Olympia | Federica Guida |
Giulietta | Francesca Di Sauro |
Antonia | Eleonora Buratto |
Stella | Greta Doveri* |
Hoffmann | Vittorio Grigolo |
Lindorf/Coppelius/Dottor Miracle/Dapertutto | Luca Pisaroni |
Niklausse/La Muse | Marina Viotti |
Hermann/Schlemil | Hugo Laporte |
Andrés/Cochenille/Frantz /Pitichinacchio | François Piolino |
Luther/Crespel | Alfonso Antoniozzi |
Spalanzani | Yann Beuron |
Nathanael | Néstor Galván |
Un voix | Alberto Rota |
Direttore | Frédéric Chaslin |
Regia | Davide Livermore |
Scene | Giò Forma |
Ombre | Controluce Teatro d'Ombre |
Costumi | Gianluca Falaschi |
Luci | Antonio Castro |
Video | D-Wok |
Maestro del coro | Alberto Malazzi |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione del Teatro alla Scala | |
*Solista Accademia Teatro alla Scala |
La musicologia ha negli ultimi anni disseppellito una gran mole di materiale e, proprio per les Contes, le edizioni critiche di Kaye e poi di Keck hanno ristabilito una stesura più corretta dell’opera che, però, non è entrata stabilmente nella pratica teatrale. Il problema è presto detto: i costi di allestimento! L’edizione di Choudens è ormai fuori dai diritti, mentre le altre due edizioni, messe in scena, sono decisamente più care. La qual cosa ci intristisce ma l’importante è che una regia moderna affronti la drammaturgia tutta particolare dei Contes costruendo spettacoli che siano pieni di creatività, anche se difficile è tradurre ciò che in effetti rappresentano: è un’opera-comique come nelle intenzioni originarie o un’opera fantastica, come resta scritto nel frontespizio? Le storie raccontate da Hoffmann sono un puzzle di bizzarrie stilistiche, lacerti di visioni, salti temporali, interruzioni continue e “non sono solo la cronaca di una disillusione amorosa ma una summa morale sulla vanità della passione” (Mario Bortolotto). Lo spettacolo di Carsen, ad esempio, visto qui alla Scala nel 2012, era un capolavoro di fantasia e molto colorato quello di Arias, sempre alla Scala nel 1995 e nel 2004.
Lo spettacolo di Davide Livermore messo in scena con i fidi collaboratori: Giò Forma per le scenografie, Antonio Castro per le luci, Gianluca Falaschi per i costumi, l’immancabile apporto di D-Wok per i video e il contributo del Controluce Teatro d’Ombre, non propriamente necessario né suggestivo, tradisce invece le attese e ci lascia parecchio scontenti. Una messa in scena in bianco e nero, smoking bianchi per Hoffmann, Nicklausse e il diavolo, vestiti eleganti in nero per Antonia e per il coro. Una tetraggine scenografica squarciata solo da drappi e fondali rosso fuoco nel Prologo e nel secondo atto.
Per Livermore Les Contes sono illustrati come un musical, che procede grazie ad una miriade di trovate sceniche, che però non convincono per nulla. All’apertura del sipario, al centro del palcoscenico la statua di un angelo (ricorda quello di Castel Sant’Angelo) dentro la quale canta la Musa (?); mimi-spiriti del vino e della birra in calzamaglia nera, ma forse diavoli al servizio del maligno, che volteggiano senza posa per tutta l’opera intorno ai cantanti; tre dame come prefiche a ricordare le tre donne amate dal protagonista; un catafalco con il “doppio” di Hoffmann morto. Andrés- Cochenille-Frantz e Pitichinaccio sono “in travesti”, il diavolo appare con un nano con cappello a cilindro (sicario?) che fuma un sigaro e maneggia una pistola, anche nei giochi d’ombra compare una pistola (?), mentre un tapis roulant fa entrare da sinistra a destra i protagonisti (per tutta l’opera), compreso Hoffmann accasciato su una macchina da scrivere.
Nella taverna di Luther, Lindorf e Hoffmann si azzuffano ma poi mimano abbracciati un valzer. Il coro resta fermo, mentre i mimi svolazzano a più non posso. Primo atto: un tavolino con una macchina da scrivere, cataste di manichini in bianco per il ricco gabinetto di fisica di Spalanzani con quinte nere in continuo movimento, che si restringono e si allargano come un occhio indagatore. Nicklausse canta “Voyez-la sous son éventail” davanti ad un microfono con la proiezione del famoso locale di Parigi l’Olympia sul fondo, mimi in nero con ventaglio bianco e ballerine in camicia bianca e intimo in nero assai sensuali. Hoffmann con occhialini 3D magici gira per il palcoscenico facendo selfie a tutti. Trasformazione “a vista” di Olympia in bambola, animata dai soliti mimi neri. Il coro resta fermo ma agita teste bianche “a tempo”, in una soluzione invero un po’ banale. Dietro un telo le ombre degli spiriti, mentre Olympia impazzita minaccia Spalanzani con l’immancabile pistola. Il fracasso della bambola non si capisce, visto che in scena si sviluppa un terribile tourbillon. Al secondo atto, l’aria di Antonia è a sipario chiuso ma illuminato di rosso. Il soprano ha una candela in mano che poi volteggia per la sala.
