Massimiliano | Michele Pertusi |
Carlo | Fabio Sartori |
Francesco | Massimo Cavalletti |
Amalia | Lisette Oropesa |
Moser | Alessandro Spina |
Arminio | Francesco Pittari |
Rolla | Matteo Desole |
Direttore | Michele Mariotti |
Regia | David McVicar |
Scene | Charles Edwards |
Costumi | Brigitte Reifenstuel |
Movimenti coreografici | Jo Meredith |
Luci | Adam Silverman |
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione del Teatro alla Scala |
Nonostante la scelta del soggetto - tratto da una fonte autorevole come Schiller, dramma scritto in gioventù: Die Räuber, tipico prodotto dello Sturm und Drang - e nonostante il ricorso ad un altrettanto autorevole letterato quale Andrea Maffei, che si piccò di scrivere un libretto secondo le consuetudini senza però avere le qualità del librettista (utilizzando un linguaggio “canaille” tutto ribalderie e sprezzature come lo definisce Gianandrea Gavazzeni), l’opera, pur ottenendo un suo franco successo al gala inaugurale londinese (ma realisticamente trattasi più di un successo di stima e cortesia), al quale presenziarono fra i tanti la regina Vittoria, Luigi Napoleone e il duca di Wellington, grazie anche alla disponibilità di voci eccezionali, non è notoriamente tra le composizioni verdiane più riuscite. Tanto da rimanere a tutt’oggi tra le opere meno eseguite dell’Autore.
Il soggetto alimentava sostanzialmente una marcata polemica contro l’ingiustizia dell’ordine costituito e questo non poteva lasciare indifferente Verdi, simpatizzante per il ribelle generoso e romanticamente coraggioso che lotta contro le ipocrisie del mondo, anche se difetta di forza morale e di chiarezza negli obbiettivi da raggiungere. Questi masnadieri vivono alla macchia, si fanno giustizia da soli esacerbati dai torti subiti dalla società aristocratica, borghese e retrograda. Sono diseredati e hanno perso ormai ogni speranza di avere una qual giustizia e comprensione dalle istituzioni civili. Ben più scellerato dei masnadieri capeggiati da Carlo, appare il bieco fratello Francesco che mascherato da false virtù, è in realtà colpevole di avidità di ricchezze e di potere, che vuol perseguire seppellendo il padre Massimiliano in un “buco nero” della torre-prigione, e togliendo di torno il fratello maggiore, reo di esagerati impeti giovanili. Amalia sostituisce con un tenero affetto per lo zio Massimiliano, pur corresponsabile dell’allontanamento di Carlo, l’amore per Carlo stesso. E Verdi cala i due amanti in una realtà che non ha vie d’uscita se non la tragica conclusione, risaputa conseguenza di patti scellerati e senso dell’onore.
La rovente vicenda romantica trova esecutore esemplare in Michele Mariotti, la cui concertazione alterna un elastico pulsare dinamico - di straordinaria e prorompente teatralità (ad esempio il vigore apocalittico del duetto Moser-Francesco) illustrata da una tavolozza cromatica lussureggiante - ad un abbandono lirico con rubato, di estatica e soave pateticità di stampo belliniano. La sua interpretazione è enfatica ma controllando il volume del suono senza rinunciare alle vibrazioni emozionali che, per altro non sconfinano in effettacci, non si carica mai di esagerata retorica. Certo i cori sono quello che sono accompagnati da un martellante ritmo di carica: inverecondo e bacchico misto ad ironia perfida “Godiam, ché fugaci son l’ore del riso”, canagliesco in stile popolare e staccato “I cittadini correano alla festa” ma assai brutale e rozza risulta la conclusione del secondo atto in un prestissimo di veemente vivacità “Su, fratelli, corriamo alla pugna”. Anche “Le rube, gli stupri, gl’incendi, le morti” non scherzano in quanto a ferrigna e tenebrosa asprezza esecutiva, solo un po’ attenuata da quel valzer decisamente sarcastico che accompagna “Gli estremi aneliti” per finire in un improbabile “la, rà…la la rà” che stempera il granguignolesco della musica verdiana. E il coro diretto da Bruno Casoni, grazie ad una bravura da incorniciare, fa splendere a mo’ di gioielli ciò che prezioso non è. Altrove Mariotti piega l’orchestra a morbidezze di rara pastosità, di tinte sfumate, allargando i tempi per accompagnare al meglio un lirismo che è comunque presente nel canto di Amalia e in quello di Carlo. Lui un tenore donizettiano (così dovrebbe sullo spartito), sensibile, malinconico, nostalgico. Lei legata ad una tenerezza eterea e commovente. Insomma, il direttore lega ruvidezza e concitazione drammatica al suono dolce e soffice di indubbia nobiltà (ad esempio l’atmosfera idilliaca, di pace, evocata nel duetto Massimiliano-Carlo). Pensiamo anche a riguardo al preludio in cui, alla iniziale descrizione dell’incalzante violenza insurrezionale dei masnadieri fa seguito l’intervento del violoncello solo (eccellente l’esecutore Massimo Polidori) dall’incedere morbido, vellutato, con un esemplare trillo prolungato, a illustrare la dolcezza angelica di Amalia. Verdi, tuttavia, dispiega la sua genialità e creatività anche negli altri preludi ad inizio atto, illustrando i caratteri dei personaggi, sottolineandone i molti contrasti: vedi sia l’ingresso in scena di Francesco sia il sogno al quarto atto, questa sera tutto vigore e malvagità; il breve preludio al secondo atto, in cui gli archi dolenti descrivono il tristissimo stato d’animo di Amalia in fuga dal banchetto aborrito; l’affannato pulsare di violoncelli e contrabbassi e l’ansimare di violini e viole nell’agitata apertura del terzo atto che poi cangia in un tumultuoso ed entusiastico duetto Amalia-Carlo, quindi in un cantabile ricco di tenerezza amorosa a cui fa seguito, nella stretta, un allegro brillante leggero e gioioso. A nostro giudizio, dicevamo, una concertazione esemplare ma fatta oggetto di qualche incomprensibile buuu alla fine della recita.
