto byroniano, scontrandosi con la difficoltà di ridurre a testo teatrale un poema composto essenzialmente di descrizioni e di racconti. Le tre parti del testo byroniano corrispondono ai tre atti dell’opera: la partenza del corsaro, l’assalto alla sede del pascià Seid e la sconfitta, il ritorno di Corrado, che ritrova Medora morente (mentre Byron fa morire la fanciulla prima del suo ritorno). La verseggiatura ha un certo pregio, come nel coro iniziale dei corsari, nel recitativo e nell’aria di Corrado e nella romanza di Medora, versi nei quali il librettista dimostra di saper tradurre con perizia i versi originali. Manca tuttavia una solida compattezza nella trama, un punto focale nello scontro fra tenore, baritono e soprano: gelosia? guerra di religione? infelicità esistenziale? lotta per la libertà? La vicenda si svolge in Grecia, anzi nelle isole di quel paese per la cui libertà Lord Byron (esecrato in patria per la sua condotta poco consona alla moralità corrente, ma amato come poeta) lottò e morì (a Missolungi nel 1824): ciò avrebbe potuto suggerire un più incisivo filo conduttore nello scontro fra Corrado e il pascià.
Lo spettacolo presentato a Modena, nato anni fa a Parma ove fu ripreso varie volte, era affidato a Grazia Pulvirenti Puggelli, che riprendeva la regia di Lamberto Puggelli. Ė uno spettacolo “tradizionale”, che si basa sulla presenza continua del mare, anzi di una nave (scene di Marco Capuana), che mi ricordava i corsari di Emilio Salgari, amatissima lettura dei miei ormai lontani anni adolescenziali. Si tratta di un’unica scena variata da vele, gomene, sipari per ricreare i vari ambienti, benché il loro apparire verticale od orizzontale risultasse troppo ripetitivo. Le luci di Andrea Borelli erano suggestive, i costumi di Vera Marzot eleganti (neri per i pirati, bianchi per i musulmani, variopinti per le odalische). La regia, non avendo a disposizione cantanti attori, alcuni dei quali dovevano anche fare attenzione ai loro problemi di salute, non ha potuto incidere molto sulla gestualità; inoltre lo scontro fra musulmani e corsari nel secondo atto è avvenuto in uno spazio troppo stretto per cui esso è stato penalizzato, malgrado la bravura dei coristi e dei maestri d’arme. Inoltre in questa scena è stata abbandonata a se stessa Gulnara, il che ha reso un poco incomprensibile il suo subitaneo innamoramento nei confronti di colui che l’ha salvata dall’incendio dell’harem (anzi dell’haremme, come recita il libretto).
Tra i cantanti ho apprezzato nei primi due atti, prima del suo malore, il tenore Ivàn Ayòn Rivas, dalla giovanile voce di metallo pregiato, dalla buona dizione, dagli acuti facili e luminosi, capace di delicate sfumature nei momenti più lirici regalandoci un Corrado tra il dolente e una inquietudine esistenziale; ha saputo anche essere impetuoso come nella travolgente cabaletta “Sì, dei corsari il fulmine”. Il baritono Marco Caria amava sfoggiare il suo ragguardevole volume e i suoi acuti sicuri e ben timbrati, dando vita ad un pregevole duetto con Gulnara nel terzo atto, in cui sottolineava dapprima l’ironia melliflua delle parole e poi l’esplosione violenta della gelosia. Roberta Mantegna, l’odalisca schiava del pascià, penalizzata dall’indisposizione, non ha potuto onorare appieno il suo difficile ruolo, in cui abbonda tutto l’armamentario del soprano drammatico di agilità, ma la sua incontestabile preparazione le ha permesso di portare a termine con onore la recita. Adriana Iorzia mancava del timbro adatto a rendere la malinconica purezza di Medora, palesando carenze nelle note basse, acuti un po’ aspri e qualche incertezza negli abbellimenti dell’aria. Completavano il cast con decoro il basso Cristian Saitta (Giovanni), il tenori Matteo Mezzaro (Selim) e Raffaele Feo (un eunuco/uno schiavo).
Il coro del teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati ha mostrato compattezza e bella sonorità (soprattutto nel settore maschile) nei suoi numerosi interventi, come il solenne inno ad Allah, come il complesso concertato del finale secondo e il dolente compianto al momento della morte di Medora.
Ho lasciato per ultimo il direttore Matteo Beltrami, che ha condotto in porto “la nave corsara” con impeto, dirigendo l’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna senza sentirsi in soggezione nei momenti gagliardi di quest’opera che appartiene ancora ai cosiddetti “anni di galera” verdiani; gli accompagnamenti sapevano essere elastici, come erano espressivi i momenti più preziosi ed originali della partitura (introduzione all’ingresso di Medora nel primo atto e alla scena del carcere nel terzo). L’opera è stata eseguita nella sua interezza, con la ripetizione delle cabalette, anche se con parche variazioni.
La recensione si riferisce alla recita del 26 ottobre 2018.
Ugo Bedeschi