Nabucco | Leo Nucci |
Ismaele | Aleksandrs Antonenko |
Zaccaria | Vitalij Kowaljow |
Abigaille | Liudmyla Monastyrska |
Fenena | Veronica Simeoni |
Abdallo | Giuseppe Veneziano |
Anna | Tatyana Ryaguzova |
Il gran Sacerdote | Ernesto Panariello |
Direttore e concertatore | Nicola Luisotti |
Regia | Daniele Abbado |
Scene e costumi | Alison Chitty |
Luci | Alessandro Carletti |
Movimenti coreografici | Simona Bucci |
Video | Luca Scarzella |
Collaboratore del regista | Boris Stetka |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione Teatro alla scala in coproduzione con
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E' l'unico che alla fine si attira qualche fischio ma il regista Daniele Abbado proprio non li merita. La sua messa in scena con la collaborazione di Alison Chitty per scene e costumi funzionali, Alessandro Carletti per le luci mai banali, Luca Scarzella per i video drammatici in bianco e nero e Simona Bucci per i movimenti coreografici è intelligente e merita di essere analizzata al meglio. Non è che l'idea della rappresentazione di un popolo oppresso sia proprio nuova, ma già l'aver escluso palandrane improbabili, copricapi ridicoli o scene statiche con leoni più o meno babilonesi - quasi fosse pacifico intendere il Nabucco solo come un dramma sacro ricco di enfasi ma privo di teatralità - ci suscita una certa ammirazione. La musica di Verdi è violenta, sin feroce, piena di scontri, contrapposizioni e riconciliazioni ed ha in sé una forza drammaturgica inequivocabile. Lo scontro tra Nabucco e il popolo d'Israele, quello tra Nabucco e Zaccaria, infine quello tra Nabucco e Abigaille è anche scontro di popoli, di passioni individuali, di conflitti di personalità in un gioco dove il gesto attoriale diviene necessario quanto l'adesione alle complesse asperità vocali. Quindi non esiste Gerusalemme, non esiste Babilonia e neppure i babilonesi, ma il racconto teatrale descrive il percorso accidentato di un popolo oppresso, tra paure, sensi di colpa, terrore, violenza e bisogno di libertà e di liberazione. I cori non sono statici, acquistano anzi quella mobilità sinonimo di vita, tragica certo, e vibrante. Il “va pensiero” cantato nel deserto, luogo di esilio, di sofferenza, di espiazione ma anche di spiritualità, di solitudine e di ricerca di Dio, vede gli ebrei ammassati come un gregge smarrito. Mentre, durante il coro a cappella “Immenso Jeovha”, la rappresentazione plastica di un popolo finalmente ritrovato e liberato ha la potenza della rievocazione del quadro “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo. La scena iniziale ci catapulta in un cimitero ebraico, tra una selva di lastre tombali. E' un luogo della memoria, un luogo sacro, profanato con la distruzione delle stesse lapidi, come oltraggio al culto dei morti e alla loro storia eterna. Non si può non associare questa violenza alla Shoah. Nabucco, per Abbado, diviene un chiaro precedente storico della ”soluzione finale” nazista. Manca Nabucco re, e certamente non si coglie fino in fondo la grandezza tragica del personaggio, soprattutto quando si appresta a cantare la grande aria “Dio di Giuda” in canottiera e bretelle sgarrupate. L'assenza dei babilonesi, rimpiazzati da sgherri vestiti come gli ebrei, crea qua e là qualche confusione, come nella stretta finale dopo l'aria di Nabucco della parte quarta. Ma questi esempi non ci paiono sufficienti per inficiare il risultato finale di una messa in scena assai interessante.
La concertazione del maestro Nicola Luisotti è corretta, senza particolari pregi però. Il difetto, a nostro parere, sta sempre nel modo in cui si traduce il primo Verdi: sonorità troppo massicce, survoltate soprattutto nei concertati, ricerca dei contrasti il più possibile accesi, dinamiche improntate ad una drammaticità vibrante ma priva delle doverose sfumature. Qua e là non si lesina sulla maestosità della costruzione, come nel finale primo e secondo, ma anche con ritmi implacabili che non sempre si accompagnano all'attenzione auspicata per il canto. Malinconia e abbandono non hanno la giusta sottolineatura, vedi il terzettino della prima parte o l'andante dell'aria di Abigaille: “Anch'io dischiuso un giorno”. Altrove, come nel “Va pensiero”, nel “ Dio di Giuda” o nel rondò finale di Abigaille, i segni di espressione vengono invece sufficientemente calibrati. Nel dettaglio: la sinfonia, pur senza grande fantasia, si dipana con indubbia efficacia. Ci pare giusto rilevare il bel suono caldo e morbido dei violoncelli nel preludio alla preghiera di Zaccaria, in cui l'atmosfera di intimità e raccoglimento ben si oppone al vibrante e martellante finale della precedente cabaletta di Abigaille. Il violoncello solo doppiato dalla brillantezza del flauto ispira invece un nobile “Dio di Giuda”. Insomma una prova concreta, che non stupisce, ma che non merita neppure la isolata contestazione indirizzatagli alla ripresa dello spettacolo dopo l'intervallo.
