Hermann | Vitali Taraschenko |
Conte Tomskij | Vladimir Vaneev |
Principe Eleckij | Dimitri Hvorostovskij |
Cekalinskij | Mario Bolognesi |
Surin | Alexander Teliga |
Caplickij | Ki Hynn Kim |
Narumov | Luciano Batinich |
Il Cerimoniere | Nicola Pamio |
La Contessa | Elena Obratzova |
Liza | Dagmar Schellenberger |
Polina | Ulia Gertseva |
La Governante | Sim Tokyurek |
Maša | Adelina Scarabelli |
In una lettera del 1878 a commento della quarta sinfonia, Ciaikovskij scriveva: "Il fato è la forza inesorabile che ci impedisce di aspirare alla felicità e di raggiungerla, che veglia gelosamente affinché la nostra felicità e la nostra pace non siano mai complete e senza nubi, che pende sul nostro capo come la spada di Damocle e distilla un lento veleno nell’anima... Tutta la nostra esistenza è un ininterrotto ondeggiare tra realtà dolorose, sogni effimeri e miraggi di gioia. Non v’è salvezza. Noi andiamo alla deriva su questo oceano sino a che esso ci sommerge e ci sprofonda nel nulla". Sembra l’introduzione programmatica alla Dama di picche, composta in soli 44 giorni nel 1890, con una tensione che non deve essere stata di poco conto se l’Autore intervenne di fatto anche sul libretto approntato dal fratello Modest, troppo lento nella stesura, modificando in maniera più teatrale il racconto omonimo di Puskin. Il nodo della vicenda viene così spostato dalla sola avidità legata al vizio del gioco all’amore che, per realizzarsi, passa attraverso la ricchezza, raggiunta grazie alle carte. Hermann diviene così un innamorato di Liza, fidanzata del principe Eleckij, personaggio assente in Puskin, e nipote della contessa, non dama di compagnia. Hermann si uccide invece che finire internato in manicomio, mentre la povera Liza si getta nella Neva in luogo del matrimonio con un semplice impiegato. Musicalmente emerge un sostanziale equilibrio tra l’intimismo tutto ciajkovskijano e la spattacolarità tutta francese, alla Manon o al Faust, tanto per intenderci. In una "partitura sinfonica" basculante tra due opposti sentimenti, da una parte l’isteria nevrotica di Hermann e dall’altra la trepidante passione amorosa di Liza, dal romanticismo più straziante al decadentismo più morboso, dalla tragicità al pessimismo melanconico, che intridono tutta l’opera di una melodrammaticità unica, l’Autore non si fa scrupolo nemmeno di "imprestiti" evidenti. Come il coro dei bambini dalla Carmen; l’intermezzo pastorale del secondo atto da musiche mozartiane; l’aria della contessa, cantata in francese dal "Riccardo cuor di Leone" di Gretry e ancora il minuetto del secondo atto da Bortnjanskij, fino all’inno "tuoni di vittoria" all’arrivo dell’imperatrice alla fine del secondo atto da Kozlovskij con un’esplosione pomposa dei fiati acuti. Ma Ciajkovskij non disdegna neppure l’uso di leitmotiv che caratterizzano psicologicamente le fasi più significative dell’opera , come il tema "delle tre carte", autentica spina nel fianco dell’irrequieto Hermann , presente a scandire la ballata di Tomskij e nel finale del primo atto con l’entrata della contessa; il tema "dell’amore" che risuona nell’ouverture, come accompagnamento dei pensieri di Liza nel primo atto e nel duetto successivo Hermann-Liza e come contrasto al tema delle tre carte. Ed infine il tema "del destino" che appare a descrivere la contessa e il suo fantasma, ma intride tutta la seconda scena del secondo atto nella camera della contessa , con le tinte livide delle viole in ripetizione ostinata a sottolineare l’ossessione per il segreto delle tre carte che pervade Hermann. Opera, quindi, di contrasti musicali e drammaturgici, di facili melodie e di enfasi sincere, che Temirkanov ha saputo tradurre in una esecuzione da antologia. Sin dall’introduzione, un andante mosso in cui si intrecciano due delle melodie più significative: il tema delle tre carte, enunciato dagli ottoni, e il tema dell’amore, sottolineato dagli archi dolci e passionali, fino alla straziante citazione della sesta sinfonia, il direttore ha saputo realizzare una sintesi di sommo