Dori (Alì) | Francesca Ascioti |
Oronte | Rupert Enticknap |
Artaxerse | Federico Sacchi |
Arsìnoe | Francesca Lombardi Mazzulli |
Tolomeo (Celinda) | Emőke Baráth |
Arsete | Bradley Smith |
Erasto | Pietro Di Bianco |
Dirce | Alberto Allegrezza |
Golo | Rocco Cavalluzzi |
Bagoa | Konstantin Derri |
Direttore al cembalo | Ottavio Dantone |
Regia | Stefano Vizioli |
Scene | Emanuele Sinisi |
Costumi | Anna Maria Heinreich |
Luci | Ralph Kopp |
Accademia Bizantina |
Una trentina di diversi allestimenti tra le prime rappresentazioni alla corte di Innsbruck nel carnevale 1657 e la fine del secolo, prevalentemente in Italia ma anche in Austria e Germania, fecero della Dori di Pietro Cesti (Antonio da quando prese i voti francescani, divenuti poi incompatibili con le sue attività musicali di cantante teatrale, compositore e impresario) una delle opere più rappresentate del periodo. Si retrodata oggi al 1649 e a Firenze la sua prima composizione per il teatro, quell’Orontea che, rielaborata, raggiungerà le scene a Innsbruck solo sette anni dopo; ma l’impulso decisivo che tramutò il cantore e organista di chiesa in uno dei tre più celebri operisti del suo secolo fu di certo la conoscenza, nel 1650, di Francesco Caletti, detto “il Cavalli”. Essa ebbe luogo in occasione della messinscena fiorentina del Giasone, presentato l’anno prima a Venezia con un successo senza precedenti. Cesti, allora ventisettenne, ne fu spronato e profondamente influenzato nello stile, se possiamo basarci sulle diverse impressioni lasciateci, in questi anni, dagli ascolti dal vivo di sue opere alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik.
Molto più forte che nell’Orontea ci è apparsa, infatti, la vicinanza di numerosi passi della Dori a certe parti dell’Incoronazione di Poppea (chiunque le abbia composte, Cavalli ne fu il principale divulgatore). La Dori richiama sùbito l’ascoltatore all’opera emblematicamente di passaggio dal “nuovo” madrigalismo del Settimo e dell’Ottavo libro monteverdiani al teatro musicale successivo, sia per la presenza di frasi e cadenze tipiche, sia per la definizione drammatica dei caratteri nel declamato arioso, sia ancora per la sottolineatura di frasi e affetti del libretto per mezzo delle arie, spesso brevi, e cantate quasi sempre all’inizio o nel mezzo d’una scena, come era avvenuto, appunto, nella Poppea. D’altra parte, il melodismo traboccante della Dori, già nella sua prima versione, la distingue per i mezzi musicali inediti, che ne creano autonomamente la drammaturgia partendo dai versi molto belli e trasparenti, quasi del tutto liberi dai “concettini barocchi”, di Giovanni Filippo Apolloni — nel 1653 il giovanissimo librettista, anch’egli nativo di Arezzo, aveva raggiunto alla corte di Innsbruck il compositore, che vi si era trasferito non molto prima grazie a un esonero quinquennale dall’osservanza dei voti. Una marcata differenza dal modo veneziano, molto attento ai costi, segna anche la ricca (e dettagliata) orchestrazione delle opere tirolesi e austriache di Cesti, che nelle Hofkapellen principesche disponeva, oltre agli archi e alle corde del continuo, di quasi tutti gli strumenti a fiato allora in uso.