Un grammofono e un baldacchino con molte candele a sinistra, un pianoforte al centro con sedie di un teatro accatastate in fondo. I couplets di Frantz sono tradotti in macchietta, mentre i mimi in bianco (?) scorrono sul tapis roulant e video, espressionisti e molto brutti, vengono proiettati sul fondale. Gioco di luci tra il rosso e l’ocra creano finalmente un po’ di contrasto cromatico con il grigiore sparso a piene mani. Una rete nera enorme e malefica esce dal pianoforte ed intrappola la povera Antonia durante la magia di Miracle, che appare e scompare con il fido nano dalle botole. Il duetto Miracle-Antonia si svolge a sipario chiuso con mimi neri, inquietanti, a soffocare ogni gesto della protagonista. La madre è un fantasma che incombe e avvinghia la sempre più angosciata cantante. Al terzo atto, alcune altalene, su una di queste cantano Nicklausse e Giulietta, dondolano a ritmo di Barcarolle, i mimi irrompono in platea con un telo enorme che copre gli spettatori.
Un telo verde in movimento simula il mare, il coro canta da fermo con ombrelli dello stesso colore del telo, al centro una gondola-catafalco con dentro il “doppio” di Hoffmann che accenna una remata, mentre un’orgia vera e propria si celebra tra il sicario del diavolo, Dapertutto e le tante cocotte discinte nel postribolo di lusso. Il “doppio” di Hoffmann amoreggia con Giulietta mentre Grigolo canta a parte, ma poi nel duetto seguente appare uno specchio che riflette, mal disegnata, la sua faccia stralunata. Ballerine e mimi, tutti con pistola, se la puntano addosso come in un film da gangster all’americana. La scena che segue è invero parecchio confusionaria, Hoffmann e Schlémil vengono alle mani e quest’ultimo spara al protagonista ma non sembra vero (?), interviene Dapertutto che spara a Schlémil, che muore veramente e in più, il diavolo, ammazza pure Giulietta. Nell’Epilogo, appaiono di nuovo le tre donne-prefiche, il coro con ombrelli, la statua dell’angelo e la bara. Stella depone un bel mazzo di rose rosse nella bara ma il gesto fa resuscitare il “doppio” di Hoffmann, che poi raccoglie dagli altri protagonisti i fogli dei propri racconti (?) e li consegna a Grigolo, ma torna nuovamente a fare il morto (?) durante l’Apothéose.
Ammettiamo, con una certa vergogna, che lo spettacolo è stato francamente frastornante e non tutti gli snodi ci sono apparsi chiari. Tante e troppe cose, che riempiono l’occhio ma che nulla aggiungono a quello che altri registi avevano saputo scandagliare ed evidenziare meglio, suscitando ammirazione. Quello che invece è certo è che la concertazione di Frédéric Chaslin, che pure ama quest’opera avendola diretta parecchie volte, è talmente esuberante e ricca di contrasti, qua e là effettistici, che non c’è piaciuta per nulla. L’orchestra vibra, anche troppo, survoltata la tensione, che si percepisce senza tanti dubbi, così che i contorni non sono per niente nitidi e manca del tutto quell’ironia ed eleganza salottiera, tutta francese, che dovrebbe intrigare e che invece stasera delude assai.
Da un lato l’ansia drammatica sembra più di facciata, con un incedere del tutto superficiale, mentre latitano dall’altra indugi lirici e malinconici di giusta comunicativa, come nell’entr’acte secondo, dove non emerge il contrasto tra il clima di desolazione e quel breve insinuarsi di un raggio di sole, come un possibile futuro carico di speranza per la sconfortata Antonia. Qualcosina si percepisce invece per la leggerezza e dolcezza dal violino solo che precede la romance di Nicklausse “Vois, sous l’archet frémissant”. Poca cura negli accompagnamenti al canto ma anche ai tanti ritmi di danza: il galop del “Drig, drig, drig, maître Luther”, la polacca pomposa o il can-can vivace in puro stile café-chantant nell’atto di Olympia sono tirati via, le varie gamme dinamiche profuse a piene mani per i valzer mancano di morbido languore e di spumeggiante vaporosa trasparenza, come una coppa di champagne. La barcarolle, dall'opera Die Rheinnixen dello stesso Offenbach, poco voluttuosa e sensuale. Mentre l’incedere del corno, all’inizio dell’Epilogo accenna soltanto una patetica mestizia.