Chi ha invece messo tutti d’accordo è stata la prestazione di Lisette Oropesa, una straordinaria Amalia, salutata da scroscianti applausi già alla fine della cabaletta “Carlo vive?...O caro accento” e da un’ovazione finale. Soprano dal timbro delicato, dall’emissione controllata, tutta sul fiato, che le consente di legare i registri con una musicalità rara. Colorature leggere, con picchiettati, scale, volatine e trilli di alta scuola. Ed interprete che mette in luce i lati più nascosti di una fanciulla innamorata e soggetta alla rabbiosa e ottusa mascolinità dei Moor. La cavatina “Lo sguardo avea degli angeli” è intrisa di tenerezza, di rimpianti per la felicità perduta, di estasi soave e rarefatta. L’innocenza trasfusa in un canto trasfigurato e consolatorio la vede protagonista nel duettino e nel quartetto del finale primo. Commovente e patetica, morbida ed espressiva nell’aria “Tu del mio Carlo” ma altrettanto brava nel mostrare entusiasmo e brio nella difficile cabaletta citata sopra, dove un prolungato trillo sul Sol acuto è stato poi suggellato da una scalata al Do di pregnante efficacia. Ma efficace è stata anche in tutti i concertati, in cui è svettata per penetranza e luminosità. Nel duetto con Francesco ha sottolineato la ripugnanza, il disprezzo e il furore verso il demoniaco fratello di Carlo, mentre con l’innamorato si è lasciata andare ad un’entusiastica esplosione di gioia, ma anche ad una delicatissima, brillante e saltellante stretta conclusiva. L’attrice è stata poi in grado di tener testa agli aggressivi masnadieri, nonché stoica nel consegnare la sciabola a Carlo perché l’uccidesse nel grandioso finale d’opera.
Del tenore donizettiano Fabio Sartori non ha proprio nulla. La voce corre, l’emissione è solida, le note ci sono tutte, ma il fraseggio è decisamente superficiale e monocorde. Timbro scuro che si sbianca un po’ nella salita agli acuti (anche il Do acuto, non scritto, alla fine della cabaletta), mezze voci opache come anche il “passaggio” e un singhiozzino sempre presente nei momenti più patetici che gli evita un approfondimento più appropriato al ruolo. L’accento è generico, da minimo sindacale, come il legato, e anche i piani e pianissimi sono centellinati col contagocce. Così risulta decisamente più in palla nella cabaletta “Nell’argilla maledetta”, nel “giuramento” o anche nel concertato finale. Però, l’interprete latita nei cantabili, sia nell’aria iniziale “O mio castel paterno”, sia a maggior ragione nella romanza “Di ladroni attorniato”, in cui il canto morbido, i chiaroscuri di chi ricorda con dolcezza e nostalgia l’amata Amalia, l’amarezza e il rimpianto non hanno la raffinatezza e la sensibilità necessarie. E dulcis in fundo, l’allegro brillante della stretta “Lassù risplendere” lo vede come un elefante in cristalleria.
Altra delusione è il Francesco di Massimo Cavalletti. Tanto per intenderci: non ha il peso specifico da baritono verdiano. Gonfia le gote, per poi ingolare gli acuti che risultano circospetti. Il canto ha una sua nobiltà, cerca di essere “rotondo” nell’emissione ma in quest’opera è al cospetto di un cattivo a tutto tondo e certamente meno sottile e astuto di Jago. Qui non ci possono essere infingimenti e se credibile appare nel cantabile “Io t’amo, Amalia” in cui sfoggia una certa morbidezza, il successivo furore condito dalle minacce di vendetta della stretta “O vil femminetta” dovrebbe avere ben altra incisività, per altro coperta dalla voce della Oropesa. Così non risulta nemmeno protervo e vigoroso nella insita brutalità né nel recitativo che preannuncia l’aria di sortita “La sua lampada vitale” né tanto meno nella cabaletta “Tremate o miseri”. Troppo leggero, senza forza e forse fin troppo nobile, ma a che prò?