In questi giorni, la Dori è tornata sulla scena per la quarta volta “in tempi moderni”, ma per la prima a Innsbruck, nel Tiroler Landestheater che sorge nel luogo della sala secentesca “alla veneziana” che la vide nascere trecentosessantadue anni fa. E per la prima volta l’opera ricompare nella versione originaria stabilita da Bernardo Ticci e pubblicata nel 2018 collazionando i materiali quasi identici della créatione della ripresa fiorentina del 1661. Fu quest’ultima, diremmo oggi, un vero e proprio “spettacolo ospite”, con orchestra e cantori giunti da Oltralpe (crediamo per la prima volta nella storia) al seguito del conte del Tirolo Ferdinand Karl per le nozze dell’ultimo Cosimo de’ Medici, nipote di sua moglie. L’autore vi arrivò invece da Roma, dove era dovuto rientrare obtorto collo due anni prima. La nuova licenza papale era di durata molto circoscritta, ma finiti i festeggiamenti Cesti preferì prendere di nuovo la via del Nord, confidando nella protezione degli Asburgo (che non gli mancherà neppure quando, estintasi poco dopo la “linea tirolese” della famiglia e tramontando l’autonomia locale, Hofkapelle e biblioteca di Innsbruck passarono in blocco a Vienna).
Non tenteremo d’esporre la trama della Dori, i cui intrighi paralleli occupano tre pagine complete del programma di sala; diremo solo che essa appare come un prototipo di tanti libretti a travestimenti multipli: Le coppie si rifiutano, si mettono alla prova e s’inseguono, ritrovandosi solo quando, alla fine, si riconoscono o s’accettano. Sembra, anche se non è certo, che il cast del 1657 comprendesse solo maschi, ma l‘attuale indisponibilità dei castrati, spingendo ad affidare almeno in parte a donne i loro ruoli, finisce per aggiungere alla vicenda nuove ambiguità sessuali, pre-mozartiane e pre-hofmannsthaliane. In questo caso abbiamo un personaggio maschile cantato da una donna (Tolomeo, erede nientemeno che del trono d’Egitto) che si finge la dama Celinda, con tutte le prevedibili conseguenze del caso; e uno femminile (la protagonista) cantato anch’esso da una donna, ma travestita da uomo (lo schiavo Alì). Si sfiora la tragedia quando l’unica donna sempre tale della vicenda è liberamente soccorsa dalla donna travestita, incappando nell’accusa, invero strumentale, di cortigianeria. S’aggiungono un eunuco (ora controtenore) e il “matto” che si prende e lascia con una vecchia nutrice vogliosa, cantata invece anche in origine da una voce pienamente maschile, secondo la tradizione veneziana che arriverà a Donizetti e Prokof’ev.
Riuscire a rendere l’ironia e la realtà di tutto questo senza cadere nel greve o nel ridicolo, e neppure nel didascalico, è stato l’autentico prodigio realizzato, grazie a un gusto perfetto e a una fresca inventiva d’immagini, dal regista Stefano Vizioli, che sa muovere i cantanti-attori con una veloce disinvoltura oggi molto rara. Non si cade, in altre parole, nella trappola delle gags, che scatterebbe ove s’appesantissero situazioni e allusioni; ambiguità e apparenze si visualizzano in punta di pennello, ma con tagliente sicurezza di tratto; un sottile velo di malinconia contribuisce a stimolare l’attenzione e il piacere dello spettatore. Inoltre, nei circa centosettanta minuti netti di rappresentazione (divisi in due parti di durata quasi uguale) la Personenregie non trascura mai le esigenze dell’emissione e della percepibilità vocale. Tra le difficoltà del libretto ricordiamo in particolare che alcuni dei personaggi minori sono, diversamente dai protagonisti, consapevoli della situazione e la comunicano ben presto al pubblico: riuscire a non annoiare con ripetizioni e improbabili contraddizioni è stata un’altra sfida ben risolta dalla regia.
