Simon Boccanegra | Luca Salsi |
Jacopo Fiesco | Ain Anger |
Paolo Albiani | Roberto de Candia |
Pietro | Andrea Pellegrini |
Amelia (Maria) | Eleonora Buratto |
Gabriele Adorno | Charles Castronovo |
Capitano dei balestrieri | Haiyang Guo |
Ancella di Amelia | Laura Lolita Perešivana |
Direttore | Lorenzo Viotti |
Regia | Daniele Abbado |
Scene | Daniele Abbado, Angelo Linzalata |
Costumi | Nanà Cecchi |
Movimenti coreografici | Simona Bucci |
Luci | Alessandro Carletti |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Nuova Produzione Teatro alla Scala |
Un complesso “dramma politico” ma anche un “dramma del rimorso”, quello di Boccanegra. Un pirata ma soprattutto un uomo che non avrebbe desiderato per nulla il potere offertogli. Un uomo solo, privato degli affetti. Un uomo assetato di giustizia che tenta in tutti i modi di riconciliare i nobili guelfi e i plebei ghibellini, responsabili di una fratricida lotta senza quartiere, specchio delle contrapposizioni e dell’odio che hanno determinato la storia d’Italia sin dal Medioevo. Quindi dinamiche che si prolungano nel tempo, con un interminabile serie di disvelamenti, rovesciamenti di schieramenti politici, incomprensioni, “conflitti come punti di svolta, cruciali, dell’esistenza sia individuale sia collettiva” e la presenza costante della morte, che il regista Daniele Abbado traduce in uno spettacolo davvero triste, poco ravvivato dalle luci plumbee di Alessandro Carletti. Certo, in definitiva ci sono “compostezza, strazio e perdono” tutte cose declinate in maniera sacrale, come “un Requiem glorioso e amaro per le sofferenze umane” ma il modo tutto in sottrazione della messa in scena toglie più che disvelare. Se per il regista “l’opera vive di una grande essenzialità a livello musicale, testuale e discorsivo”, ebbene, parecchio essenziali ma brutte appaiono anche le scene, firmate dallo stesso Abbado e da Angelo Linzalata.
Domina la notte sia nel Prologo, con la morte di Maria a vista tra le braccia di Simone, sia nel finale con la morte del Doge nel totale sgomento dei personaggi. Nel Prologo quinte grige come pilastri di una vecchia fabbrica dismessa, uno spiraglio lascia passare un filo di luce dalla magione dei Fieschi, un corteo di fanciulle con fiammelle omaggiano con mestizia la morta; sartiame, alberi maestri e vele a ricordarci che il mare è in qualche modo protagonista ma anche, immancabili, sbandieramenti di giubilo per l’elezione del Boccanegra. La notte e non l’alba tersa ispirata dalla musica nel primo atto, per il giardino dei Grimaldi, con fanali colorati sul fondo, indefinito, a seguire, una magnolia solitaria sulla destra. Per la sala del Consiglio, una grande scalinata ma non un trono, chiusa da un telone enorme color mattone, strappato durante la sommossa, con più che altro un po’ di spintonamenti, in cui vengono però malmenate alcune guardie del Doge. A sinistra, con costumi per lo più grigiastri si schierano popolani e marinai, a destra gli aristocratici e borghesi con bombetta e cappello a cilindro e pure loro in grigio.
I costumi riferibili alla seconda metà dell’800 sono firmati da Nanà Cecchi. Nel secondo atto, un piano inclinato con un povero studiolo tipo Ikea, che in nulla richiama la nobiltà e la maestosità del ruolo dogale. Più che l’irruzione della folla nel tumulto osserviamo un andirivieni di corsa, da destra a sinistra e viceversa, di isolati figuranti che ovviamente sbandierano a più non posso stendardi anch’essi indefiniti, poi bruciati (onestamente, cose non più sopportabili!). Botte da orbi a vista nel terzo atto, con un sipario che si alza per mostrarci sulla destra un misero gozzo, alla faccia della potenza marinara di Genova. Simone si spoglia della veste dogale ma il colore scuro imprecisato la fa assomigliare ad una vestaglia, e poi muore. Ribadiamo che a furia di apparire essenziale la regia finisce per non esprimere granché, con i protagonisti alle prese con i soliti gesti attoriali, buoni per tutti gli usi. Recuperare la messa in scena e le idee di Strehler?
Lorenzo Viotti concerta con una discreta varietà agogica, una buona flessibilità ritmica e tante sfumature e colori. Forse più attento ad estrapolare i particolari che non ad evidenziare il quadro d’insieme, tra la grandiosità e la maestosità che si sviluppano nell’ambito politico e pubblico e al contempo l’ispirata poeticità, che illumina la storia privata. Nel primo caso, nella complessa architettura dei concertati, si apprezza la capacità di controllare gli spessori sonori in modo che austerità e drammaticità non siano declinati solo in un forte andante, non troppo clangoroso, come nel finale eccitato del Prologo o come nel tumulto del Finale primo e secondo, illustrato quest’ultimo dal motivo della “sommossa”; nel secondo caso, nei duetti tra i due innamorati, la melodiosità e il disteso lirismo rendono la contrastata loro storia d’amore credibile, con il ricorso a piani e pianissimi di concreta efficacia, come anche gli interventi di Amelia, sempre improntati ad un sincero abbandono sentimentale.
