Tenore | Juan Diego Flórez |
Direttore | Carlo Rizzi |
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino | |
Gioachino Rossini | da Il barbiere di Siviglia, Sinfonia |
da Ermione: "Reggia aborrita... Che sorda al mesto pianto" * | |
da La pietra del paragone: "Oh come il fosco impetuoso nembo... Quell'alme pupille" ** | |
Vincenzo Bellini | da Norma: Sinfonia |
da Norma: "Meco all'altar di Venere .. Me protegge e me difende" | |
Gaetano Donizetti | da Lucia di Lammermoor: "Tombe degli avi miei... Tra poco a me ricovero" |
Jacques Offenbach | da Les contes d'Hoffmann: "Il était une fois à la court d'Eisenach" |
Georges Bizet | da Carmen: Entr'acte |
Charles Gounod | da Faust: "Quel trouble inconnu me pénètre?... Salut! demeure chaste et pure" |
Jules Massenet | da Manon: "Je suis seul!... Ah! Fuyez, douce Image" |
Giacomo Puccini | da Manon Lescaut: Intermezzo |
da La bohème: "Che gelida manina" | |
Bis: | |
Cesare Andrea Bixio | "Parlami d'amore Mariù" |
Carlos Gardel | "El día que me quieras" |
Chabuca Granda | "La flor de la canela" |
Tomás Méndez | "Cucurrucucu Paloma" |
Giacomo Puccini | da Turandot: "Nessun dorma" |
da La bohème: "Che gelida manina" | |
* con il tenore Antonio Garés | |
** con conclusione alternativa "Ah! Ch'io sento in mezzo al core" |
Una lunga e gloriosa tradizione poneva il teatro fiorentino all'avanguardia non solo nelle proposte dei titoli in cartellone, ma anche nella scelta degli artisti. Erano ospitati di frequente cantanti dalla carriera in chiara ascesa, ma non ancora diventati star assolute, i quali poi inevitabilmente - una volta raggiunto l'apice della fama - non si sarebbero rivisti più, perché il Maggio certo glorioso è, ma non ha i mezzi del Met, della Scala o di Londra. Una tradizione, quella, un po' persa da diversi anni, ma che ben si può rievocare nelle performance del 1998 di un giovanissimo Juan Diego Flórez a Firenze in Le Comte Ory e nel Falstaff, di due anni successive alla famosa produzione della Matilde di Shabran al Rof di Pesaro dove fu catapultato all'ultimo momento a rivestire, appena ventitreenne, il ruolo di Corradino.
Da quel tempo Flórez spiccò il volo diventando uno dei tenori più importanti e acclamati del nuovo millennio, non esibendosi più a Firenze. “Ma tutto un sol giorno cangiare poté” si potrebbe dire con Rigoletto e con l'arrivo di Alexander Pereira il teatro fiorentino è parso improvvisamente - e in modo quasi sconcertante per il suo pubblico - diventare una sorta di ritrovo per il gotha dello star system operistico mondiale, con un cartellone che trabocca di nomi che durante la precedente gestione parevano irraggiungibili, divi autentici o presunti, in piena carriera o in dorato declino.
Autentico fuoriclasse, tra i più luminosi artisti degli ultimi venti anni e non solo, è sicuramente Juan Diego Flórez, che a Firenze si è esibito in un concerto, opportunamente spostato al chiuso della sala principale del Teatro del Maggio rispetto alla prevista e problematica cavea all'aperto, accolto dal pubblico presente con toni addirittura trionfali.
Al recital dal programma eclettico quanto oneroso, non da ultimo per la generosa (a dir poco) concessione di bis, ha dato significativo contributo un'Orchestra del Maggio in grande spolvero, ben diretta dalla bacchetta esperta di Carlo Rizzi, sapiente e preciso accompagnatore del canto, ispiratore di suoni pieni e turgidi, spesso esuberanti. In alcuni rari momenti persino un po' troppo, come nell'ordinaria Sinfonia del Barbiere, che apre il concerto dispensando soprattutto molto volume e introducendo i due brani più rari dell'intera serata. Sono, quelli con cui il tenore peruviano si cimenta con il diletto Rossini, che lo ha accompagnato lungo tutta la carriera, evitando di riproporre i (molti) titoli da lui già affrontati in passato e nei quali ha già detto tutto quanto aveva da dire.
Ecco dunque Ermione, con “Reggia aborrita… Che sorda al mesto pianto” che il pesarese compose per il personaggio di Oreste, ruolo creato da Giovanni David e quindi tra quelli (come Ilo, Ricciardo, Rodrigo e Uberto) sulla carta ideali per mettere in luce le doti di Flórez. Il quale è ancora impeccabile in queste scritture dai vertiginosi saliscendi ed è ancora più incisivo nelle frenesie da innamorato geloso del brano dalla Pietra del paragone, “Oh come il fosco impetuoso nembo… Quell’alme pupille”, presentato con la conclusione alternativa “Ah! Ch’io sento in mezzo al core”. Sarebbe uno sterile esercizio l'analisi comparativa con il Rossini di Flórez di dieci o di venti anni fa, misurando con il microscopio quanto si può essere quasi impercettibilmente limato in termine di nitidezza nello sgranare le agilità e di insolenza nelle fiondate all'acuto.