virtuosismo. E’ emerso, tra l’altro, un indubbio amore per i personaggi principali, che sono stati avvolti ora da una sovreccitata tragicità ora da un trepidante lirismo, in cui l’intensità dei sentimenti ha commosso senza mezzi termini. Cito, al proposito, nel terzo atto, l’andamento ondulante degli archi, ritmico, simile ad una marcia scandita, che simula l’eccitazione e la nevrosi di Liza che attende Hermann sulla riva della Neva e che precede l’andante molto cantabile dell’aria successiva. Eccellente nel crescendo drammatico del temporale che assomma alla furia della natura l’angoscia esistenziale di Hermann e dove sa far emergere, con nitore, anche i piccoli particolari apparentemente insignificanti come i flauti che simulano il cadere delle prime gocce di pioggia o, sempre i flauti, il vento che sibila quando sulle austere armonie del coro religioso, cantato fuori scena, si materializza davanti ad Hermann il fantasma agghiacciante della contessa, sui discendenti cromatismi degli ottoni. Attento alle sfumature con cui evidenzia i molti temi popolari, come nella magia armonica dell’andantino mosso del duo Liza-Polina con un dolcissimo accompagnamento del pianoforte; come nella canzone di Polina malinconica e lamentosa o nella canzone-danza allegra e vivacissima che ne segue; come nella canzone spensierata delle cameriere del secondo atto e nella mazurka salottiera del quadro della bisca del terzo atto, che viene subito d’appresso, per altro con un contrasto trascinante, all’apocalittico finale in ff del secondo quadro, come una marcia funebre che riprende l’arioso di Liza. Elegante e raffinato quando sottolinea i ritmi di danza mozartiani presenti nell’intermezzo pastorale, con la sarabanda che precede il duetto Prilepa-Milovzor, il minuetto che arabesca l’insieme successivo, fino alle trombe squillanti, tipo marcia trionfale, che chiudono con allegrezza il tutto a richiamare, non tanto larvatamente, l’Idomeneo. E quando il tema del destino e il finale della sesta sinfonia echeggiano in contrasto col dolcissimo coro dei giocatori a scandire in ppp il requiem finale, a tutti noi è chiaro come il pathos di questa partitura abbia avuto in Temirkanov il suo traduttore più significativo ed esauriente. Con i cantanti non siamo invece allo stesso livello e se si eccettua l’indubbia bravura di Hvorostovsky, chi più chi meno, gli altri non emozionano. Fatta la premessa che la parte di Hermann ricorda la tessitura di Otello, con molti La e Si naturali che devono lievitare su una partitura densissima e la necessità, quindi, di possedere un registro centrale molto robusto ma anche un passaggio tecnicamente valido, il ricorso ad una espressività, per altro richiesta da Ciaikovskij stesso, che trascolora dagli accenti affettuosi da vero innamorato alla nevroticità isterica dei momenti di ossessione, impegna allo spasimo il tenore. Taraschenko , che sostituisce Didyk indisposto , ha sicuramente registro centrale potente, sa essere generoso, ma forzando sistematicamente negli acuti, finisce per ritrovarsi molto affaticato al terzo atto. Qualche tentativo di mezze voci, qualche riuscito alleggerimento nell’emissione non tolgono la sensazione di una interpretazione muscolare e poco approfondita. Passa così senza coinvolgimento l’arioso del primo atto , concitato ed esteriore; l’intensa scena con la contessa è più convulsa che non sinceramente vissuta e i due duetti con Liza sono tradotti con arida scolasticità. Dignitoso, dunque, funzionale certo ma nulla più. Altrettanto complicata è la parte di Liza, anch’essa alle prese con un ricco strumentale, si dibatte tra una tessitura da soprano drammatico e una da lirico, avendo però del secondo l’obbligo di una espressività che faccia risaltare la dolcezza e la trepidazione della giovane innamorata. La Schellenberger, sicuramente avvenente, non mi pare che abbia di Liza tutte le caratteristiche necessarie, tant’è che non si può tacere delle difficoltà negli acuti, sempre forzati, fibrosi, voluminosi più che penetranti. E quando si fatica con le