Riccardo | Francesco Meli |
Renato | Luca Salsi |
Amelia | Sondra Radvanovsky |
Ulrica | Yulia Matochkina |
Oscar | Federica Guida |
Silvano | Liviu Holender |
Samuel | Sorin Coliban |
Tom | Jongmin Park |
Un giudice | Costantino Finucci |
Un servo d'Amelia | Paride Cataldo |
Direttore | Nicola Luisotti |
Regia, scene e costumi | Marco Arturo Marelli |
Luci | Marco Filibeck |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione Teatro alla Scala |
Nel 2013 Damiano Michieletto, qui alla Scala, ci aveva trasportato con il suo Ballo nell’America odierna, tanto spettacolare e un po’ tanto baraccona, trasformando Riccardo in un leader politico colto alla vigilia dell’elezione a qualche importante carica istituzionale, ovviamente osannato da alcuni e odiato da altri. Il protagonista era colto in un momento di particolare stress, vivendo molto male l’innamoramento per la donna del suo bodyguard Renato. Era un uomo solo, in conflitto con sè stesso, tra l’essere un uomo pubblico e famoso fin troppo esposto da un lato e la sua più malinconica natura privata, da nascondere, dall’altro. Traduzione assai fantasiosa del melodramma che suscitò qualche incomprensione e qualche dissenso molto poco trattenuto, con lancio di volantini di protesta dalle gallerie. Ma si sa, qui alla Scala, o si fa tradizione o si grida allo scandalo, bastando per alcuni, evidentemente, la sola debordante melodia verdiana. E noi saremmo invece dell’avviso che una regia fantasiosa, se non proprio geniale, sia in grado di esaltare ancor di più una grande musica teatrale.
Il regista Marco Arturo Marelli, anche scenografo e costumista, questa sera mescola tragico e brillante dando una certa rilevanza alla storia d’amore e al conseguente tradimento, ma soprattutto alla morte onnipresente (tema centrale dell’opera), senza accontentarsi della semplice illustrazione improntata al naturalismo. Riccardo è un sovrano amato dal suo popolo ma non dai nobili, qui in veste di cospiratori, in nera divisa fascista ben riconoscibile dal resto dei sudditi. Al di là della superficie brillante e della spensieratezza che spande a piene mani in pubblico, nel privato soffre maledettamente per un amore contrastato per la moglie del suo luogotenente.
Il preludio ce lo presenta solo e malinconico, immerso nei suoi sogni amorosi irrealizzabili, che affronta ai piedi di un modellino di teatro, con la figura della morte che sinistramente vigila alle sue spalle e che si ripresenterà anche nel secondo atto e nel terzo, intenta a suonare il violino per una ipotetica serenata lugubre ai due innamorati che si accingono a dirsi addio per sempre e che accoglierà il morente Riccardo tra le proprie braccia. Riccardo è comunque un re, con scettro e mantello bordato di ermellino mentre posa per un quadro celebrativo come un novello “Re sole” e che, nel finale primo, esce in sedia gestatoria come un papa, tra il giubilante sbandieramento di popolo. Alla seriosità del ruolo mischia però anche una certa ironia divertita, come quando fa finta di morire dopo la plumbea e mortifera profezia della maga. Purtroppo nega la profezia e negandola corre inesorabilmente verso la morte. La scena, pressoché fissa, mostra quinte e soffitti dipinti, illustrati da eleganti stucchi dorati, finisce ad imbuto in un fondale nero come un buco senza fondo, aperto sul nulla angosciante.
Nel finale, per il ballo in maschera, le quinte si aprono rivelando scorci del teatro alla Scala, in una opportuna esaltazione del teatro in musica. L’antro della maga è una landa desolata e Ulrica è una santona, con relativi amuleti di circostanza, purtroppo vecchia ed anche zoppa e mezza cieca, circondata da proseliti a mo’ di vestali del culto divinatorio. Esce da un masso erratico come da un cilindro di un prestigiatore, sotto il quale bruciano gli incensi di rito, e il regista descrive la grande roccia come “il destino che trova la sua controparte visiva in questo luogo arcaico, ispirato ad una frase del romanzo epistolare Iperione di Hölderlin”. Nel secondo atto altri massi erratici, su cui sono appollaiati neri corvacci porta iella, che fanno da cornice al duetto d’amore e all’arrivo dei congiurati in mantello nero ed elegante cappello a cilindro. Amelia è una signora in veste rossa, forse per un richiamo al “senso di colpa”, ma all’agnizione viene spogliata e resta in bianco virginale, ma non sembra una figura particolarmente evidenziata dal regista, che descrive anche Renato, didascalicamente, come un fidato amico e confidente, che poi finisce per essere l’inesorabile vendicatore, in preda all’alcol (per dimenticare) mentre la moglie lo prega di risparmiarla.
