Capellio | Leonardo Cortellazzi |
Giulietta | Leonor Bonilla |
Romeo | Raffaella Lupinacci |
Adele | Paoletta Marrocu |
Tebaldo | Vasa Stajkic |
Frate | Christian Senn |
Direttore | Sesto Quatini |
Regia | Cecilia Ligorio |
Scene | Alessia Colosso |
Costumi | Giuseppe Palella |
Luci | Luciano Novelli |
Maestro del Coro | Corrado Casati |
Orchestra Accademia Teatro alla Scala | |
Coro del Teatro Municipale di Piacenza |
Ovidio la racconta nelle “Metamorfosi” con la vicenda di Piramo e Tisbe, poi toccò a Dante farne cenno (sia pure limitandosi a citare, nel sesto canto del “Purgatorio”, i nomi delle due famiglie in lotta), ed altri lo seguirono nei decenni successivi con una struttura narrativa più articolata, ma è solo con Shakespeare che la tragica vicenda dei due infelici amanti veronesi trovò la sua massima sublimazione letteraria.
Parliamo ovviamente di “Romeo e Giulietta”. Una vicenda capace di passare, secolo dopo secolo, anche attraverso diversi linguaggi artistici che hanno contribuito a rafforzare il carattere ormai mitico dei due personaggi: dai poemi sinfonici alle opere liriche, dalle commedie ai film fino al balletto. Le rielaborazioni multimediali di questa tragica storia d’amore, per usare le parole del critico Silvano Sabbadini, hanno interessato soprattutto l’aspetto musicale. Ad iniziare dall’opera di Nicola Zingarelli “Giulietta e Romeo”, del 1796, il cui libretto, scritto da Giuseppe Maria Foppa, si ispira però al testo di Luigi da Porto.
Tra quelle più famose rientra sicuramente il capolavoro di Bellini “I Capuleti ed i Montecchi”, andato in scena l’11 marzo 1830. Il libretto fu composto da Felice Romani, che rielaborò quello precedente scritto per “Giulietta e Romeo” di Nicola Vaccaj, rappresentata per la prima volta al Teatro alla Canobbiana di Milano il 31 ottobre 1825: opera «che godette nel corso dell’Ottocento - scrive la musicologa Ilaria Narici - di una fortuna propria e di una, diremmo, di riporto, in quanto il grande mezzosoprano Maria Malibran decise di sostituire al finale dei “Capuleti e Montecchi” di Bellini la scena finale di Romeo dell’opera di Vaccaj». Un lavoro che, dopo la felice stagione ottocentesca, è scomparso dalle scene teatrali fino alla ripresa di Jesi di 22 anni fa.
Ma ora la pregevole opera, nell’edizione ricostruita dalla stessa Narici, è stata riproposta con grande successo al Festival della Valle di Itria di Martina Franca per l’inaugurazione della 44ma edizione, la nona con la direzione artistica di Alberto Triola. Meritati e calorosi i lunghi applausi tributati dal numerosissimo pubblico presente a Palazzo Ducale (la replica del 31 luglio sarà trasmessa in diretta su Radio 3 Rai).
Una scelta decisamente felice perché ha permesso di “riscoprire” la figura di un importante musicista, nato due anni prima di Rossini, che ha dato un notevole contributo all’operismo post-rossiniano e pre-verdiano che evidentemente non si esaurisce unicamente nelle figure di Bellini e Donizetti. Tra gli ultimi allievi di Giovanni Paisiello, esordì come operista al Teatro Nuovo di Napoli nel 1815 con “I solitari di Scozia”. Autore di 17 titoli (le cui prime peraltro andarono spesso in scena in teatri prestigiosi, tra cui la Scala e La Fenice), fu anche un apprezzato docente di canto e scrisse un importante Metodo ancora oggi ristampato.
