Francesca | Maria José Siri |
Samaritana | Alisa Kolosova |
Ostaslo | Costantino Finucci |
Paolo il Bello | Marcelo Puente |
Giovanni lo sciancato | Gabriele Viviani |
Malatestino dall'Occhio | Luciano Ganci |
Biancofiore | Sara Rossini * |
Garsenda | Valentina Boi |
Altichiara | Diana Haller |
Adonella | Alessia Nadin |
Smaragdi (la schiava) | Idunnu Münch |
Ser Toldo | Matteo Desole |
Il Giullare | Elia Fabbian |
Il Balestriere/Un Prigioniero (in interno) | Hun Kim* |
Il Torrigiano | Lasha Sesitashvili* |
Direttore | Fabio Luisi |
Regia | David Pountney |
Scene | Leslie Travers |
Costumi | Marie-Jeanne Lecca |
Lighting Designer | Fabrice Kebour |
Movimenti coreografici | Denni Sayers |
Direttore del Coro | Bruno Casoni |
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione del Teatro alla Scala | |
* Allievo dell'Accademia del Teatro alla Scala |
Il libretto di Tito Ricordi è talmente debitore della tragedia omonima di Gabriele D'Annunzio che l'opera non può che essere annoverata nel grande capitolo del dannunzianesimo. Il canto verista, con il declamato aulico e con la “parola bella”, viene addolcito e quasi smussato ma l'enfasi, la retorica e l'arcaica contorsione rimangono, sostenute da una strumentazione wagneriana lussureggiante. Grandi concessioni al vocalismo melodrammatico di tradizione italica, quindi, con la corsa affannosa verso il duettone d'amore carico di ebbrezze sensuali - cuore e passione del dramma - da “Tristano casalingo” insomma, come afferma non senza convincerci Rubens Tedeschi nel suo “Addio, fiorito asil”. Il linguaggio vorrebbe evocare il Trecento risultando più che altro esotico e decadente, ma si sforza di rappresentare un'epoca, con tante didascalie e elementi decorativi, di tradurre la sua violenza con una drammaturgia finto medioevale, dalla lettura multipla: politica, storica e culturale ma anche tanto ricca di simboli.
Francesca, sul modello di Dante, diviene una figura simbolo dell'amore trascendente.
Le donne inghirlandate sono una classica proiezione medioevale cristiana di purezza e di fede.
Il vino che Francesca offre a Gianciotto e a Paolo rappresenta la comunione di anime, una specie di eucarestia, ma anche la passione e la fatalità.
La rosa che viene donata a Paolo è un fiore con le spine come la corona di Cristo, divenendo metafora del sentimento amoroso ma anche del tragico destino dei due amanti.
Così come le continue allusioni alle storie di Tristano e Isotta o a Lancillotto e Ginevra rinforzano il concetto che il destino muove gli amanti ineluttabilmente verso la morte.
La musica di Zandonai poi si sviluppa in mille direzioni: tra lirismo esacerbato, unisono ridondanti, ardore straussiano, sinuosità sensuali e sofisticate ma anche intrise di delicatezze, cromatismi wagneriani e melismi debussyani, che le meritarono da subito un grande successo di pubblico e di critica.
Nella concertazione di Fabio Luisi troviamo tutto questo sviluppato in bella calligrafia. Densità drammatica - incalzante e sin turbinosa con un tocco di enfasi che non può certo guastare - come nel motivo della battaglia (grave e pesante negli ottoni e nelle percussioni) che principia il secondo atto, nello stesso tellurico finale secondo e pure nell'incandescente duetto tra Francesca e Malatestino e tra questi e il terribile fratello Giovanni, o nella altrettanto tragica conclusione dell'opera. Oasi di lirismo - intriso di una lieve malinconia, presaga della tragedia e proprio per questo ancora più emozionante - che si sviluppa con sensualità e tenerezza amorosa, come nell'introduzione alla parte seconda del quarto atto. Il direttore evidenzia anche le tante ricercatezze strumentali: la viola nel declinare all'inizio il motivo dell'amore, con rallentando e rubato a tempo appropriati, con inquietudine o meglio ancora con quegli indugi del violoncello nel morbido e dolcissimo finale primo, impalpabile come una trina e poi turgido di passione, fino al morendo in pianissimo; nell'interludio che anticipa l'episodio del ferimento di Malatestino, con una espansione lirica solenne ma ingentilita dai contorni delicati prima che esplodano nuovamente i suoni violenti della battaglia. Bello il contrasto che si manifesta nel cambio di atmosfera tra la luminosità dei duetti d'amore tra Francesca e Paolo e la cupa e crudele violenza, supportata da melodie “nere” come la pece, sempre durante la battaglia o nel serratissimo e agitato duetto tra Malatestino e Gianciotto nel quarto atto. Il duettone d'amore del terzo atto è ricco di espressività, che si dipana con attenzione ai chiaroscuri, come minuti fremiti dell'animo, senza per altro dimenticare il “carico” di passione esacerbata dal senso del peccato e della trasgressione. E se turgore orchestrale e lirismo vanno a braccetto in un equilibrio che esalta la indubbia teatralità dell'opera, ci preme anche sottolineare l'attenzione portata negli accompagnamenti al canto, mai eccessivamente prevaricanti, nel rispetto comunque della opulenza dell'orchestrazione.