L’agnizione bascula tra romantica poesia e crescente eccitazione, carica anche di una vibrante passione. L’incedere del racconto mette in luce però anche la forza drammatica e cupa delle contrapposizioni sociali e soprattutto politiche, vedi i duetti Simone-Fiesco, il secondo declinato in un più morbido e commosso incedere con il motivo della “riconciliazione”, pieno di mestizia, nel bel legato dei legni e archi ansimanti. La concertazione riguarda anche i quadri sonori puramente orchestrali come l’allegro moderato del Prologo, che dipinge un’atmosfera nobile e insieme solenne e misteriosa o il lento assai che (dovrebbe) ritrarre la magia del mare nella rarefatta aria mattutina dell’inizio del primo atto. Infine, un cenno anche agli archi lievissimi che accompagnano la benedizione di Simone e il concertato finale con la morte del Doge, descritto da un sommesso senso di lutto e cordoglio.
Il coro diretto da Alberto Malazzi gioca con efficacia tra piani e pianissimi e mezze voci nel Prologo, immerso in un’atmosfera complottista, e la ferocia, esuberante e tumultuosa, che contrappone patrizi e plebei. Coro che impersona il popolo pronto a lasciarsi andare ad ogni manifestazione di rabbia e vendetta prima che il cordoglio e la commozione scenda su tutti alla morte del Doge.
Luca Salsi è un Simone eccellente. Con il timbro brunito, l’emissione morbida nei registri, l’accento “verdiano”, pieno di attenzioni ai segni di espressione, con legato e fraseggio articolatissimo da incorniciare. Acuti (Fa, Fa diesis e Sol) ben timbrati, piani, pianissimi e mezze voci ben sostenute, che ne fanno un protagonista vibrante, dall’autorevole austerità ma anche e soprattutto di grande umanità. Come nella commozione che si contrappone alla insensibilità sprezzante di Fiesco nel primo duetto o quella che illustra l’agnizione paterna e la nobile tenerezza espressa nei confronti della “ritrovata” Maria. Accenti solenni nel “Messeri, il re di Tartaria” ma anche la fierezza che sdegnata si erge possente contro il tumulto del popolo che lo vorrebbe morto. Il fervido richiamo e lo struggente appello ai contendenti nel magnifico “Plebe! Patrizi! Popolo!” e non ultimo il convinto paternalismo con cui perdona l’Adorno e la composta commozione che lo accompagna nel triste finale.
Il ruolo di Jacopo Fiesco necessita di voce profonda, “quasi sepolcrale” come voleva Verdi, dalla cavata ampia, dall’accento aristocratico di tangibile fierezza e solennità. Ain Anger purtroppo vocifera. Avrebbe le note gravi (Fa diesis sotto il rigo) ma manca del resto. Colore scuro ma emissione che si stimbra appena la voce sale sul pentagramma e i Fa acuti sono proprio brutti. Una dizione incerta e la tecnica deficitaria non consentono di fraseggiare come necessario. Si perde per strada il personaggio: per nulla orgoglioso, protervo, autoritario o sprezzante ma monocorde anche nel finale dove non riesce ad esprimere una parvenza di umanità.
Amelia è una giovane innamorata, con centri di spessore e gravi risonanti, il fraseggio ricco di spontaneità, senza enfasi o, peggio ancora, leziosità. Tecnicamente dovrebbe essere in grado di salire fino al Do acuto nel terzetto del secondo atto, ma anche ai tanti Sibemolle e ai Si naturali, ad esempio nell’aria: “Come in quest’ora bruna” o nel primo duetto con il Doge. Eleonora Buratto, assolve il compito tecnico in maniera più che sufficiente, dimostrando tuttavia che la parte le sta un po’ larga. Gli acuti sono infatti parecchio spinti e alcune note appaiono calanti, con i gravi che non hanno un significativo volume, però scolpisce a tutto tondo una ragazza perspicace, non solo appassionata nell’idillio con Gabriele ma anche consapevole delle mire torbide dell’Albiani. Figlia devota al padre che mostra anche una visione assai limpida sugli intrighi e le lotte politiche che non danno pace a Genova.
Charles Castronovo è un Gabriele Adorno un po’ deludente. Il timbro è scuro e i centri di volume, con acuti ahimè parecchio sforzati. L’accento è vibrante di baldanza giovanile, come nel primo duetto con Amelia, senza disdegnare il canto a fior di labbra, anche se le mezze voci suonano assai opache, vedi il tenero “Ripara i tuoi pensieri” o il raccolto incedere religioso di “Eco pia del tempo antico” (duetto con Fiesco). Al fremito guerresco e (alla un po’ esagerata) estroversa gelosia che, equivocando, lo oppone al Doge (per nulla squillante il Sibemolle acuto nel furente “Pel cielo!”) e che illustra la prima parte di “O inferno! Amelia qui!”, fa seguire anche abbandoni lirici da commosso innamorato nel “Cielo pietoso rendila” e nell’andante “Parla, in tuo cor virgineo”.
Roberto De Candia è il bravissimo perfido Paolo Albiani. Più che dipingere un intrallazzone barricadero, sempre torvo e vendicativo, come nel crescente odio profuso in “Vilipeso…reietto”, preferisce dimostrarne appropriatamente la insinuante perfidia, in “L’atra magion vedete” dell’inizio o nel lento e cupo “Qui ti stillo una lenta, atra agonia”.
Corretti Andrea Pellegrini, Pietro, il sodale di Albiani, Haiyang Guo nel ruolo del Capitano dei balestrieri e Laura Lolita Perešivana l’ancella di Amelia.
All’inizio della rappresentazione il sovrintendente Mayer ha comunicato agli spettatori che l’orchestra della Scala aveva vinto un prestigioso premio internazionale come “Migliore Orchestra operistica”.
A conclusione della serata, ovazioni per Salsi, applausi convinti per la Buratto e per Viotti, contestazioni all’indirizzo di Anger e applausi di stima per i protagonisti della messa in scena. Evidentemente il cognome Abbado incute ancora tanto rispetto.
La recensione si riferisce alla prima dell'1 febbraio 2024.
Ugo Malasoma