Filippo II, Re di Spagna | Ferruccio Furlanetto |
Don Carlo, Infante di Spagna | Francesco Meli |
Rodrigo, Marchese di Posa | Simone Piazzola |
Il Grande Inquisitore | Eric Halfvarson |
Un Frate | Martin Summer* |
Elisabetta di Valois | Krassimira Stoyanova |
La Principessa d'Eboli | Ekaterina Semenchuk |
Tebaldo, paggio d'Elisabetta | Theresa Zisser |
Il Conte di Lerma/Un araldo reale | Azer Zada* |
Una voce dal cielo | Céline Mellon* |
Deputati fiamminghi | Gustavo Castillo*, Rocco Cavalluzzi*, Dongho Kim* , Viktor Sporyshev, Chen Lingjie**, Paolo Ingrasciotta* |
Regia | Peter Stein |
Scene | Ferdinand Wögerbauer |
Costumi | Anna Maria Heinreich |
Luci | Joachim Barth |
Direttore | Myung-Whun Chung |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala | |
Produzione Salzburger Festspiele | |
* Solisti dell'Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici del Teatro alla Scala | |
** Allievo del Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano |
Dimenticati i malumori sorti all'epoca in cui Stéphane Lissner era sovrintendente scaligero, Myung-Whun Chung torna, a distanza di pochi mesi dal Simon Boccanegra, sul podio della Scala; lo fa raccogliendo il testimone di Abbado e quindi riproponendo, a distanza di quarant’anni, il Don Carlo nella versione italiana in cinque atti. In quel lontano dicembre 1977 il compianto direttore milanese diresse una delle più travagliate opere verdiane in un allestimento basato sulla regia di Luca Ronconi ed un supercast che presentava nei ruoli principali - nella serata inaugurale - José Carreras, Nicolai Ghiaurov, Mirella Freni, Piero Cappuccilli, Elena Obrastzova e Evghenij Nesterenko.
In questa nuova circostanza l'allestimento utilizzato proviene da una delle quattro produzioni salisburghesi acquistate in “saldo” da Pereira e di cui si parlò molto un paio di anni fa. Uno spettacolo basato su un minimalismo banale ed apparentemente poco curato; sfondi e quinte costituite da teli che, anche quando devono dare l’idea della muratura, si mostrano tesi male e con parecchie ondulazioni e grinze. Nel primo atto la foresta di Fontainebleau è del tutto “invisibile” e solo un paio di cataste di tronchi possono far pensare ad un luogo frequentato da boscaioli. Il secondo atto mostra il chiostro del convento di S. Giusto delimitato da mura con archi stilizzati ed al centro la pietra tombale su cui campeggia la statua dorata di Carlo V. I giardini della regina nel terzo atto ospitano uno sghembo quanto improbabile tendone, molto simile a quello di un piccolo circo. La scena dell'auto-da-fé risulta quasi comica con gli indiani d’America che sfilano, insieme alle altre delegazioni straniere, e prendono posto sulle tribune allestite per l’evento. Non va meglio a Filippo II che si trova costretto a meditare sulle sue difficoltà e successivamente a ricevere il Grande Inquisitore in un ambiente il cui rivestimento azzurrino e piastrellato per circa un metro e quaranta da terra, sembra tanto una cucina. Invece la seconda scena del quarto atto è quella scenicamente meglio riuscita in quanto orienta l’interno della prigione dalla parte del pubblico, portandoci a scrutare oltre le inferriate con la stessa opprimente prospettiva vissuta da Don Carlo. Dal punto di vista prettamente registico passiamo da momenti di assoluta staticità ad altri di assoluta esagerazione ma nulla di veramente interessante da segnalare.
Myung-Whun Chung dirige la complessa partitura con estrema sicurezza esaltando le capacità di un’orchestra in serata di grazia, al netto di alcune sbavature negli attacchi che probabilmente si sistemeranno nelle recite future. Il Maestro coreano tratteggia con animo poetico la tragica partitura, sottolineando al meglio le angosce dei personaggi principali utilizzando un’ampissima tavolozza di colori. I volumi orchestrali, sempre molto controllati, fanno il possibile per non mettere in difficoltà le voci presenti sulla scena. Lo stacco dei tempi è costantemente votato all’ampio respiro e solo in qualche raro momento, avremmo gradito un po’ più di vivacità. Nel complesso una prova maiuscola.