Il canto pretende interpreti assai dotati:
Francesca deve avere voce estesa, forte temperamento e tecnica sopraffina, che permetta di eseguire con maestria il gioco delle innumerevoli dinamiche: dai piani ai pianissimi, dagli smorzando eterei ai portamenti discendenti, dalle nuances pudiche alle colorature fiorite. Con medium privilegiato e acuti folgoranti. Sotto gli assalti pressanti di Paolo l'accento diviene appassionato e sin veemente, e la salita ai tanti Si acuti imperiosa e sicura. Con Gianciotto il dialogo si fa fintamente amabile e deve emergere la simulazione. Passato il furore delle scene di violenza del secondo atto e della prima parte del quarto (nel confronto con Malatestino) deve saper “recitar cantando”, vedi la lettura della storia di Lancillotto e Ginevra, con alternanza di sottili colorazioni e qualche parossismo anche isterico. Insomma, una bella parete di sesto grado che Maria José Siri supera a pieni voti. Manca ancora di personalità, e in quest’opera ce ne vuole tanta soprattutto nel declamato per immedesimarsi del tutto nel ruolo. Pountney la vuole innocente e tenera ma anche pronta a liberarsi di un giogo ingiusto che crea solo rimpianti ed infelicità. Tuttavia quel che si è sentito nel canto è sufficiente per decretarle una meritata accoglienza.
Paolo è un tenore lirico. Un nobile Signore che si abbandona al melodismo con stile e duttilità, spesso nel punto di congiunzione tra declamato e arioso con prevalenza di note sul “passaggio”. Diviene lirico “di grazia” nel terzo atto, da vero seduttore, tra languore, sensualità e melismi amabili, vedi la mezzavoce necessaria nell'arioso “Inghirlandata di violette”. Ma la linea di canto si fa anche incandescente fino ad inerpicarsi al Si acuto all'unisono con Francesca, senza tuttavia esibire un “machismo” stentoreo. Capirete che la parte è di quelle da far tremare i polsi e purtroppo Marcelo Puente non riesce a convincerci eseguendo solo le note. Con voce arida per nulla sensuale, una emissione di gola e alla lunga monotona, un “passaggio” ingolfato e mezzevoci, quelle poche tentate e in qualche modo riuscite, parecchio opache. Espressività monocorde e acuti che sono fibrosi e decisamente “spinti”.
Giovanni lo sciancato, detto Gianciotto, è un guerriero spietato, terribile nella sua aggressività, persino con i suoi stessi soldati e con Malatestino. Nel duetto col fratello, con belluina ferocia sale fino al Solbemolle e al Sol acuto. Ma non è solo un baritono “villano” o “vociferante”, sa essere assai urbano nei duetti con Francesca, a cui riserva un medium morbido e rassicurante. Gabriele Viviani sa interpretarlo con equilibrio ed espressività encomiabili, ricorrendo al grido disperato solo quando la violenza scenica lo impone. Gli acuti sono tanto fibrosi ma non inficiano la piena realizzazione della sua performance.
Malatestino è un sadico e un perverso, un vero demonio. Tiene a freno a fatica il desiderio per la cognata, alternando timbro chiaro (insinuante) a timbro scuro per meglio instillare il veleno nell'animo del fratello e per evidenziare i neri propositi di perfidia e satanismo. Luciano Ganci affronta il personaggio con slancio, bel timbro luminoso e La acuti squillanti.
Sara Rossini (Biancofiore), Valentina Boi (Garsenda), Diana Haller (Altichiara), Alessia Nadin (Adonella), le donne del seguito di Francesca, prestano voce giovanile e spensierata al cicaleccio, gioiosa nella danza di primavera.
Alisa Kolosova impersona la sorella di Francesca, Samaritana, con delicatezza e l'ansia di chi sta perdendo la figura di riferimento familiare.
Idunnu Münch è la schiava Smaragdi, dalla voce brunita e ben educata.
Costantino Finucci (Ostasio da Polenta, fratello di Francesca) e Matteo Desole (ser Toldo) imbastiscono nel loro duetto del primo atto il “contratto” ingannevole con determinazione e perfidia.
Hun Kim è il lamentoso prigioniero e il balestriere.
Corretti il torrigiano di Lasha Sesiteshvili e il giullare di Elia Fabbian.
Il coro diretto da Bruno Casoni è impressionante, per forza e volume, nella concitata battaglia al secondo atto, ma quello delle donne sa essere delicato e malinconico nel lento canto sul dolore d'amore al primo atto.
