Léïla | Laura Giordano |
Nadir | Jesús León |
Zurga | Stefano Antonucci |
Nourabad | Nicolas Testé |
Direttore | Ryan McAdams |
Regia | Fabio Sparvoli |
Scene | Giorgio Ricchelli |
Costumi | Alessandra Torella |
Coreografia | Annarita Pasculli |
Luci | Vinicio Cheli |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino | |
Danzatori della Compagnia I Dea |
Non è un’impresa facile per un regista mettere in scena un’opera come il giovanile lavoro di Bizet. Les pêcheurs de perles, infatti, ha un impianto drammaturgico a dir poco evanescente: tre personaggi principali (lui, lei, l’altro). Gli uomini entrambi innamorati della donna (che ama uno dei due) rinunciano nel nome di un giuramento d’amicizia perpetuo. L’oggetto della passione riappare come vergine scelta per difendere, con le sue preghiere, il villaggio dai pericoli del mare. Per far ciò dovrà vivere isolata e rinunciare all’amore. Ma Nadir e Léïla si riconoscono e scoppia di nuovo l’antica fiamma. Sorpresi, vengono condannati a morte. Zurga, vorrebbe salvarli, ma quando scopre chi è la colpevole, perde il lume della ragione e ribadisce la sentenza. Le preghiere di lei per la sorte dell’amato non danno frutti, ma quando la donna sfodera l’arma segreta (una collana donatale da Zurga per avergli salvata la vita), l’uomo decide di perdonare e far fuggire gli innamorati, serbandosi alla vendetta del popolo. Come si vede la trama è esilissima e l’azione latita; per di più l’opera scorre tra melodie cullanti, trine arabescate, visioni sognanti. Solo verso la fine del duetto Zurga – Léïla c’è qualche parvenza di accensione drammatica e i brani più mossi e vivaci sono demandati al coro, senza che tuttavia si attinga a risultati che vadano al di là di una generica ricerca coloristica; spicca però la bella invocazione a Brahma alla fine del secondo atto.
Il Bizet venticinquenne dei Pêcheurs ha già però una sua identità. Si lascia affascinare dalla nascente suggestione per ciò che è lontano, altro, insolito (L’Africaine è più o meno coeva), ma lo fa con una grazia, una fecondità melodica, una levità, che, pur sotto l’ascendente di certo Gounod (Vigolo suggerisce anche una risciacquatura di un bel po’ di Mendelssohn nella Senna), avrà un’influenza non casuale in parte della produzione massenetiana, su Lakmé di Delibes e sulla stessa scrittura del personaggio di Micaëla, alcuni anni dopo. Bizet però, fatta salva la cornice esotica, si discosta da Meyerbeer (anche se le volute svolazzanti un po’ fine a se stesse di O Dieu Brahma risentono ancora di alcuni degli stilemi del grand-opéra), per la leggerezza dello strumentale e le tinte pastello, e dall’opera italiana per l’atmosfera rarefatta.
Dicevo all’inizio dell’impianto drammaturgico. Les pêcheurs de perles è un’opera molto delicata, direi fragile, tra rêverie e souvenir. Si presterebbe ad una lettura onirica, irreale, mentre una scelta di pedissequa fedeltà alle didascalie del libretto metterebbe in cruda evidenza le debolezze teatrali. La messa in scena che in questi giorni viene presentata all’Opera di Firenze, originariamente allestita al Teatro Verdi di Trieste, opta per una via intermedia. La scena ideata da Giorgio Ricchelli è semplicissima: un pavimento ondulato di color sabbia chiaro, che suggerisce dune o onde spumose, tre quinte per lato ancora più chiare, un fondale che cangia colore a seconda delle luci. Poi, per ogni atto un elemento scenico aggiunto: al primo un tronco d’albero portato dal mare, al secondo una grande testa di statua che emerge di sbieco dalla sabbia, al terzo (secondo quadro) un grande albero al centro. Nel primo quadro del terzo atto la facciata di un edificio (un tempio?). La testa e la facciata hanno vissuto evidentemente giorni migliori e contribuirebbero ad indicare, secondo il regista Fabio Sparvoli (come da note sul programma di sala), un “senso di disfacimento, di abbandono…un mondo che non crede più a se stesso” spazzato via dal nuovo che avanza. La scena è “aperta” e questo contribuisce alla dispersione delle voci dei solisti, già in gran parte non esattamente di grande impatto sonoro. Però il cast esibisce un cliché di gesti stereotipati buoni per ogni opera. Costumi (di Annarita Torella) colorati e tradizionali (se per tradizionale si intende quello che ci si aspetterebbe dalle vesti di una favola ambientata nell’antica Ceylon), in definitiva poco fantasiosi. Disegno luci di Vinicio Cheli professionale e nulla più. I danzatori della compagnia I Dea fanno ahimè rimpiangere i colleghi della ormai defunta MaggioDanza pur alle prese con una coreografia prevedibile e piuttosto elementare, firmata da Annarita Pasculli.