Siparietto patetico è la comparsa del figlio della coppia con peluche gigante a richiamare una inascoltata pietà. L’una e l’altro, comunque, impegnati in una recitazione assai convenzionale e risaputa. Oscar è un paggio dispettoso e irriverente, tanto brillante da vestirsi da arlecchino nel ballo finale a cui partecipano gli altri invitati in mantello rosso fiammante. Silvano veste alla marinara in azzurro pastello e Samuel, ciecato da un occhio, e Tom sembrano un po’ il gatto e la volpe. Il coro poi spesso si ferma immoto in pose plastiche come un tableau vivant, sia nel primo atto sia nel ballo finale, con effetto “massa” poco dinamico. Per contro, i coristi, vestiti da pescatori minacciano incomprensibilmente la malcapitata Ulrica e poi, durante la barcarola, ondeggiano a ritmo, agitando i remi in maniera puerile. Le luci lunari sono opera di Marco Filibeck. In definitiva, nulla di particolarmente fantasioso né tanto meno convincente.
Nicola Luisotti, che sostituisce Chailly indisposto, si conferma un concertatore che, alle prese con la tradizione, appunto, non lascia a bocca aperta ma non delude, come nel preludio che affronta con passo intriso di sincera malinconia. Nitidezza ritmica, agogica varia, pulsione narrativa incisiva, scarti appassionati e sin esuberanti, come nell’allegro agitato e presto nella tumultuosa introduzione al secondo atto o nel duetto tra i due innamorati, mischiati però anche a leggerezza, eleganza ed ironia, come nel quartetto seguente. Episodi festosi con Oscar al centro, personificazione di tutto ciò che di spensierato è presente nel carattere di Riccardo. Atmosfera cupa e misteriosa con una non disprezzabile spruzzata di magia negli episodi con Ulrica protagonista. Ma altrettanto in evidenza anche il disegno malinconico di molti cantabili, come il tema dell’amore di Riccardo per Amelia, questa sera dolce ed estatico. Volume raramente prevaricante il canto, con attenzione maniacale ai dettagli e agli assolo degli strumenti: il corno inglese mesto nell’aria di Amelia “Ma dall’arido stelo divulsa” o il cello struggente nella seconda aria di Amelia “Morrò ma prima in grazia” o amoroso durante il duetto del secondo atto; l’ottavino spumeggiante ed ironico nella ballata e nella canzone di Oscar ma anche nella canzone di Riccardo “Dì tu se fedele”, in cui la ribalderia del protagonista si rivela con tutta la sua simpatia. Incalzante nel ritmo febbrile del terzetto del secondo atto, svolto con ritmo ossessivo a illustrare i sentimenti contrapposti dei protagonisti. Vivacissima ed impetuosa è poi la lunga scena del ballo. Con una certa solennità un po’ pomposa descrive l’inno finale del primo atto, mentre quello conclusivo dell’opera suscita emozione nel crescendo grandioso, carico di religiosa costernazione e pietà.
Il coro diretto da Alberto Malazzi stupisce come al solito per precisione e puntualità. Che sia il sereno “Posa in pace” sottovoce o l’entusiasmo di lode verso Ulrica; che sia l’enfasi nel “Figlio d’Inghilterra” o la beffarda e ritmata derisione dei congiurati nel finale secondo; che sia il festoso “Fervono amori e danze” o lo stupefatto inno in morte di Riccardo, il plauso da solo non è mai sufficiente.
Francesco Meli ribadisce di essere uno dei migliori Riccardo in attività. Timbro di smalto prezioso, appoggio perfetto, con legato, mezzevoci e smorzature da manuale. L’emissione morbida ed omogenea nei registri gli consente un fraseggio vario e ricco di chiaroscuri, però gli estremi acuti hanno perso un po’ di squillo. Nella sortita sfoggia un tenero desiderio che è sempre mediato anche da una carezzevole grazia. Nella canzone mostra un carattere spensierato oltre ad essere imbevuto di coinvolgente spavalderia con briose accentature, ma da sottolineare con ammirazione, è il salto di tredicesima che lo porta per ben due volte dal Labemolle acuto al Do grave con perfetta musicalità. “Ѐ scherzo od è follia” è declinato con leggerezza, scetticismo ma anche con tanta ironia. Tutto il duetto con Amelia scorre su una corda commovente, di passionalità vibrante, giocato su mezzevoci efficaci ed espressive e il suo “M’ami, m’ami!...oh sia distrutto” si espande in un crescendo di esuberante radiosità. Nella romanza espone senza infingimenti un’inquietudine che si arricchisce di ripiegamenti e abbandoni malinconici. E il finale si carica di commozione, giocata per altro tutta su fascinosi piani e pianissimi.
