Floria Tosca | Francesca Rinaldi |
Mario Cavaradossi | Alberto Jelmoni |
Il Barone Scarpia | Alessandro Paliaga |
Cesare Angelotti | Francesco Palmieri |
Il Sagrestano | Domenico Colaianni |
Spoletta | Francesco Zingariello |
Sciarrone | Ugo Guagliardo |
Un Carceriere | Arturo Cauli |
Un Pastorello | Elisa Scarponi |
Regia | Antonio Latella |
Scene, Costumi | Emanuela Pischedda |
Disegno Luci | Giorgio Cervesi Ripa |
Coreografo | Deda Colonna |
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Coro Lirico Marchigiano |
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'vincenzo Bellini' |
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Maestro del Coro | Matteo Salvemini |
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Voci Bianche Pueri Cantores |
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'd. Zamberletti' |
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Maestro del Coro | Gianluca Paolucci |
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Banda Musicale 'salvadei' |
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Diretta Da Eugenio Gasparrini |
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Orchestra Filarmonica Marchigiana |
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Direttore Carlo Palleschi |
Tosca annega in un bicchiere d’acqua. É quasi impossibile trattenersi dall’esprimere questa facile ironia, servitaci su di un piatto d’argento dall’assurdità dell’allestimento del capolavoro pucciniano andato in scena allo Sferisterio di Macerata come ultimo titolo in cartellone per la stagione 2005. Ne firma la regia Antonio Latella, un nome ormai celebre nel mondo del teatro di prosa, in collaborazione con Emanuela Pischedda, autrice di scene e costumi. Il risultato è pressoché devastante. Chiariamo prima di tutto la nostra posizione riguardo gli stravolgimenti dovuti alle regie moderne: rifuggiamo un aprioristico rifiuto dell’innovazione registica, anzi, sosteniamo che, laddove l’operazione di ammodernamento sia ben ponderata e significativa, possa costituire uno spunto di grande interesse. Tuttavia ci è sembrato piuttosto che in questo caso lo spettacolo si fondasse sul non-senso, nonché su di una certa povertà concettuale, mancando persino di coerenza interna. Questo a partire dall’impianto scenografico, fatto essenzialmente di un tappeto di centinaia di bicchieri di vetro, il cui significato rimane per lo più ignoto a tutti. Queste le parole della scenografa: «un tappeto di vetro su cui camminare, materia forte e fragile come Tosca, materia che può ferire come la vita.» Alla domanda di un nostro collega circa il perché dell’utilizzo dei bicchieri il regista risponde invece: «uteri femminili». La femminilità sembra forse giocare un ruolo fondamentale in questa visione sperimentalista. Una Vergine Maria personificata, spesso impegnata in movimenti convulsi e incomprensibili, accompagna l’intero evolversi della vicenda. Nel terzo atto, durante la canzone del pastore, la figura sacra si denuda integralmente per partorire una schiera di angeli, anch’essi completamente nudi. Le presenze angeliche prendono a vagare per il palcoscenico in posizione fetale a bordo di bacinelle trasparenti, improbabili placente di plexiglass. In realtà fin dall’inizio dell’opera, insieme a una schiera di demoni neri dalle ali di pipistrello che si ammassano intorno alla figura di Scarpia, essi sorvegliano costantemente la scena e interagiscono con i personaggi attraverso una mimica piuttosto infelice. Al momento della morte dell’antagonista prendono a divorarne il corpo come avvoltoi. Alcuni hanno sostenuto si trattasse di un’allegoria dell’eucaristia, visto la presenza dei calici e del cannibalismo. Per noi era semplicemente cattivo gusto. Queste sono solo alcune delle tante prodezze registiche di uno spettacolo decisamente improponibile, che forse mirava ad avere il suo punto di forza nella provocazione del pubblico attraverso l’esplicita esposizione di nudi integrali… Ma se così fosse anche in questo caso gli intenti si sono rivelati fallimentari: il nudo ci è sembrato sinceramente l’aspetto di minor rilievo in tanto massacro registico.
In tutto questo nulla rimane di Tosca, immenso capolavoro della musica italiana, imprigionato nella rete di una soffocante macchina registica che non consente all’opera di decollare. Anche quel poco di buono che vi si sarebbe potuto trovare dal punto di vista musicale è stato fortemente condizionato dall’impostazione generale. Così l’unico spunto interessante della serata, costituito dalla voce di Francesca Rinaldi nel ruolo della protagonista, è stato enormemente penalizzato da scelte interpretative assurde, che la vedevano compiere movimenti senza senso, nella più totale assenza di passionalità e sentimento. Si tratta di una voce che necessita di un ulteriore sviluppo, non molto gradevole nel registro acuto a causa di un forte vibrato, ma comunque dotata di potenzialità non ancora pienamente espresse e promettenti. Con questa unica eccezione l’intero cast si è rivelato invece piuttosto scadente e solo in parte all’altezza del ruolo. In grave difficoltà il tenore Alberto Jelmoni, forse con la scusante di una momentanea indisposizione che veniva annunciata in apertura di serata. Il protagonista ha evidenziato carenze nell’omogeneità dei registri, completamente «scoperti» quello centrale e quello grave, più corposo quello acuto, nell’interpretazione e nell’intonazione stessa, affidandosi troppo spesso a portamenti esagerati e ad altri effetti di discutibile gusto. Notizie solo lievemente più confortanti vengono dal baritono Alessandro Paliaga nel ruolo di Scarpia. Anche in questo caso ci siamo trovati di fronte ad un’interpretazione del tutto impersonale, aggravata da qualche difficoltà di emissione, da un certo affaticamento in acuto e da una voce sinceramente troppo vibrante per un timbro baritonale. Discreto il livello dei comprimari, tra cui il poco convincente Angelotti di Francesco Palmieri, e il simpatico e brillante sagrestano di Domenico Colaianni, l’unico uscito indenne dal massacro. La concertazione di Carlo Palleschi, a capo dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana, ci è parsa complessivamente valida, ma troppo spesso impegnata a ricucire i vuoti interpretativi dei protagonisti. In più di un’occasione l’orchestra dilatava i tempi per consentire ai cantanti di reinserirsi nel discorso musicale complessivo, che a tratti sembrava perduto. Ne ha risentito l’unitarietà dello spartito, nonché la creazione di quel clima di tensione emotiva, tipico di questa partitura, che mai è riuscito ad affermarsi con forza lungo tutto il corso della rappresentazione.
Una caduta di stile che MacarataOpera 2005 non doveva permettersi. Un inciampo poco gradevole per la direzione artistica e per lo stesso pubblico. Una consistente presenza di aperti dissensi alla fine dello spettacolo ha testimoniato come gli spettatori non abbiano affatto apprezzato questa tipo di incomprensibile dissacrazione artistica. D’altra parte le voci riguardanti una vera e propria fuga all’ultimo momento di quello che doveva essere il primo cast di questa Tosca maceratese, con la presenza tra gli altri di Alberto Mastromarino, ci fanno riflettere.
Filippo Tadolini