note, poco spazio si riesce a dedicare all’interpretazione. Così una densa mestizia si stende su tutta la prova, priva di vera melanconicità, di angosciosa attesa, di slancio passionale e di fragilità giovanile. Dicevo della buona prova di Hvorostovskij, il baritono ha un timbro naturalmente brunito, con gravi e centri risonanti, una emissione rotonda in tutti i registri e una straordinaria musicalità che con il legato, profuso in abbondanza nell’aria del secondo atto, mi paiono evidenziare pregi indiscussi. Mi resta da dire che la presenza carismatica ha contribuito a rendere la sua esibizione perfetta anche nei concertati. Il simpatico Tomskij di Vaneev si fa apprezzare per centri torniti, forse non è dotato dei chiaroscuri necessari e risulta un po’stimbrato nell’acuto finale della ballata, ma è viceversa perfetto nell’andante della canzone del terzo atto. La Polina della Gertseva ha unito alla fascinosa bellezza, tecnica di valore e musicalità, sia nel duettino con Liza, sia nella malinconicissima romanza e nell’idilliaco intermezzo pastorale. Corretti il Cekalinskij di Bolognesi, il Surin di Teliga e gli altri comprimari, con una piccola nota stonata nella Prilepa della D’Ascoli. Ho lasciata per ultima , anche per deferente rispetto del glorioso passato, la contessa della Obratzova, per altro fatta oggetto di una sincera ovazione alla fine dell’aria "Je crains de lui parler la nuit", cantata come una ninnananna a fil di voce. Carisma profuso a piene mani , presenza scenica straordinaria ed inquietante, maschera terribile nella sua implacabile glacialità, ma la voce è ridotta al lumicino. Sempre intubati e pompati i gravi, le note centrali sono ora più declamate che cantate e quando deve salire al registro superiore il diaframma non tiene più, con un vibrato davvero imbarazzante. Ma, come si dice: è la contessa! Del resto da una contessa ottantenne che si pretende, più realismo di così? Il coro, mi si consenta di proclamarlo, si copre di gloria e questa non è più una notizia ma una certezza. Lo spettacolo congegnato dal regista Medcalf e dallo scenografo Vartan non ha colpito per novità di idee né per bellezza, riuscendo, anzi, a deludere senza scusanti. I costumi si rifanno alla metà dell’ottocento, mentre sono rigorosamente settecenteschi quelli dell’intermezzo. Una moltitudine di divise militari, tra cui curiosamente spiccano quelle di Cekalinskij e Surin, vestiti da ufficiali dell’armata rossa, si confondono per contro in mezzo ad un ridotto numero di borghesi. I cantanti sono lasciati ai gesti abitudinari di ogni produzione operistica, con il povero Hermann che canta da sdraiato e prono tutta l’introduzione del terzo atto, mentre un corteo funebre, con tanto di bara della contessa, sfila con l’incenso sul fondo. Ho notato una particolare staticità del coro che spesso guarda il pubblico, canta al proscenio o passeggia in su e giù sul palcoscenico , come nel caso dell’attesa della rappresentazione della pastorale. Un plumbeo color blu notte caratterizza quasi tutte le scene che mi paiono dimesse, sia nell’abusato ricorso alle ringhiere che simulano i giardini o la riva della Neva, sia nella casa a cilindro, apribile con una certa difficoltà, evidentemente, visto che un povero macchinista, rimasto incastrato nell’ingranaggio, è comparso a "vista" in palcoscenico nel secondo quadro del secondo atto. Il teatrino di corte ha avuto il suo corollario coreografico privo di autentica suggestione. Direi imbarazzanti poi, la statua "animata" della Venere moscovita, la comparsa di un marinaio al centro della scena che porta in braccio una Liza-figurante morta annegata, mentre la Schellenberger se ne esce con le proprie gambe a destra o l’apparizione delle tre enormi carte come tavoli ribaltabili alla fine del secondo atto e decisamente brutto, infine, il grande specchio che riflette i tavoli della bisca al terzo. Che dire, si poteva far di meglio? Gli applausi sinceri al direttore e a tutti i cantanti sono stati il suggello finale a questo struggente Ciaikovskij.
Ugo Malasoma