Francesco Meli ha voce sonora squillante e ben proiettata, la zona di passaggio è ben risolta e sufficientemente sicura è la salita all’acuto. Ma dove questo artista eccelle è soprattutto nella capacità di rendere vario e sempre appropriato il fraseggio. Le mezzevoci che evidenzia nei duetti con Elisabetta – oppure nel corso di “Dio, che nell'alma infondere” - sono stupende ed anche quando fa uso del falsetto è sempre curato e di gran classe.
Krassimira Stoyanova tratteggia un’Elisabetta palpitante. A voler essere pignoli la voce non sarebbe adattissima ad una scrittura che gravita parecchio sui centri e nei gravi – un po’ come il ruolo di Amelia nel Ballo in maschera - infatti quando lo spartito la costringe a cantare sulla prima ottava il volume si affievolisce e per non perdersi è costretta a fare abbondante uso delle note di petto. In compenso anche lei, come Meli, è molto espressiva, fa ampio uso di filati e, quando le è consentito, trova sonoro e sicuro sfogo in acuto.
Ferruccio Furlanetto, dopo oltre quarant’anni di carriera è ancora una volta l’autentico mattatore della serata. Nel corso degli anni lo abbiamo visto tante volte interpretare il ruolo di Filippo II e sempre, al suo ingresso, ne siamo rimasti totalmente soggiogati. Il carisma del grande interprete catalizza l’attenzione dello spettatore in virtù di un portamento autenticamente regale: il suo Filippo II è altero, sprezzante ed al contempo sofferente. La voce è timbricamente inalterata nel suo colore scuro un po’ metallico, ed è ancora molto potente. Il celebre “Ella giammai m’amò” è interpretato con tale verità d’intenti da farci dimenticare di essere di fronte ad un artista e non ad un vero monarca.
Simone Piazzola interpreta il ruolo di Rodrigo con grande maturità. Il volume vocale a volte è insufficiente, ciò nonostante non cade mai nell’errore di spingere e canta sempre con grande eleganza e cura nel fraseggio. La grande scena della morte è cesellata con indubbia sensibilità e intelligenza.
Ekaterina Semenchuk nel ruolo di Eboli si destreggia con esiti più che sufficienti. La “canzone del velo” è cantata piuttosto bene nonostante una sbavatura su un picchettato. Anche “O dón fatale” è superato con sufficiente slancio e sicurezza, per questo motivo le contestazioni indirizzatele dal loggione al termine di questa difficile aria ci son parse del tutto fuori luogo.
Eric Halfvarson, chiamato a sostituire Orlin Anastassov, è un basso di solida esperienza e di vocalità scura e particolarmente robusta. Un Grande Inquisitore interpretativamente tanto grezzo quanto credibile ed efficace in grado di reggere il confronto, anche volumetrico, con il potente Filippo II di Furlanetto.
Theresa Zisser ha ben figurato nel ruolo di Tebaldo.
Una menzione particolare per Martin Summer nel non semplice ruolo del Frate.
Bene anche i solisti dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici del Teatro alla Scala impegnati nei ruoli più piccoli: Azer Zada (Conte di Lerma e araldo reale), Céline Mellon (voce dal cielo) e i deputati fiamminghi interpretati da Gustavo Castillo, Rocco Cavalluzzi, Dongho Kim, Viktor Sporyshev, Chen Lingjie (allievo del Conservatorio Verdi di Milano) e Paolo Ingrasciotta.
Positiva come al solito anche la prova del Coro del Teatro alla Scala preparato da Bruno Casoni.
Al termine franco successo di pubblico per tutti i protagonisti con ovazioni per Myung-Whun Chung.
La recensione si riferisce alla recita del 17 gennaio 2017
Danilo Boaretto