Il lavoro di Vizioli è coadiuvato come meglio non si potrebbe dalle scene di Emanuele Sinisi, disegnate con felice e variabile asimmetria (pannelli mobili a tutt’altezza da un lato, decorati con onde marine rese cangianti dalle luci; un rialzo praticabile dall’altro; una collina “dipinta” come sfondo); le ha realizzate la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi. Splendidi sono i costumi di Anna Maria Heinreich, che ricreano un Oriente – l’opera è ambientata a Babilonia – come potevano immaginarselo Austriaci e Veneziani del secolo decimosettimo, alle continue prese con i Turchi; la realizzazione è stata della Sartoria teatrale Farani e della casa Calzature Pompei Formello, entrambe di Roma. Tutto è fuso dalle luci sensibili e tecnicamente impeccabili di Ralph Kopp, una costante sicurezza per i frequentatori del Tiroler Landestheater: impossibile descrivere la suggestione e l’abilità con la quale esse sfumano il disegno netto del Veronese nell’estenuato cromatismo di Salvator Rosa (buon conoscente di Cesti nei suoi anni fiorentini), o conferiscono vigore caravaggesco alla grande scena del vecchio Artaxerse che apre il terz’atto (impossibile non pensare da un lato al Seneca monteverdiano, dall’altro a Filippo II).
Ugualmente felice il versante musicale. Abbiamo accennato sopra alla scelta, ovvia già per il luogo dello spettacolo, della versione originale, più compatta e meno condizionata da successive esigenze di gusto e “mercato” (i recitativi, vari e vivaci anche se non mai centro del dramma, lasceranno via via spazio alla moda delle arie, spostate a chiusura strappapplausi delle scene). L’attenta e al tempo stesso vigorosa direzione musicale di Ottavio Dantone ha reso pieno merito sia al fasto strumentale legato alla destinazione di corte del testo, sia alla mobile alternanza di forme, con una cura straordinaria dell’espressione vocale che denota un’intesa completa con i singoli interpreti e il regista. Ne hanno realizzato le intenzioni con precisa flessibilità sedici strumentisti dell’Accademia Bizantina (violino di spalla Alessandro Tampieri), il complesso fondato nel 1983 e di cui Dantone è direttore musicale e artistico dal 1999.
Last but not least, il palcoscenico è stato quale raramente accade d’ascoltare: non si sarebbe di certo potuto sperare né, a sipario richiuso, desiderare di meglio. Questo risultato è reso più notevole dalle elevate esigenze, sia tecniche sia interpretative, che Cesti pone a tutti i dieci cantanti necessari. Se ovviamente esistono ruoli principali, non potremmo dire però che ne esistano, in quest’opera, di veramente secondari, poiché la riuscita dell’insieme non ammetterebbe inadeguatezze o insicurezze neppure in chi ha meno da cantare. Ammirevole ci è parso anche il variato equilibrio timbrico delle voci, esito assolutamente non scontato quando si devono ricreare le parti dei castrati.
Il ruolo contraltile del titolo, per quasi tutta l’opera nel travestimento maschile dello schiavo Alì, è stato interpretato con bel timbro, vivace gioco scenico e sottigliezza espressiva da Francesca Ascioti, già allieva della Manca di Nissa e della Berganza e capace di rendere con tutte le sfumature richieste l’umbratile natura del personaggio, confermate nel breve ma decisivo intervento come ombra della madre del suo promesso sposo Oronte. Questi ha avuto la sontuosa voce di Rupert Enticknap, tra i premiati, nel 2011 a Innsbruck, del secondo Concorso Cesti e , l’anno seguente interprete ideale d’Ottone nella Poppea di “Barock:Jung”. Il controtenore inglese ha creato un personaggio determinato ma fragile, culminante in una delle scene più suggestive dell’opera, quella che lo confronta in un delicato “contrasto” con la Dori dormiente sotto le mentite spoglie: affascinante l’abbinamento di colore delle due voci.
