Albert Herring | Sam Furness |
Lady Billows | Orla Boyan |
Nancy | Rachel Kelly |
Sid | Philip Smith |
Florence Pike | Gabriella Sborgi |
Miss Wordsworth | Anna Gillingham |
Mr Upfold | Christopher Lemmings |
Mr Gedge | Zachary Altman |
Superintendant Budd | Karl Huml |
Mrs Herring | Manuela Custer |
Cis | Bonnie Callaghan |
Emmie | Sophie Gallagher |
Harry | Nicholas Challier |
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Direttore | Jonathan Webb |
Regia | Alessandro Talevi |
Scene e costumi | Madeleyne Boyd |
Luci | Matthew Haskins |
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Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino |
“Interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese” è la fulminante descrizione della prima scena della Cantatrice calva di Eugène Ionesco, che nel 1950, con il linguaggio del teatro dell'assurdo, ironizzava su come possa essere marcata, persino in quanto di più impensabile, la caratteristica, lo stile, l'impronta “inglese”.
Marcata nei particolari, nelle acconciature, nei modi, nelle forme, negli abiti, nei cappellini, nelle liturgie, nel classismo, nelle carte da parati, nel freddo distacco utilizzato come mezzo per vincere il timore di scomporsi. Gli inglesi hanno colonizzato mezzo mondo, ma sono rimasti nei secoli unici e, con loro grande gioia, inconfondibili, tanto da ipotizzare, nell'immediato futuro, di fare un passo indietro nella Storia, distaccandosi dai continentali cugini europei.
Pare di vedere un interno come quello ironicamente immaginato da Ionesco nella prima scena dell'Albert Herring che ha debuttato al Teatro della Pergola di Firenze, terzo e ultimo (oltre che decisamente il più convincente) tra i titoli operistici di un 79esimo Maggio Musicale fino ad oggi bisognoso di una scossa. Il regista Alessandro Talevi trasporta l'azione dell'opera da camera di Britten negli anni '20, nell'intento di avvicinare la vicenda al tempo della gioventù del compositore, il quale era cresciuto in un ambiente altrettanto soffocante rispetto alla cittadina del Suffolk dove il librettista Eric Crozier spostò l'intreccio ispirato dal racconto Le Rosier de Madame Husson di Guy de Maupassant. Ma la trasposizione registica conferma quanto la storia narrata si adatti con facilità a qualsiasi epoca inglese, permanendo nei decenni e nei secoli nella terra di Sua Maestà le caratteristiche sopra elencate e molte altre ancora. Forme, moralità praticata ma soprattutto predicata, salotti buoni con cimeli di caccia, mobili dalla foggia rassicurante, il profumo del tè caldo che pare sentir sprigionare. È prodigioso l'avvicinarsi verso il proscenio del salotto perbenista creato da Talevi con la scenografa Madeleine Boyd, all'inizio irrealmente posto su uno sfondo buio che pare lontanissimo, dove troneggia Lady Billows, tipica figura femminile attempata, sentenziosa e altera, abituata a dominare la scena ovunque si trovi e a porsi al vertice della scala sociale, come le ben più altolocate Lady Bracknell dell'Importance di Wilde o la televisiva Lady Crawley di Downton Abbey. Poco importa che in Albert Herring il dominio si eserciti su una piccola comunità di paese. L'importante è dirigere, giudicare le vite altrui e magari opprimerle un po'.
Nell'unica opera di argomento comico di Britten il protagonista resta un esemplare esempio della sua poetica, in lotta solitaria contro il resto del mondo come Billy Budd e Peter Grimes, fortunatamente destinato a sorte molto migliore, non senza aver fatto temere alla comunità di aver perduto la vita e di essersi fatto piangere in un momento corale che costituisce uno dei vertici musicali della partitura.
Albert Herring è opera comica, ma venata di malinconia, garbata quanto efficace critica dell'oppressione sociale che deriva dal pregiudizio, perfetto meccanismo ad incastro, tanto nei dialoghi del libretto quanto nella ricchezza di colori e varietà dei caratteri dei diversi personaggi, tanto più impressionante in considerazione del numero ridotto degli strumentisti impegnati. Il titolo necessita soprattutto di un grande affiatamento tra i diversi componenti della produzione, tali da far funzionare un lavoro che, in caso di esecuzione fiacca, rischia di apparire un esile e non del tutto riuscito tentativo da parte di Britten di addentrarsi in un territorio a lui estraneo.
A Firenze il connubio tra podio, regia e cast è apparso non meno che esemplare, in una recita di fronte alla quale si aveva la stupita impressione di assistere ad un rodatissimo spettacolo del West End, in cui tutti conoscono - a menadito e da anni - tempi e movimenti, anziché a una prima.
Di Jonathan Webb si conosceva l'affinità con la musica del più grande compositore britannico del Novecento, ma forse mai come in questa occasione si è avuta l'impressione di tanta aderenza allo stile britteniano e di una tale felicità di intenti e di risultati nell'imprimere all'esecuzione un ritmo brillante, teatrale, capace di naturali trapassi negli episodi romantici, in quelli di carattere e in quelli relativamente più drammatici, senza che il passo narrativo avesse un solo attimo di cedimento. Mai impettito, mai altisonante, ma capace di governare il tutto con un sorriso di fondo. Molto inglese, direbbe forse Ionesco.
