Johannes Brahms | Sinfonia n.3 in fa maggiore op. 90 |
Antonin Dvořák | Sinfonia n.7 in re minore op.70 |
Direttore | Lorenzo Viotti |
Orchestra del Teatro alla Scala |
In questo periodo di restrizioni e limitazioni a viaggiare, il Teatro alla Scala ci regala un viaggio metaforico - ma in prima classe sulle nostre comode poltrone di casa - nella vita di Johannes Brahms e Antonin Dvořák.
Il fil rouge che percorre la serata è rappresentato dalle vicende biografiche che collegano queste due composizioni: di fatti, oltre alla profonda stima e amicizia dei due autori, pare che la forte impressione suscitata su Dvořák dall’ascolto della terza sinfonia dell’amico in due occasioni lo abbia portato a voler tentare di realizzare una sinfonia di stampo simile e che Brahms abbia addirittura rivisto alcune pagine della composizione di Dvořák.
Lorenzo Viotti, tornato alla Scala dopo il Roméo et Juliette dell’anno scorso, ha intenzioni molto chiare e decise, come racconta durante l’intervallo: l’idea centrale da cui parte la sua lettura della Sinfonia n.3 in fa maggiore op. 90 è di come la storia personale di Brahms abbia influenzato la scrittura del brano. Così agli occhi di Viotti, il paradosso froh aber frei, felice ma libero, e l’amore impossibile per Clara Schumann (moglie del suo mentore) non solo raccontano un momento della vita del compositore tedesco ma diventano una chiave di lettura della sinfonia, scritta proprio durante quel periodo, addirittura imprescindibile.
In base a questa visione la battaglia fra tonalità maggiore e minore del primo movimento diventano una vera e propria lotta per dominare la propria passione interiore, che il direttore svizzero evidenzia scegliendo un tempo irruento, dinamiche ricche di scatti giovanili e prediligendo sonorità corpose, ma che risultano mancare di quella pulizia di fondo a cui ci ha abituati. Caratteristiche che ritroviamo maggiormente in un Andante di grande lucentezza, metafora di speranza, ma soprattutto pervaso da una “malinconia da Germania del nord” che egli riesce a ricreare nel celebre terzo movimento, quella perla grigia descritta da Clara Schumann, che Viotti rende senza eccessi di sdolcinatezza, con una compostezza nordica che forse ci spiazza perché ci è estranea.
La seconda parte del concerto prevedeva la Sinfonia n.7 in re minore op.70 di Dvořák che come si è accennato è profondamente connessa alla figura di Brahms, una connessione che sfocia addirittura nella citazione del tema del violoncello del secondo concerto per pianoforte e orchestra del compositore di Amburgo. Tuttavia ciò che interessa di più per comprendere la visione analitica (e storica) di Viotti è il bivio davanti al quale si è trovato davanti Dvořák: scrivere una sinfonia che esaltasse il carattere nazionale ceco come aveva fatto fino ad allora con la sua musica ed affrancarsi (anche linguisticamente) oppure perseguire quell’approccio più internazionale, cioè tedesco, che aveva dato così tanto successo a Brahms. È possibile ritrovare questo conflitto nel contrasto fra le atmosfere da incubo e idillio, che il giovane direttore vede come una lotta del musicista per essere se stesso ed essere libero. Viotti qui gioca in particolar modo con la flessuosità dell’agogica, aiutato da un’orchestra più efficace e pronta rispetto al brano precedente, donando inoltre una connotazione diabolica all’elemento folklorico evocato da Dvořák .
Il bis chiude il cerchio di questo viaggio: la Danza ungherese n.1 di Brahms.
La recensione si riferisce allo spettacolo di sabato 9 gennaio 2021
Andrea Bomben