La seconda coppia “seria”, è costituita da Arsìnoe, destinata per politica matrimoniale a Oronte ma da lui ostinatamente respinta, e da Tolomeo che ne è invaghitissimo ma per due atti interi deve nascondere il suo amore nelle vesti femminili di Celinda. Arsìnoe ha avuto la calda voce sopranile, accattivante nella sua imbronciata ingenuità, di Francesca Lombardi Mazzulli, Giunone nell’indimenticabile Calistocavalliana di Barock:Jung 2011 e ora unico personaggio dello spettacolo “incorreggibilmente” donna dall’inizio alla fine. Nel ruolo di Tolomeo è rifulsa l’ungherese Emőke Baráth, nel 2011 primo premio e premio del pubblico al Concorso Cesti e poi splendida protagonista nella Poppea che abbiamo già ricordato. Difficile rendere a parole il fascino delle scene amorose che le coinvolgono, ideato da Cesti e Apolloni per due castrati e ora ricreato da queste due cantanti donne, d’uguale registro ma di timbro ben distinto: l’una è consapevole e l’altra no, ma appare un tantino turbata.
Tre voci maschili gravi, due tenori e un secondo controtenore (probabilmente il quinto castrato della compagnia originaria) hanno completano la distribuzione. Artaxerse, zio di Oronte, sovrano reggente d’una Persia con capitale Babilonia e imperturbabile nel suo non capire nulla di quel che succede, è stato il basso Federico Sacchi, di nobile fraseggio e adeguata presenza scenica. Cesti affida ad Artaxerse, come già ricordato, una grande scena solistica di meditazione in cui s’è potuta anche apprezzare la familiarità di Sacchi con il repertorio liederistico. Arsete, antico precettore di Dori, è anch’esso personaggio serio; la tessitura è prevalentemente centrale e richiede una bella pienezza. Nel 1657 fu probabilmente cantato dall’autore, ora ha avuto la voce di Bradley Smith: il tenore inglese ha confermato sia la qualità timbrica e tecnica della voce, sia le doti d’eleganza che ricordavamo dalla finale del Concorso Cesti del 2015 e dalla sua partecipazione come Lelio alle Nozze in sogno di Barock:Jung l’anno seguente.
Il personaggio semiserio di Erasto, braccio militare d’Oronte innamorato invano di Celinda (ossia di Tolomeo) fa da ponte tra i due versanti del libretto e dello spettacolo tipici dell’opera veneziana; il basso-baritono Pietro Di Bianco lo ha cantato con bella presenza, colore gradevole e senza lasciasi mai tentare da eccessi caricaturali. Capofila dei “buffi” è stato il tenore marchigiano Alberto Allegrezza, poliedrica personalità d’artista. Il personaggio di Dirce è quello della vecchia nutrice vogliosa, ma non stordita e alla fine bienfaisante (scambiando con un innocuo sonnifero il veleno che vuol prendere la disperata Dori porta la vicenda al lieto fine). Allegrezza, perfettamente padrone della parte dal punto di vista vocale, ha anche recitato da grande attore, divertendo senza cadere mai nell’ovvio: una lezione di misura sia musicale sia scenica. Golo, il servo “matto” di Oronte, che, pur rigettandola a parole, cede spesso e volentieri alle lusinghe di Dirce, ha avuto la voce educata, precisa e gradevole del basso molisano Rocco Cavalluzzi. L’eunuco Bagoa, custode del serraglio di Babilonia, è stato cantato con presenza e correttezza dall’altro controtenore, l’ucraino Konstantin Derri.
Una “riuscita totale”, insomma; e dispiace solo che dopo le due recite di Innsbruck non ne siano previste altre di questo spettacolo — non ci nascondiamo, d’altra parte, la difficoltà di raccogliere nuovamente un cast di così omogeneo ed elevato livello. Ben venga, quindi, il DVD che potrà farne immaginare l’eccellenza musicale e scenica. Alla fine della replica di lunedì 26 agosto, la penultima delle Innsbrucken Festwochen der Alten Musik 2019, il successo è stato incondizionato ed entusiastico, infiammato dalla comparsa al proscenio di Antonio Allegrezza e rimasto al calor bianco per tutti gl’interpreti principali e il direttore Dantone, che ha ripetutamente associato la sua orchestra al plauso generale.
La recensione si riferisce alla replica del 26 agosto 2019.
Vittorio Mascherpa