E se “Giulietta e Romeo” non presenta quelle melodie che rimangono immediatamente ed indelebilmente impresse (il critico Alberto Basevi le definiva con felice espressione “la mossa”), nondimeno l’opera contiene pagine bellissime e sovente ispirate, tra le quali ovviamente il finale tanto amato dalla Malibran. In sintesi, come ha efficacemente sottolineato Ilaria Narici, «molto studio, ma non poco talento».
Caratteristiche che sono venute fuori molto bene grazie intanto alla elegante e pulita direzione di Sesto Quatrini, sul podio dell’affidabile Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala. Buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza guidato da Corrado Casati.
Omogeneo e di ottimo livello il cast che ha visto primeggiare il soprano Leonor Bonilla nella parte di Giulietta, resa con grande espressività, notevoli filature e facilità nel registro acuto, rivelando una totale simbiosi con il personaggio anche dal punto di vista della padronanza scenica. Per lei dunque un felice ritorno a Martina Franca dopo la splendida interpretazione di due anni fa nella “Francesca da Rimini” di Saverio Mercadante.
Bravissimo nella parte di Cappelio il tenore Leonardo Cortellazzi, che ricordiamo, tra l’altro, ottimo Fenton nel “Falstaff” andato in scena al Petruzzelli 5 anni fa nell’allestimento firmato da Luca Ronconi. L’artista in questo caso si è imposto grazie alla gradevolezza del timbro ed allo squillo nel settore acuto, oltre che per un fraseggio stilisticamente sempre appropriato alla vocalità belcantista pensata da Vaccaj.
Molto positiva la anche prova di Raffaella Lupinacci, mezzosoprano tra i più apprezzati della nuova generazione. Ad onta di un volume non particolarmente corposo soprattutto nelle note gravi (la parte di Romeo, d’altronde, era stata scritta per contralto “musico”, come ha più volte ricordato Rodolfo Celletti), ma con un bellissimo colore brunito della voce, la Lupinacci ha delineato un Romeo impeccabile, reso con una notevole varietà di sfumature e di colori non solo nelle due arie più famose dell’opera: “Se Romeo t’uccise un figlio” e “Ah! se tu dormi, svegliati”.
Una fuoriclasse come il soprano Paoletta Marrocu non poteva che nobilitare il ruolo di Adele, confermandosi anche sul piano interpretativo padrona della scena con una mimica di grande espressività.
Più che apprezzabili i baritoni Vasa Stajkic e Christian Senn, che hanno dato pieno risalto ai ruoli rispettivamente di Tebaldo e Lorenzo.
Un notevole contributo al successo della serata è stato fornito dal suggestivo allestimento firmato da Cecilia Ligorio, con scene, costumi e luci realizzati rispettivamente da Alessia Colosso, Giuseppe Palella e Luciano Novelli. Una messinscena “tradizionale” che si basava su un lungo muro trasversale dove non mancavano riferimenti ai merli medievali.
Uno spazio al cui interno la regista ha fatto muovere con efficacia i vari personaggi e le masse corali. Alcune scene peraltro (come quella che si richiamava ad un immaginario balcone tramutato in uno spazio intimo di Giulietta e che si apriva all’inizio del muro) erano ispirate ad echi caravaggeschi ed al celeberrimo quadro “Il bacio” di Hayez. Ed il sarcofago su cui giaceva Giulietta apparentemente morta sembrava la celebre tomba scolpita tra il 1405 ed il 1407 da Jacopo della Quercia per Ilaria del Carretto, giovane sposa del signore di Lucca Paolo Guinigi (sarcofago fonte peraltro di una tra le più belle poesie di Salvatore Quasimodo). Suggestioni visive che il gioco di luci e la varietà e bellezza dei costumi (che reiventavano il lato mediterraneo con alcuni riferimenti futuribili in stile “Star Wars”) rendevano ancora più evidenti.
La recensione si riferisce alla serata del 13 luglio 2018.
Eraldo Martucci