Falstaff |
Giorgio Surian |
Alice Ford |
Anamarija Knego |
Nannetta |
Vanja Zelčič |
Quickly |
Biljana Kovač |
Meg |
Ivana Srbljan |
Ford |
Robert Kolar |
Fenton |
Aljaž Farasin |
Dr.Cajus |
Sergej Kiselev |
Bardolfo |
Marko Fortunato |
Pistola |
Dario Bercich |
Direttore |
Ville Matvejeff |
Regia |
Marin Blažević |
Coreografie e movimenti scenici |
Selma Banich |
Scene |
Marin Blažević, Dalibor Laginja |
Costumi |
Sandra Dekanić |
Luci |
Dalibor Fugošić |
Maestro del coro |
Nicoletta Olivieri |
Orchestra e Coro dell’Opera Nazionale Croata di Fiume |
Un’ardua impresa artistica, un grande omaggio alla carriera e all’arte del baritono Giorgio Surian, una significativa dimostrazione di rispetto e considerazione ha dato ancora una volta al Teatro nazionale croato di Fiume Ivan de Zajc la possibilità di dimostrare il valore dei rapporti umani e conseguentemente artistici nella realizzazione di spettacoli di qualità.
Il regista Marin Blaževič, che è anche sovrintendente del teatro stesso, ha firmato le tre produzioni della trilogia verdiana su testi shakespeariani (Otello, Macbeth, Falstaff), Surian ha invece messo la propria voce a sigillo di una trilogia di ruoli monumentali alla quale il teatro ha voluto dare il suo nome (è stata promossa infatti come Trilogia Verdi-Shakespeare-Surian). A sottolineare il fatto che qui il lavoro di ciascuno è tenuto in gran conto, anche l’intera orchestra del teatro è salita sul palco a ricevere il lungo applauso del debutto, insieme ai solisti, al coro e all’intero, vivace staff che ha lavorato alla produzione del “gran finale” della trilogia, il Falstaff.
E le persone, i cantanti, sono stati protagonisti assoluti di uno spettacolo che alle scene ha fondamentalmente sostituito l’attrezzeria e che, secondo la sigla registica di Blažević, ha invaso la platea rendendo il pubblico partecipe della gustosa burla e in qualche modo motivando l’assenza di una vera e propria scenografia con la messinscena di una prova, dove lo stesso regista partecipa allo svolgimento con un ruolo da servo di scena. La necessità fatta virtù non delude nessuno: il sipario tagliafuoco abbassato limita lo spazio scenico tra proscenio, orchestra e platea, ma all’immaginazione non manca nulla e le passerelle diventano di volta in volta e senza ombra di dubbio porto, balcone, strada, casa, mentre l’autoironia della situazione si esplicita con Bardolfo e Pistola che, noncuranti dello svolgimento in scena, tentano di forzare l’apertura del sipario o di arrampicarsi sul boccascena per trovare l’ingresso al palcoscenico.
E’ un Falstaff che sorprende, diverte, esalta la vivacità della partitura e del libretto e dove il divertimento autentico del cast coinvolge gli spettatori tra gli inseguimenti, il fruscio degli originali costumi di Sandra Dekanić, i panni del bucato che volano tra le file di sedie come Falstaff nel Tamigi. L’orchestra diventa il perno dell’azione, la buca sulla quale tutti si affacciano e attorno alla quale tutto gira, con comica e discreta invadenza che direttore e orchestrali accettano di buon grado e che oltretutto riesce a creare un rapporto particolare e più stretto del consueto tra strumenti e voci. E se tutto questo non bastasse a stimolare l’immaginazione e la curiosità, l’altezza del sipario chiuso viene ridotta ampiamente e riempita da un ruolo di coprotagonista dei sovratitoli in croato e in italiano. Ma non sono soltanto i versi di Boito ad apparire proiettati sulle grandi pagine che sovrastano l’azione, perché il libretto, come l’allestimento che invita a uno sguardo privilegiato “dall’interno” delle prove, diventa uno spartito di regia con sottolineature, commenti, riferimenti spesso anche spiritosamente irriverenti.
Il libretto viene letto veramente con attenzione nella realizzazione scenica: non pedissequamente, ma con intelligente considerazione di quanto sia veramente indispensabile al racconto. La tradizione vuole un corpulento e panciuto Falstaff che qui si dimostra invece in ottima forma, ma non rinuncia ad ammiccare alle aspettative del pubblico giocando con l’imbottitura che ora vola sul direttore, ora viene inutilmente imposta dal regista, ora viene veramente utilizzata, ma umoristicamente, quando Falstaff, preparandosi all’appuntamento, “si fa bello” con la sua iconica pancia.