La parte musicale ha un punto di forza nel giovane direttore statunitense Ryan McAdams, capace di trovare colori tenui e di efficace impatto emotivo ai tanti momenti estatici, con tempi in genere comodi, sempre attento, nei limiti del possibile a non sovrastare le voci ed a fornire loro un supporto adeguato. Eloquente anche nei brani corali più coloristici e nei concertati, si è trattata in definitiva di una bella sorpresa. Gli è mancata forse, a tratti, una maggiore espansività in qualche passo dal lirismo più intenso, ma bisogna dire che si è trovato a fare i conti con alcuni elementi dei due cast (in particolare i tenori) dalle caratteristiche vocali, diciamo, poco appariscenti. McAdams, a differenza della recita col primo cast, concede a tenore e soprano di eseguire varianti di tradizione non scritte: la ripetizione della frase “charmant souvenir” con la salita in pianissimo al Do4 alla fine dell’aria di Nadir, e la puntatura al Re5 di Léïla alla fine del duetto con Zurga (invece del consueto Si bemolle4).
La sera del 25 febbraio Nadir era Jesús León, già conosciuto a Firenze per aver partecipato all’ultima produzione de I Puritani. Il tenore cubano è in possesso di una voce chiarissima, direi quasi prepuberale, di notevole estensione in acuto, ma povera di armonici; tanto che ad un minimo incremento di volume dell’orchestra o negli a due col soprano (che ha voce non certo torrenziale ma ben timbrata) tende ad essere sopraffatta. Ha però un grande controllo della linea di canto, riesce a fraseggiare con dolcezza e a sfumare e rinforzare su tessiture molto acute; cosicché Je crois entendre encore (nella tonalità originale), pur mancando di tinte sensuali, è eseguita con grande abilità, giungendo a dare una lettura di un fascino ipnotico che lascia il segno.
Laura Giordano, al debutto nel ruolo, pur nell’ambito della vocalità di un soprano lirico-leggero, ha una voce calda dal colore tipicamente mediterraneo. Cerca di sottrarre il personaggio al cliché di creatura imbambolata e, soprattutto al terzo atto, ci riesce. Raggiunge con agio il Re5 (oltre a quello di tradizione nel duetto del terzo atto sceglie la variante acuta che porta la voce, con un arpeggio spezzato, dal Re3 al Re5 (invece del più comodo salto da Si2 a Si4). Di figura gradevole, non si può definire una funambola, ma se la cava con onore anche negli arabeschi di cui è disseminato il primo atto.
Ho sempre stimato Stefano Antonucci se non per lo strumento (timbro non privilegiato con una certa aridità e qualche secchezza), certamente per il controllo, la sobrietà, la capacità di sfumare, la dignità scenica. L’altra sera, specialmente all’inizio sembrava che un velo di opacità, di tanto in tanto, si stendesse sulla voce e ne impedisse la consueta facilità di canto. Nonostante ciò ha comunque regalato al pubblico qualche buon momento, soprattutto nel terzo atto.
Autorevole Nicolas Testé (Nourabad) e lodi al Coro del Maggio guidato da Lorenzo Fratini.
L’Opera non era mai stata rappresentata nei teatri fiorentini sedi del Maggio Musicale per lo meno dai tempi della costituzione dell’Orchestrale Fiorentina (1928), dalla quale nascerà l’Orchestra del Maggio.
Un pubblico non numerosissimo ha accolto lo spettacolo piuttosto calorosamente con applausi a scena aperta e alla fine, alle uscite singole.
La recensione si riferisce alla serata del 25 febbraio.
Silvano Capecchi