Megacle | Sofia Soloviy |
Licida | Jennifer Rivera |
Argene | Yetzabel Arias Fernandez |
Aristea | Lyubov Petrova |
Alcandro | Milena Storti |
Clistene | Raul Gimenez |
Aminta | Antonio Lozano |
ACADEMIA MONTIS REGALIS | |
Direttore: Alessandro De Marchi | |
Regia | Italo Nunziata |
Scene | Luigi Scoglio |
Costumi | Ruggero Vitrani |
Disegni luci | Patrick Latronica |
La composizione dell’ultima opera della breve vita di Pergolesi ebbe uno svolgimento quanto meno travagliato, sia per ragioni temporali che economiche. Quando arrivò la commissione dal teatro romano di Tordinona nel 1734, il compositore si stava ancora occupando della stesura dell’”Adriano in Siria” e contemporaneamente di una ripresa de “Lo Frate ‘Nnamorato” con alcune modifiche; l’impresario del Tordinona, inoltre, si trovava in difficoltà economiche, cosa che portò al non utilizzo del coro e alla scrittura di cantanti ritenuti non di primo piano (e tutti uomini, a causa della proibizione alle donne di esibirsi in teatri dello stato pontificio). Tuttavia Pergolesi volle a tutti i costi accollarsi l’impegno di mettere in musica il già celebre libretto di Pietro Metastasio, autore che sentiva particolarmente congeniale alla sua sensibilità compositiva, e per rispettare i tempi previsti decise per l’autoimprestito dal coevo “Adriano in Siria”, anch’esso su libretto di Metastasio, dal quale sono mutuate una parte della Sinfonia, la musica di quattro arie e musica e testo di “Torbido in volto e nero”, grande aria virtuosistica scritta per il celebre Caffarelli e trasportata nel terzo atto al posto della prevista “Lo seguitai felice”. Fretta e scarsità di risorse non impedirono però la creazione di un’opera di altissimo livello, perennemente sospesa tra patetismo amoroso e baldanza giovanile, tradotte in musica dalla levigatezza di melodie distese contrappuntate da tiorbe e arpa, e dallo scoppio virtuosistico di agilità e picchettati contrappuntati da trombe e corni. E basterebbe la sola aria di Licida del primo atto “Mentre dormi, Amor fomenti” a giustificare l’intero ascolto dell’opera: un assoluto capolavoro di pittura sonora durante il quale il tempo e lo spazio sembrano davvero sospesi, a rendere in modo mirabile il sonno dell’amico Megacle. L’allestimento di Italo Nunziata, ripresa di quello del festival 2002, ha l’unico demerito di essere difficilmente trasportabile in altro teatro, essendo stato appositamente pensato per valorizzare al massimo l’architettura barocca del Teatro Moriconi, grazie anche allo splendio disegno luci di Patrick Latronica. Una grande pedana ellittica è posta al centro del teatro, e in essa vi agiscono i personaggi entrando da passerelle poste in corrispondenza delle uscite, vestiti con costumi che richiamano a un Settecento visivo appena accennato, direi quasi depurato della parte “fiammeggiante” e ricondotto alle apollinee atmosfere metastasiane del libretto. Figuranti in maschera costruiscono i vari ambienti portando arredi di scena, sia ambienti fisici previsti dal libretto, come la prigione dove è rinchiuso il principe Licida nell’ultimo atto, ma soprattutto gli ambienti dell’anima, nel diventare una sorta di espressione viva dei sentimenti provati dal personaggio che sta cantando. Bellissima, per fare un esempio, la scena del secondo atto nella quale il fedele Aminta narra a Licida del supposto suicidio dell’amico Megacle: mentre Aminta narra di come Megacle si sia tuffato nei gorghi del fiume Alfeo, i figuranti lo avvolgono con telo azzurro mosso con estrema perizia a simulare un uomo che viene inghiottito da un vortice. A capo dell’eccellente “Academia Montis Regalis” Alessandro De Marchi ha offerto una lettura limpida e teatralissima, nel riuscire a infondere in ognuna delle numerosissime arie un elemento che la distinguesse dalle altre, dall’agogica forte-piano degli archi, allo squillo degli ottoni, ai tempi rapinosi ma sempre nel perfetto equilibrio delle varie sezioni. De Marchi ha anche approntato i tagli, che hanno interessato sei arie e un certo numero di recitativi, in modo da ridurre la durata complessiva dell'opera a poco più di tre ore. Soddisfacente la compagnia di canto, fra l’altro perfettamente in grado di tradurre in gesti ed espressioni le idee registiche. Jennifer Rivera ha cantato con molto trasporto e partecipazione “Mentre dormi”, e in generale si è disimpegnata bene nella coloratura e nell’articolazione drammatica dei lunghi recitativi. Bravissima anche Lyubov Petrova come Aristea, voce estesa e di timbro cristallino, la quale sfoggia un legato di alta scuola nell’aria patetica del primo atto “Tu di saper procura”, impreziosita anche da filati e mezzevoci in zona acutissima davvero pregevoli. Impegnata nella succitata “Torbido in volto e nero”, Sofia Soloviy ne esce con molto decoro, anche se la voce risente di un certo intubamento nel registro centrale e la tecnica di coloratura a volte ha una certa tendenza all’aspirato. Il timbro però è molto luminoso, e si è sposato a meraviglia con quello della Petrova nel duetto che ha chiuso il primo atto. Bravi anche Yetzabel Arias Fernandez come Argene e Antonio Lozano come Aminta, voci molto sicure tecnicamente e di buon volume. A fronte di un timbro di bel colore brunito non ha invece convinto stilisticamente la prestazione di Milena Storti, dalla dizione troppo artefatta e spesso preoccupata dell’inutile ricerca di assenza di vibrato nelle note tenute. C’era infine molta curiosità per il ritorno a Pergolesi, dopo un lontano Flaminio napoletano di quasi vent’anni fa, del veterano Raul Gimenez. Bisogna ammettere che il timbro risente ora di eccessive nasalità, anche se il volume della voce è sempre imponente, e che si è avvertita una certa difficoltà rispetto ai colleghi nella scansione di alcuni recitativi: tuttavia il carisma dell’artista si è fatto ben valere nell’interpretare con molta convinzione i tormenti del re e padre Clistene all’ultimo atto, quando manifesta un misterioso affetto paterno per Licida, senza sapere che è il supposto perduto figlio Filinto. Alla fine successo pieno per tutta la compagnia e per il regista
Domenico Ciccone