Dopo Jago e Macbeth, interpretati entrambi nell’ultimo mese e mezzo su questo palcoscenico, Surian non mostra segni di affaticamento e regala un Falstaff agile, malizioso, sfaccettato, dalla mimica pronunciata quanto gli accenti che incidono espressivamente il testo evidenziando la drammaturgia verdiana. Se questa è la sua “piacente estate di San Martino”, è certamente rigogliosa e ha mostrato i suoi frutti sia nella padronanza del mezzo vocale che nella misura del comico e del grottesco. Incisivo nelle parti solistiche, ha realizzato con Robert Kolar un magistrale duetto Ford-Falstaff, nel quale nemmeno una nota è andata sprecata grazie a una recitazione molto credibile che ha dato valore ad ogni espressione. Anche Kolar si è distinto per l’equilibrio di un’emissione pulita che non punta sui volumi e non eccede mai nel colore, sostenuta da un approccio spontaneo e disinvolto.
Questo Falstaff è un successo corale per l’affiatamento del cast e per la capacità di tutti i solisti di divertirsi e divertire il pubblico. Il quartetto femminile ha un ruolo centrale che la regia evidenzia mettendo in scena una compagine compatta, un piccolo e invincibile drappello che sprigiona tutta l’inventiva, l’arguzia e la solidarietà reciproca che portano alla comica punizione degli uomini arroganti e al trionfo dei sentimenti onesti.
Spiritose e vezzose nelle gradevolissime (e, visto il dinamismo della regia, anche funzionali) stilizzazioni storiche dei loro costumi, le quattro protagoniste sono efficaci sia in gruppo che nella precisa delineazione dei loro caratteri individuali. Anamarija Knego, punta di diamante della compagnia fiumana, piega con freschezza e maestria il volume e il lirismo della sua voce al registro comico, dimostrando in questo ruolo la sua versatilità nel creare una Alice Ford giovanile e piena di spirito. Il tono scuro del contralto serve invece a Biljana Kovač per strappare agli uomini la loro autorità e giocare “a chi fa la voce grossa” con una Quickly che minaccia e seduce al tempo stesso. Nannetta ha la voce sottile e a tratti aspra, ma ben timbrata e ammorbidita da un bel fraseggio di Vanja Zelčić, magica regina delle fate in un momento sospeso “sul fil d’un soffio etesio”, con la modalità concertistica utilizzata per valorizzare in proscenio tutte le arie solistiche dell’opera. Più riservata, ma nella sua diversità complementare e altrettanto divertente la Meg Page che beneficia del timbro caldo del mezzosoprano Ivana Srbljan.
Il tenore sloveno Aljaž Farasinnon smette i panni romantici che lo caratterizzano, ma ha qui l’opportunità di mettersi alla prova con il sorriso dei giovanili ardori di Fenton, in un binomio leggiadro e appassionato con la vivace Nannetta. Divertente, anche se dalla pronuncia più incerta, il petulante Dr. Cajus di Sergej Kiselev.
All’irresistibile “ronzio di vespe e calabroni” di questo gruppo affiatato partecipano da coprotagonisti maldestri e svagati anche Bardolfo e Pistola (Marko Fortunato, Dario Bercich), coppia inseparabile che rotola di botte in botte e improvvisa balletti popolari balcanici reggendo ghirlande di salsicce. La regia affida loro un ruolo di intrattenitori che dilata la loro presenza nella vicenda al di là del canto e li rende indispensabili all’esaltazione della vis comica.
Al centro di questo vortice di energia creato esclusivamente dai cantanti con pochissimi contributi scenici ci sono l’ottima orchestra del teatro di Fiume e la raffinata direzione di Ville Matvejeff che dimostra ancora una volta grande sensibilità artistica e un approccio mai superficiale alla partitura, con un trattamento cameristico che tiene conto della volontà narrativa del Verdi maturo. Non c’è ostentazione nel suono, ma rispetto degli equilibri e degli spazi reciproci nell’orchestra che si fa coinvolgere dalla non indifferente vicinanza che la regia impone ai cantanti intorno al golfo mistico, creando un ordito sottile e ricercato che rende omaggio alla grande arte di un compositore che, arrivato alla fine della propria carriera, non aveva certo bisogno di effetti, ma di preziosi dettagli espressivi.
Il palcoscenico non rimane chiuso per l’intera durata dell’opera ma, seguendo il libretto che domina l’intera scena, si apre progressivamente quando nella vicenda stessa si recita, nel bosco fatato sulle tracce del Cacciatore Nero. Appaiono anche la quercia di Herne, le fate e i folletti del coro diretto da Nicoletta Olivieri e si entra finalmente in scena, ma per uscirne dall’altro lato quando il velo della finzione cade e tutti rimangono “gabbati”. Sulle note del fugato finale il fondo dello spazio scenico apre finestre e porte sulla via retrostante il teatro. “Tutto nel mondo è burla” è un monito, seppur giocoso, che non rimane chiuso tra la platea e il sipario.
La recensione si riferisce alla recita del 7 maggio 2018.
Rossana Paliaga