Michele Pertusi è un Massimiliano convincente. Si percepisce un certo vibrato largo nell’emissione, pur pastosa, mentre la linea di canto ha una aristocratica nobiltà nelle molte sfumature. L’interprete un po’ cullante nelle patetiche lamentazioni, trova accenti di tenerezza spanti in una atmosfera di pace, sin idilliaca, che illustra il duetto del quarto atto “Come il bacio d’un padre amoroso”.
Alessandro Spina è un corretto pastore Moser. Non del tutto autorevole come giudice spietato e con puntate all’acuto guardinghe.
Francesco Pittari è invece un disinvolto Arminio, dalla voce ben proiettata e dalla dizione scandita.
Matteo Desole fa il suo come Rolla.
Ladislao Mittner scrive nella Storia della letteratura tedesca che “Friedrich Schiller a tredici anni dovette entrare per espressa volontà del duca Karl Eugen nell’Istituto della Solitudine, accademia scientifica con ordinamento militare, in cui il duca faceva educare i giovani promettenti per formarne docili strumenti del suo dominio. Il duca era un tiranno inumano, controllando tutto, erigendo a sistema la denunzia reciproca ed imponeva l’ipocrisia pretendendo poesie gratulatorie per sé e per la favorita…Di conseguenza tra Schiller e gli amici di studio regnava un vero spirito di cospirazione”. Il regista David McVicar, coadiuvato dallo scenografo Charles Edwards, ambienta il dramma proprio nell’Istituto, che appare come scenario unico onnipresente ed incombente. Evidenzia un pessimismo di fondo, un melanconico nichilismo, un disincanto esistenziale che sottolineano il dramma familiare, certamente, ma soprattutto il ritratto dell’uomo guidato non dalla ricerca della felicità ma dalla volontà della sofferenza, dell’inevitabile conflitto tra esseri umani per la conquista del potere. Nessuno ne può uscire vincitore. Antonio Rostagno aggiunge nel programma di sala, “come nel Lear, qui tutti sono sconfitti. L’uomo in quanto tale è il grande sconfitto: è la suprema melanconia del vivere…La vita non è destinata alla felicità, ma alla sofferenza, liberata solo da una morte senza redenzione”. Del resto persino il Maffei definisce i Masnadieri “dramma terribile” e “spaventosa pittura della società”.
McVicar omaggia Schiller mettendolo in scena come un attore onnipresente, mentre scrive il suo dramma, mentre viene frustato da un ufficiale zelante e rigoroso esecutore delle regole ferree del Collegio, mentre esprime il proprio amore incondizionato verso l’eroina Amalia, il cui ritratto fa bella mostra di sé sopra il ballatoio. Ma soprattutto Schiller stesso uccide Francesco non solo metaforicamente con la “penna” ma direttamente con una sciabolata.
Una statua, presumiamo del duca Karl Eugen, troneggia nella sala di detto Istituto, poi anche dormitorio. Istituto che verrà messo a ferro e fuoco con il semi-abbattimento della medesima statua nel finale convulso del secondo atto. Gli impettiti collegiali con divise militari candide, i costumi eleganti di fine Settecento sono opera di Brigitte Reiffenstuel, prima gozzovigliano ubriachi e lubrichi ma sostanzialmente innocui, quindi divengono scellerati delinquenti senza più freni inibitori. E le coreografie di Jo Meredith, un po’ troppo tarantolate, stanno a dimostrare quanto siano diventati refrattari all’ordine costituito, troppo rigido ed opprimente. Prima devastano l’Accademia quindi si dedicano alla doccia, lavando il molto sangue versato, ma qualcuno si slancia in evidenti rapporti omosessuali. Il povero Carlo si aggira tra questi trucidi un po’ spaesato. Francesco è decisamente poco terribile. Massimiliano o sta seduto su una sedia a rotelle (come da iconografia tradizionale tramandataci) o si strascina semi-paralizzato per il palcoscenico o vive recluso in un sotterraneo, antro orribile, custodito da una pesante grata ai piedi della statua. Amalia invece è alquanto vivace, tanto tenera con il patriarca e tanto amabile con il suo Carlo, quanto molto poco arrendevole nei confronti delle avances di Francesco. Che di dramma terribile si tratta ce lo conferma anche il sipario dipinto che rappresenta il volto del “demonio” Francesco, tutto rosso sangue, sdentato e con un naso prominente alla Gerard Depardieu, posto al centro tra i due volti “angelici” di Amalia e Carlo. Le luci, efficaci, sono di Adam Silverman.
Forse non il McVicar al meglio, come in altre bellissime regie ma indubbiamente non meritevole delle esagerate contestazioni finali.
Il sovrintendente Pereira ha opportunamente reso omaggio al regista Franco Zeffirelli, prima dell’inizio dell’opera, ricordandone le 21 produzioni realizzate alla Scala con circa 500 rappresentazioni. Alla fine dello spettacolo spettatori convergenti nel decretare un trionfo per la Oropesa e per il maestro del coro Casoni, tiepidi su Sartori, divisi per Cavalletti ma molte contestazioni sono piovute dal loggione per il direttore Mariotti e dissenso conclamato per i responsabili della messa in scena.
La recensione si riferisce alla prima del 18 giugno 2019.
Ugo Malasoma