Eravamo in attesa della prova di Leo Nucci, l'ultimo grande baritono verdiano, con una certa ansia reverenziale. Alla prova del palcoscenico l'artista non ha certamente deluso, perchè l'accento c'è sempre, anche se non più aristocratico, la ricerca del legato con i fiati giusti è ancora efficace, gli acuti sono ancora sicuri e ben timbrati, e la figura spande carisma sulla scena con una recitazione intensa, ma il cantante è stanco. Sarà l'adesione all'idea registica, quella cioè di evidenziare un re sin da subito vecchio e meno protervo e guerriero del consueto, sarà l'organo vocale non più fresco, certo oggi non abbiamo un Nabucco di statura storica, letteralmente sovrastato dalla figliastra Abigaille nel duetto della parte terza. Il timbro è ingrigito ed arido, l'emissione accidentata, i portamenti ascendenti – una sua caratteristica da sempre – ora sono periclitanti e assai sgradevoli. Le sue mezze voci corrono con una certa qual difficoltà ed ovviamente ne risente l'espressività e la completezza dell'interpretazione, vedi un appena corretto “Oh di qual onta aggravasi”, dolente e mesto ma certamente non elegante. Così come del resto non è elegante neppure il “Dio di Giuda”. Il caldo abbraccio del pubblico alla fine, meritato, ci sembra un tributo onestissimo più alla grande carriera passata che ai meriti della serata.
Ovazioni invece per Liudmyla Monastyrska, una bravissima Abigaille. Voce dal volume esteso, un po' opaca nell'ottava bassa, regale nei tanti acuti timbrati e vibrantissimi. Corposa e risonante nei centri con una screziatura brunita che ha impreziosito l'interpretazione del personaggio: aggressiva, tutta proiettata verso la bramosia di potere e la sete di vendetta, con una vocalizzazione martellante, fortemente ritmata, dall'enfasi espressiva debordante. Espressività non completamente risolta nei passi più lirici del cantabile del terzetto o nell'aria “Anch'io dischiuso un giorno” ma certamente straordinaria nei concertati e assai efficace nel rondò finale, dove ha piegato l'organo vocale, così rigoglioso, a mezzevoci, piani e pianissimi davvero da applausi. Ma il soprano non si è fatta trovare impreparata neppure nelle agilità, nei trilli e nelle colorature: vedi la salita al Do acuto e la caduta di due ottave nel recitativo che precede l'aria della parte seconda o nella cabaletta “Salgo già del trono aurato”, questa sera davvero elettrica. Poderosi i vocalizzi dal La acuto con discesa fino al Si sotto il rigo e alla brusca risalita fino al Sol acuto nel duetto con Nabucco, dove la possanza vocale finisce per annientare ogni resistenza del povero re. E' una Abigaille che fatica ad essere credibile come innamorata, ma che avrebbe tutte le carte in regola per essere una regina di grande carisma.
Il Coro, diretto brillantemente da Bruno Casoni, assurge alla dimensione quasi mitica di una individualità-collettiva, di una voce di popolo unica e compatta, alle prese con la miseria e il dolore della persecuzione, da cui rassegnazione ed inerzia, fino alla crescente speranza mai sopita. Il “Va pensiero” con il suo canto lento, uniforme nel colore è questa sera davvero un inno che assomma sospensione incantata alla nostalgia e mestizia per la patria perduta, l'addio alla vita alla fierezza dell'appartenenza. “Gli arredi festivi” hanno la giusta solennità e la preghiera successiva: “I candidi veli” l'omogenea espressività del cantare in pianissimo. Ben coordinato lo “stile fugato” nell'allegro agitatissimo della scena sesta del finale primo. Martellante l'aggressivo “ Il maledetto”. Ma riteniamo che, a parte la splendida esecuzione del “Va pensiero”, il meglio sia stato realizzato nel finale d'opera, nel coro a cappella “Immenso Jeohva”. Qui l'inno di gioia poderoso libera tutta l'enfasi di un popolo davvero entusiasta per la ritrovata libertà.
Vitalij Kowaljow è uno Zaccaria dalla voce interessante, non di grande volume e neppure di note gravi risonanti, i suoi Fa sotto il rigo sono proprio piccini piccini. Non è neppure un fulmine nei Fa # acuti, pur tuttavia non delude nella morbidezza d'emissione che disegna un personaggio forse meno mitico, meno guida spirituale e politica di quel che voleva Verdi, ma più sacerdote che conforta ed esorta un popolo rassegnato a non abbandonare la speranza nel Dio di Israele. Del resto è alle prese con un ruolo da far tremare i polsi, con quei ritmi puntati e bruschi ripiegamenti lirici, in cui mezzevoci e pianissimi divengono difficilissimi da realizzare.
L'Ismaele di Aleksandrs Antonenko ha voce sfogata, con un Si bemolle eccessivamente “spinto”, valido nei concertati in cui svetta con opportuno squillo, ma altrove enfatizza la parte come se fosse quella di un tribuno, di un guerriero brutale, e non di un innamorato.
Veronica Simeoni, nella parte di Fenena, si conferma mezzosoprano di grandi potenzialità. Nobilita l'aria “Oh dischiuso è il firmamento” con dolcezza d'emissione e un bel La acuto pieno e timbrato. Contribuisce inoltre con discreto volume alla sontuosità dei concertati.
L'Anna di Tatiana Ryaguzova è gradevole. Non lo sono per niente il Gran Sacerdote di Ernesto Panariello e l'Abdallo di Giuseppe Veneziano.
Alla fine applausi per tutti, ovazioni per la Monastyrska, con qualche dissenso - ma contenuto ed immeritato - per gli artisti della messa in scena.
Ugo Malasoma