Sondra Radvanovsky, già Amelia nella scorsa edizione del Ballo qui alla Scala, ha estensione ragguardevole con cavata ampia ma timbro non proprio prezioso. L’emissione è compatta, i gravi sicuri ma suonano assai aperti. Gli acuti però sono troppo esuberanti e penetranti, quasi percussivi, come il Do naturale in “Ma dall'arido stelo divulsa” o nel finale del duetto con Riccardo, ma soprattutto nei concertati. Buono però il Sibemolle che poi si inabissa di due ottave fino al Do grave alla chiusa dell’aria stessa. Il problema però è rimasto un po’ quello di sempre, l’interprete non ha la stessa qualità della cantante un po’ tanto accademica, che resta comunque assai generosa. Quei trapassi psicologici che richiede la grande aria del secondo atto sono poco esibiti: dolore, spavento e commiserazione sono difatti posti ai margini. Mentre nel duetto la passionalità ha una sottolineatura meno calligrafica e la preghiera in “Morrò ma prima in grazia” si squaderna con dolente e appropriato struggimento e precisa suona la salita al Dobemolle “scoperto” finale.
Luca Salsi è un Renato di alta scuola. Al di là del timbro pastoso e brunito che affascina o la facilità nei gravi come nella salita agli acuti, è soprattutto il modo di “porgere” e l’accento che si fanno ammirare, come il legato espressivo, in ritmo di polacca, nell’aria ”Alla vita che t’arride” che evidenzia l’introversione del personaggio ma anche l’affettuosa preoccupazione per la vita di Riccardo. Nell’”Eri Tu che macchiavi quell’anima” esibisce sconcerto e rabbia con risentimento suscitati dal presunto tradimento della moglie che poi si sciolgono nei rimpianti amorosi e nella nostalgia dell’amicizia profonda poi spergiura del suo migliore amico, esaltati con dovizia di mezzevoci e Fa e Solbemolle acuti da incorniciare.
Yulia Metochkina ha gran voce di timbro seducente, che utilizza senza ostentazione, e delinea una validissima Ulrica. Sfoggia una emissione sul fiato che le consente nell’invocazione, con un opportuno legato, di trasmettere l’ambiguità sfuggente del personaggio, prima con cupa solennità, poi virata in esaltata minaccia, vedi “È lui, è lui!”, con un bel salto d’ottava dal Do grave sotto il rigo al Labemolle acuto. Quindi, senza tentennamenti, la voce si inabissa molto bene in un Sol grave risonante a “Silenzio”, per poi concludere con un La acuto timbrato. Utilizza con fantasia i chiaroscuri necessari a dipingere di fosco mistero “Dalla città all’occaso” e carica di presagi di morte tutto il finale d’atto.
Oscar brioso ed incantevole è Federica Guida, dalle agilità ben dipanate con acuti, Sibemolle e Si naturali della ballata e della canzone, luminosi e con una bella e sicura salita anche al Do nel quintetto. Sorin Coliban, Samuel, e Yongmin Park, Tom, con voci cupe e incisive, all’inquietudine vendicativa nascosta all’inizio aggiungono il sarcasmo e l’ironia, con brindisi, nel piccante siparietto del secondo atto, e trascinati da Renato si aggregano in un tragico e solenne patto di morte contro l’odiato Riccardo.
Il Silvano di Liviu Holender ha il fare simpatico di chi, a ritmo di marcia e voce omogenea, chiede la giusta mercede per i propri servizi e poi, ricevutala, guida il coro in un inneggiante e grandioso ringraziamento. Costantino Finucci, un giudice, e Paride Cataldo, un servo di Amelia, cantano senza mende.
Serata accolta da applausi convinti per tutti i protagonisti, più evidenti e scroscianti per i cantanti e il direttore, un po’ più tiepidi per il regista.
La recensione si riferisce alla prima del 4 maggio 2022.
Ugo Malasoma