Passa inosservata l’atmosfera magica del terzetto del secondo atto, poca levità degli archi, come folate di vento, e il borbottio del fagotto, poco inquieto e diabolico, e così così il lungo crescendo ostinato in ritmo puntato della seconda sezione. La concertazione ai “couplets bachiques” è priva di brillantezza sostituita da un’esagerata passionalità ed isteria, che dovrebbero descrivere realisticamente qual è la particolare filosofia di vita del disilluso ed alcolizzato Hoffmann.
Quindi, meccanicità per i virtuosismi di Olympia, qualche spruzzata di malinconia per Antonia nell’atto meglio riuscito, carenza di voluttuosità ed impudenza per Giulietta, discreta invece l’affettuosità aristocratica per Nicklausse-Muse.
Per il “diavolo”, nelle sue molteplici rappresentazioni, Chaslin non trova modo di suggerire più charme o sulfurei guizzi infernali al poco fantasioso Pisaroni. In definitiva, ad un’opera che vive della più esaltante teatralità Chaslin dedica una narrazione fin troppo esteriore.
Alberto Malazzi, per fortuna, guida invece con proverbiale perizia il coro, che appare leggero e brioso in controtempo quando rappresenta gli spiriti del vino e della birra ma anche l’entusiastico animé degli studenti, tutto giocato tra piani e mezzevoci. Solenne, non tanto pomposo a sproposito, nella polonaise e vivacissimo nella chiusa del primo atto, in cui si prende in giro sfacciatamente il gabbato Hoffmann. Sprizza gioia nelle alcoliche strofe bacchiche ed è superlativo nel grandioso sestetto che accompagna lo smarrimento di Hoffmann.
La parte di Hoffmann è lunga e terribilmente sfiancante, da tenore lirico spinto. Praticamente onnipresente in scena e con la zona di “passaggio” sempre messa alla frusta. Vittorio Grigolo ha timbro ancora bello ma ha perso un po’ di smalto, con però centri sempre bruniti e volume e fraseggio di qualità. Così non difetta né di passionalità, data la generosità d’emissione, né di tante screziature nevrotiche miste a veemente ebbrezza, come nel duetto con Giulietta, in una progressione drammatica che lo vede un po’ stanco nell’affrontare, con una certa fibrosità, i tanti Si bemolle acuti. La “Chanson de Kleinzach” si sviluppa comunque con saltellante leggerezza ed entusiasmo giovanile, abbonda in tenerezza e languore in “Ah! Sa figure était charmante” per poi impegnarsi in un crescendo di vibrante esaltazione.
Nei couplets “Ah! vivre deux! n’avoir qu’un même espérance” torna ad un lirismo delicato con dovizia di mezzevoci, arricchito da tante belle speranze, che solo un ingenuo idealista può descrivere con tanta partecipazione. Diviene nostalgico ma un po’ rancoroso al ricordo di Stella e delle tre donne, meglio dire, delle tre anime unite nella stessa donna. Appare tormentato nella romanza “Ah! Comprends-tu, dis moi, cette joie éternelle” accompagnata dalla immancabile infatuazione amorosa. Nell’atto di Antonia il canto si fa tenero ed affettuoso, con profusione di chiaroscuri a ritmo di valzer. Alla ripresa della “Chanson de Kleinzach”, invece, tutta la malinconia accumulata per la totale sconfitta esistenziale si riverbera ahimè in un canto parecchio esteriore, un po’ veristicheggiante.
Non bene Luca Pisaroni nei quattro ruoli demoniaci, che risultano molto poco differenziati. Il timbro non è fascinoso e l’emissione non consente, oggi, un fraseggio variegato, che nei ruoli è necessario ben più che la sola esibizione vocale. Ha una certa difficoltà a salire al registro acuto, che si perde, come i gravi, nel lutulento volume orchestrale. Come Lindorf dovrebbe cantare in leggero surplace “Dans les röles d’amoureux” per giunta intinto nel cinismo e nella perfidia; dovrebbe apparire istrionico e sprezzante affabulatore come Coppélius nel terzetto “J’ai des yeux, de vrais yeux”; l’ironia dovrebbe farsi ghigno diabolico e crudele nel ruolo di Miracle, vieppiù protervo e malefico tentatore nel terzetto. In pratica ci sono un po’ troppe zeppe e un po’ troppi “dovrebbe” nella sua interpretazione per convincere appieno. Ad esempio, anche in “Scintille diamant” mancano quelle carezze negli “attacchi”, quella morbidezza nei contorni ed una eleganza incantatrice assolutamente necessari per stregare Giulietta ed attirarla nella trappola escogitata contro il protagonista, e “taglia” il Fa acuto finale.