Totale appare la comunione di intenti con Talevi, che a Firenze replica il risultato pregevole ottenuto due anni fa con L'amour des trois oranges, confermandosi regista talentuoso e raffinato, dotato di uno spiccato senso dello spazio, particolarmente a suo agio nelle opere in cui deve gestire molti personaggi e dosare diversi climax narrativi. Uno spettacolo che a tratti pare, deliziosamente, una vecchia produzione londinese degli anni '60 e a tratti una realizzazione contemporanea, in cui vengono dosati con garbo ed eleganza gli interventi registici più forti. Come i figuranti en travesti che compaiono come un incubo per il protagonista, costretto dalla madre oppressiva e dalla comunità bigotta ad accettare il ridicolo titolo paesano di “Re di Maggio”, sostitutivo della tradizionale elezione della “Regina di Maggio”, dopo che tutte le candidate femminili erano state scartate per futili motivi legati a presunte quanto esili immoralità.
Come è amabilmente inglese questa inconsapevolezza del ridicolo in cui l'eccesso di forma può sfociare! Come i famosi cappellini della Regina, nella patria delle tradizioni più rigide e delle trasgressioni più estreme, dalla Corona alla minigonna, da Wimbledon al punk. Così tutti costringono Albert a indossare in pubblico un effeminato copricapo floreale che sarebbe stato invidiato dalle incredibili signore che frequentano l'ippodromo di Ascot, mentre lui si rode di gelosia per la storia di amore tra Nancy e Sid (ebbene sì, il librettista nel 1947 aveva casualmente anticipato di trent'anni i nomi della celebre coppia maledetta del punk, formata dal chitarrista dei Sex Pistols e dalla sua giovanissima compagna) e deciderà di concedersi una breve ma inaspettata ribellione.
Con regia e direzione tanto ispirate e coese, sarebbe bastata una discreta e professionale compagnia ad assicurare la riuscita dello spettacolo. Invece i componenti del cast (tutti britannici, con due eccezioni) fanno a gara di bravura per musicalità, precisione, ritmo, presenza scenica, recitazione degna di attori cinematografici e verve interpretativa in cui i meriti propri dei singoli si fondono con quelli della regia.
Sam Furness è un protagonista ideale nel prestare ad Albert la giovane figura quasi adolescenziale e una voce di bel timbro chiaro, che viene piegata verso una grande varietà di accenti, da quelli più ingenui e malinconici, fino a quelli della della sua moderata rivolta.
Esecutore altrettanto impeccabile il Sid del baritono Philip Smith, dalla nitida dizione, vocalmente smaliziato e perfetto nell'impersonare il gradasso, piacione e bonario commesso di macelleria. Di bell'aspetto e opportunamente misurata negli accenti la Nancy di Rachel Kelly che ha voce fresca e dai toni sensuali. Orla Boylan è irresistibile nei panni della dispotica Lady Billows, di cui possiede il necessario carisma, reso anche da uno strumento importante e sonoro, governato però con la necessaria ironia interpretativa che si impone verso una figura tanto altisonante quanto in fondo gretta, nell'accontentarsi di dominare una così piccola comunità.
Perfettamente centrati anche la Miss Wordsworth di Anna Gillingham, direttrice, un po' zitella della scuola parrocchiale, il Mr Gedge, parroco del paese, di Zachary Altman, il Sovrintendente di polizia, Mr Budge, di Karl Huml, il Sindaco, Mr Upfold, di Christopher Lemmings. Gli interpreti dei tre bambini del villaggio sembrano nati sul palcoscenico, esattamente come vien da pensare frequentando i musical londinesi che prevedono spesso ruoli per ragazzini, anche in tenera età. Lodi, quindi, per la Emmie di Sophie Gallagher, la Cis di Bonnie Callaghan e per l'Harry dell'appena dodicenne Nicholas Challier.
Insomma, se si voleva la conferma che in Inghilterra si insegna a stare sulla scena e a recitare come in nessun altro luogo al mondo eccone l'ulteriore prova. Pericoloso, quindi, inserire in una tale agguerrita e perfetta compagine britannica due interpreti italiane, che giocoforza, in un'opera dai dialoghi tanto serrati, pagheranno il fatto di non essere di madrelingua? Niente affatto. In due ruoli importanti come quello della madre del protagonista e della governante, Manuela Custer e Gabriella Sborgi si inseriscono idealmente nella compagnia senza la minima sbavatura. La Custer dà vita ad una Mrs Herring più materna e meno aspra rispetto alla tradizione che ne vede l'equivalente “genitoriale” della terribile Lady Billows, mentre la Sborgi giganteggia come Florence Pike, giocando con i toni contraltili della sua voce, nel ricordarci come - in perfetta tradizione inglese - la servitù è sempre più conservatrice e bigotta degli stessi padroni.
Applausi lunghi e pienamente meritati per tutti gli interpreti, per il direttore e per i responsabili dell'allestimento.
(La recensione si riferisce alla recita del 21 maggio 2016)
Fabrizio Moschini