La regia di David Pountney è strettamente legata al dramma scritto da D'Annunzio (anche negli eccessi) e al connubio tra le donne e la guerra, i principali interessi nella vita del poeta.
Le scene di Leslie Travers e i costumi di Marie-Jeanne Lecca, che fanno riferimento ai tempi di D'Annunzio con un richiamo velato al Medioevo, riproducono questa dicotomia. Le luci, ora dorate, ora bianco lunare, ora azzurro notte sono di Fabrice Kebour. Nel primo atto il busto di una scultorea figura di donna coglie la bellezza e la sensualità femminile, verrà poi trafitto da lance nel passaggio al bellicoso secondo atto. Nel terzo e nel quarto atto un biplano fracassato, che allude alle spericolate imprese di guerra del vate, fa da cornice ai tentativi delle donne di riappropriarsi dei loro momenti di felicità spensierata. E un librone enorme fungerà da peccaminosa alcova alla fine del duetto d'amore e letto di morte per i due sfortunati amanti. Il secondo e il quarto atto sono invece “soffocati” da un muro di ferraglia, che richiama gli spalti del castello dei Malatesta, tra scale, ringhiere, balaustre, passaggi difficoltosi come dedali inestricabili da cui si affacciano numerosi cannoni, fumanti alla fine della battaglia.
Così, per Pountney, le donne sono creature decorative e arrendevoli che vorrebbero vivere in una dimensione idilliaca, tra fiori, profumi e racconti sensuali, ovviamente di bianco vestite come vorrebbe l'innocenza e la castità. Questo mondo raffinato e decadente è stato raffigurato nel primo Novecento dallo stile pittorico dei Preraffaelliti inglesi e qui si scontra con il brutale mondo degli uomini, sempre in arme e pronti a far scorrere il sangue. Il primo atto rappresenta il mondo incontaminato delle donne, come un atelier in cui modelle, le donne del seguito di Francesca e il giullare-pittore si muovono quasi a ritmo di danza leggera. Irrompe però la brutalità di Ostasio, il fratello di Francesca vestito da federale fascista che, preoccupato che il giullare mandi all'aria l'intrigo con i Malatesta, lo uccide con un colpo di pistola. Il corpo verrà ricoperto da mani pietose con le pezze di “scarlatto” di cui aveva bisogno. Samaritana si presenta con un liocorno di peluche a rinforzare il concetto di innocenza. Francesca, nel mezzo del trambusto per l'arrivo del futuro cognato, ha un incubo terribile: si vede scorrere sotto gli occhi un drappello di terribili scagnozzi di nero vestiti, guidati da Giovanni lo sciancato in divisa da centurione romano. Poi però l'incubo lascia il posto ad una visione celestiale e ridondante: l'apparizione di Paolo, bardato, come il cavallo, di una armatura tutta d'oro e scintillante, che fa tanto cavalieri di re Artù e richiama il film Excalibur. Ma Pountney non contento dell'abbagliamento visivo precedente si premura di scioccarci ancora nel finale primo, dove Gianciotto irrompe violentemente per gettare fuori scena il fratello, che aveva da poco ricevuto delicatamente dalle mani di Francesca la rosa, simbolo inequivocabile del sentimento amoroso. Tutto il secondo atto è impressionante per potenza visiva, amplificata dalla potenza devastante e tellurica del coro dei balestrieri. Le donne, nel terzo e nel quarto atto, sono vestite da soldatesse alla prese con le manovre guerresche sui tavoli di una sala di comando, ma si sbarazzano delle opprimenti divise per tornare innocenti e delicate, di bianco vestite, per la danza di primavera e durante la descritta cavalcata notturna in riva al mare di Gianciotto e Malatestino, con la testa del nemico trucidato. Arrendevoli e complici degli uomini in un clima di guerra perenne, quindi, ma pur sempre femmine che aspirano all'amore e al divertimento, soprattutto quando sono lontane dai brutali e sanguinari maschi senza scrupoli. Il finale drammatico, vede Paolo e Francesca rotolarsi sul libro-lettone lussurioso, dopo l'ennesimo appassionato duetto, e venire infilzati da una spada che cade violentemente dall'alto, come una lama punitiva del destino, mentre Gianciotto li osserva con gelosia irrefrenabile dagli spalti incombenti.
Regia che mostra tanta fantasia, non v’è dubbio, che scarta i binari consueti del pedissequo didascalismo, per altro ricco di ogni sorta di indicazioni di scena, ma che qua e là mostra anche la corda di un eccesso di simbolismi e di richiami truculenti. In una parola: debordante.
Il pubblico ha decretato un vivo successo a tutti i protagonisti, più intenso e prolungato, e meritatissimo, per il maestro Luisi e la Siri.
La recensione si rifierisce alla "prima" del 15 Aprile 2018.
Ugo Malasoma