La "Chanson di Olympia", fa tremare le gambe per le difficoltà di scrittura: coloratura funamboliche con trilli, volatine, note ribattute, picchiettati, glissandi, scale ascendenti e discendenti e proiezioni ai sovracuti. L’emissione deve tecnicamente essere a prova di bomba, con appoggio e controllo del fiato perfetti, timbro cristallino e sin radioso. E anche se il personaggio si identifica con lo straniamento di una bambola un po’ gelida e meccanica la linea di canto resta doverosamente morbida ed elegante. Federica Guida, è volenterosa certo, si muove con disinvoltura, recita bene, ma il canto manca di quella leggerezza e di quella facilità tra i registri imprescindibili. E da ultimo, visto che le colorature, con i trilli, sono qua e là spianati e acuti e sovracuti un po’ tanto “spinti”, ci convincono che il ruolo è, al momento, un po’ troppo “pesante” per il giovane soprano.
Nonostante una annunciata indisposizione l’Antonia di Eleonora Buratto fa una bella figura. Ha per fortuna fantasia nel fraseggio così che alterna una lancinante melanconia, vedi “Elle a fui, la tourterelle”, tutta piani e pianissimi e La acuti luminosi, allo slancio passionale e alla foga giovanile nel duetto con Hoffmann: “Jai le bonheur dans l’âme”. Facile nel sostenere le ampie arcate verso gli acuti che poi si inabissano verso il Re bemolle grave. Combattuta tra l’innocenza della fanciulla ingenua e speranzosa, carica di tenerezza nostalgica in “C’est une chanson d’amour” con un Si acuto finale discreto, e l’allucinazione un po’ morbosa e fin diabolica nel terzetto con Miracle e la madre, in cui con un po’ di titubanza sfoggia vari Si e un Do diesis acuti e un trillo finale lungo lungo.
Giulietta è un personaggio cinico, un po’ soubrette e un po’ cocotte d’alto bordo. Pronta a vendersi pur di tradire qualche amore passeggero. Francesca Di Sauro si impegna, anche se non del tutto a fuoco paiono sensualità e languore nella Barcarolle. Nel duetto con Hoffmann (“Si ta présence m’est ravie”) ne pretende il riflesso con fervore e veemenza e con buona salita agli acuti, così come anche nel sestetto con coro. Come fantasma della madre di Antonia (une voix) ne accompagna il crescendo di passionalità con buona tenuta.
Brava Marina Viotti nel ruolo della Muse e di Nicklausse. Al di là delle caratteristiche vocali: buone le proiezioni agli acuti, anche il Si naturale, e anche la discesa ai gravi fino al La, l'emissione sfumata e delicata, vedi la barcarolle, consente di disegnare i due personaggi con ironia sottile, affettuosità, con un sorriso che sa essere languido ma anche intinto in un evidente scetticismo. Così con un po’ di allegrezza e un velo di pessimismo ritrae la Muse che “lascia i cieli” per ispirare “l’amore di un pazzo” (“Quelle Muse! Une folle qui déserte les cieux”); un disteso lirismo alternato ad un ritmo puntato illustra “Voyez-la sous son éventail”; nel mettere in guardia il suo protetto simula i vocalizzi di Olympia prima di smorzare la malinconia con un dolce “Vois, sous l’archet frémissant” tanto quanto il violino solo che l’accompagna. Nell’epilogo, come Nicklausse subisce la furia di Hoffmann per il solo fatto di aver ironizzato sulle sue conquiste, come Muse, dando attacco all’Apothéose, insuffla serenità e speranza nel nostalgico poeta.
François Piolino purtroppo è come dicevamo una imbarazzante macchietta, non certo perché è in costume da donna, recita per altro stupendamente, sia come venale Andrès che come balbettante Cochenille e come Pitichinaccio, ma nei couplets di Frantz “Jour et nuit je me mets en quattre” dove si elogia come ballerino ma si denigra come cantante, vocifera alla grande e scantona tutti gli acuti. Per sua fortuna suscita applausi, non però i nostri.
Hugo Laporte regala sia a Hermann che a Schlémil una emissione controllata. L’inossidabile Alfonso Antoniozzi, ancora grande artista, è convincente sia come Mastro Luther che come Crespel, il desolato padre di Antonia.
Yann Beuron è Spalanzani, il geniale inventore-papà della bambola ma anche il simpatico truffatore di Coppélius, mentre Nathanaël è Néstor Gálvan che si destreggia con disinvoltura, come Alberto Rota, un voix, e Greta Doveri nel ruolo recitato di Stella.
Spettacolo salutato da applausi convinti, soprattutto per Grigolo, che si è speso tantissimo, e per la Buratto. Buona accoglienza per gli altri cantanti ma con qualche dissenso per Chaslin, Livermore e i collaboratori del regista.
La recensione si riferisce alla prima del 15 marzo 2023.
Ugo Malasoma