La verità è che dopo un quarto di secolo di carriera il tenore dimostra una sensibilità artistica ammirevole nel continuare ad affrontare Rossini - da star che potrebbe permettersi altre e oggi più comode tipologie di ruoli - con la serietà e la preparazione di sempre, dimostrata anche a Pesaro nel suo ultimo debutto del 2018, nel ruolo di Ricciardo, unita all'immutata pertinenza stilistica, alla classe, al gusto e alla comunicativa nel porgere e colorire le frasi che col tempo si sono ulteriormente affinati rispetto ai già luminosi esordi.
Un'impetuosa e torrenziale esecuzione da parte di Rizzi della Sinfonia della Norma, un po' vecchio stile (che però in un brano del genere, per mio giudizio personale, qualche volta non stona affatto), prelude a “Meco all’altar di Venere” con cui Flórez affronta in modo solo apparentemente temerario la tessitura da baritenore di Pollione. Viene omesso il recitativo “Svanir le voci” - curiosamente, vista la presenza dell'altro tenore Antonio Garés che aveva appena duettato con Flórez nel brano da Ermione ed avrebbe ben potuto impersonare Flavio - ma viene ovviamente eseguita la cabaletta con ripresa e variazioni. Proprio il daccapo si rivela il momento più intrigante, assieme all'attesa e sicura salita al do sovracuto di “Eran rapiti i sensi”, ma tutto il brano è convincente nel presentare un tenore del tutto consapevole dei suoi mezzi, che non forza o non apre mai un suono e che compensa con la varietà di accenti e l'eleganza del legato la relativa mancanza di bronzo scultoreo nelle frasi centrali. Un bronzo presente più nelle menti di certi ascoltatori sviati dalle storiche esecuzioni dei tenori drammatici degli anni '50 e '60 che nella reale scrittura di un brano certo non “di grazia”, ma che resta belcantistico.
Da Bellini si passa a Donizetti per uno dei momenti più emozionanti della serata, con Flórez che appare sempre più padrone del ruolo di Edgardo nella Lucia di Lammermoor (ruolo affrontato anche in teatro a differenza dei tre che lo hanno preceduto) e una versione vibrante e memorabile di “Tombe degli avi miei… Fra poco a me ricovero” che si rivela pura poesia. Basterebbe il recitativo, ottimamente sostenuto da Rizzi e cesellato dal cantante con una finezza che sopporta forse solo il paragone del divino Kraus, dove nessuna sillaba è accentata in modo meno che perfetto (“Tu delle gioie in seno” è sublime, ma si potrebbero fare decine di esempi di frasi da ricordare, praticamente in ogni brano della serata) e il si naturale sull' “Ah!” che precede “Di chi moria” è una folgore che lacera l'anima. Al termine dell'aria il teatro, limitato nella sua capienza a causa del Covid, pare contenere il doppio degli spettatori consentiti dai posti anziché la metà, tanto travolgente è la reazione del pubblico.
Dopo breve pausa si passa alla parte francese del programma in cui il tenore cambia nuovamente stile con un aplomb stupefacente, passando dalle brume romantiche di Edgardo alla frizzante malinconia di Hoffmann con una “Il était une fois à la cour d’Eisenach” che è una vera miniera di accenti e di rubati, alla passione di innamorato di Faust in “Quel trouble inconnu me pénètre?… Salut, demeure chaste et pure” e di Des Grieux in “Je suis seul!… Ah! Fuyez, douce image”. Lo strumento del fuoriclasse peruviano anziché accusare stanchezza per l'accumulo di brani tanto impegnativi ed eterogenei sembra invece arricchirsi di smalto nel corso della serata, ben emergendo sul consistente suono orchestrale di Rizzi e coronando l'aria di Gounod con un do raggiante. Va da sé che pronuncia e stile francesi sono impeccabili, al pari della musicalità, in un cantante che è sempre magistrale nel controllo del fiato e sembra non poter stonare neppure sotto tortura.
L'Intermezzo dalla Manon Lescaut di Puccini (in mezzo ai brani francesi c'era stato l'Entr’acte della Carmen per dare tregua al tenore) prelude alla fine del concerto in cui si rende omaggio a Puccini in terra toscana, utilizzando il personaggio di Manon per il passaggio ideale di testimone tra Italia e Francia. E Flórez sorprende ancora (anzi, a questo punto della serata niente sorprende più) con un “Che gelida manina” dalla Bohème che fa ascoltare la vera voce di un giovane poeta che sta cedendo alla passione e corona la “Speranza” con un do ancora una volta perfetto.
Nel tripudio dei saluti al finale del programma (non il vero finale visto tutto quanto seguirà) viene posto al centro del palcoscenico lo sgabello che fa capire che il cantante concederà i suoi consueti bis da concerto accompagnandosi con la chitarra in canzoni in lingua spagnola. Così è, ma il tango “El día que me quieras” di Carlos Gardel, di “La flor de la canela” Chabuca Granda e di “Cucurrucucú Paloma” di Tomás Méndez sono preceduti da un omaggio all'Italia con una delicata e languida versione di “Parlami d’amore Mariù”.
Finale nazionalpopolare nuovamente con l'orchestra e con “Nessun dorma”, questa sì un po' temeraria se preludesse a un cimento nel ruolo intero, ma che in concerto va benissimo anche così, anzi dovrebbe essere ascoltata da qualche tenore spinto che ha il ruolo in repertorio per imparare qualche particolare di fraseggio.
Nel delirio generale, il tenore, inesauribile, canta nuovamente “Che gelida manina” come ultimo bis. Serata non meno che storica.
La recensione si riferisce al concerto del 30 settembre 2020.
Fabrizio Moschini