Mezzosoprano | Cecilia Bartoli |
Direttore | Gianluca Capuano |
Les Musiciens du Prince-Monaco | |
G. F. Händel | RINALDO HWV7a Sinfonia (Ouverture atto I) |
N. Porpora | POLIFEMO Lontan dal solo e caro... Lusingato dalla speme (Aria di Aci). Oboe: Pierluigi Fabretti |
G. F. Händel | ARIODANTE HWV33 Entrée des songes funestes |
G. F. Händel | IL TRIONFO DEL TEMPO E DEL DISINGANNO Lascia la spina, cogli la rosa (Aria di Piacere) |
J. A. Hasse | MARC'ANTONIO E CLEOPATRA Sinfonia (Spiritoso e staccato - Allegro - Grazioso) |
G. F. Händel | GIULIO CESARE IN EGITTO HWV17 Sinfonia Il Parnasso (Atto II scena 2) |
V'adoro pupille (Aria di Celopatra) | |
G.P. Telemann | CONCERTO IN RE MAGGIORE TWV51:D7 per tromba e archi (Allegro - Grave - Allegro). Tromba: Thibaud Robinne |
G. F. Händel | AMADIGI DI GAULA HWV11 Mi deride... Desterò dall'empia Dite (Aria di Melissa). Oboe: Pierluigi Fabretti - Tromba: Thibaud Robinne |
A. Vivaldi | ORLANDO FURIOSO RV728 Sol da te mio dolce amore (Aria di Ruggiero) |
Flauto: Jean-Marc Goujon | |
G. F. Händel | ARIODANTE HWV33 Suite di danze |
G. F. Händel | RINALDO HWV7a Augelletti, che cantate (Aria di Almirena). Flauto: Jean-Marc Goujon |
G. F. Händel | ODE FOR ST.CECILIA'S DAY HWV76 What passion cannot Music raise and quell (Aria soprano). Violoncello: Robin Michael |
Bis: | |
G. F. Händel | ARIODANTE HWV33 Dopo notte atra e funesta (Aria di Ariodante) |
E. A. Mario | Santa Lucia luntana |
A. Steffani | TASSILONE A facile vittoria (Aria di Sigardo). Tromba: Thibaud Robinne |
E. De Curtis | Non ti scordar di me |
N. Porpora | ADELAIDE Nobil onda (Aria di Adelaide) |
Cecilia Bartoli, si sa, ha diviso il pubblico fin quasi dal suo apparire sulle scene tra ammiratori pressoché incondizionati e detrattori feroci. Le vie di mezzo sono state poche. Dunque i critici ad oltranza tirano in ballo la mimica portata all’eccesso, storcono il naso di fronte all’invadente battage pubblicitario (perché gli artisti che hanno molto successo e vendono vagonate di dischi lo devono esclusivamente a quello e le case discografiche, anche in tempi di magra come questi, scelgono di spingere fenomeni da baraccone, tanto il pubblico bue non sa distinguere chi canta bene da chi raglia) e infine tanti storcono il naso pure di fronte al repertorio che per lo più canta la Diva, tutto ghirigori o soporifero. Ma torniamo seri. Innanzitutto Cecilia Bartoli ha un merito indiscutibile: quello di aver contribuito in modo determinante alla diffusione di un repertorio (l’opera del sei-settecento italiano o italianeggiante) fino a qualche decennio fa piuttosto negletto, soprattutto in Italia (ora anche qui si sta muovendo qualcosa e la risposta dei melomani è sempre più incoraggiante). Inoltre l’artista romana ha sempre avuto una voce di limitata ampiezza ma molto estesa (in alto come minimo fino al mi bemolle 5, per lo meno fino a qualche anno fa), tanto da poter affrontare ruoli di mezzosoprano e, via via più spesso nel prosieguo della carriera, di soprano, con relativo schiarimento del timbro. La musicalità e l’intonazione sono sempre state non meno che straordinarie e altrettanto le capacità virtuosistiche, con un controllo del fiato superbo. Proprio quest’ultime sono state fatte oggetto in varie occasioni di riserve a causa di un uso della coloratura potremmo dire estremo; nel senso che la Bartoli ama talvolta esasperare l’agogica: i tempi veloci diventano vorticosi e quelli lenti lentissimi. E i critici irriducibili trovano i tempi vorticosi eccessivi, meccanici, eseguiti con voce gorgogliante; i lentissimi troppo compiaciuti con più di un sospetto di leziosità che può sconfinare nel manierismo. Quest’ultimo appunto non è del tutto campato in aria e può essere in parte condiviso, come si è potuto appurare anche l’altra sera in Augelletti che cantate. Però la Cecilia nazionale può anche vantare innanzitutto una grande comunicativa, poi un carisma unico, una personalità di prim’ordine unita a quella che si può definire gioia di cantare, tanto che sembra si diverta e goda essa stessa della musica eseguita, condita spesso da tocchi extramusicali che a volte possono sconfinare nel “varietà” e che naturalmente sono visti di malocchio dal melomane nostrano tipico. Sì perché il melomane nostrano tipico è fondamentalmente piagnone, serioso e diffidente verso ogni forma di leggerezza. Tanto che anche il ritorno a Firenze della Bartoli, pur avendo avuto un’accoglienza complessivamente non meno che trionfale, ha provocato levate di scudi, al termine della serata in teatro e sui social, piuttosto severe e ho sentito parlare e letto di circo, baracconata et similia.
Il concerto (ma forse sarebbe meglio chiamarlo lo spettacolo) Omaggio a Farinelli che Cecilia Bartoli sta portando in giro per l’Europa insieme all’ensemble Les Musiciens du Prince-Monaco e al direttore Gianluca Capuano aveva già fatto tappa nell’agosto scorso al Festival di Ravello e io avevo avuto occasione di vederlo alla Philharmonie di Parigi nel dicembre 2019, con programma simile e con lo stesso colorato “allestimento”. Devo dire che di primo acchito pure io rimasi un poco sorpreso e un filo di perplessità si insinuò anche in me (evidentemente in fondo in fondo un poco piagnone lo sono anch’io), ma poiché fondamentalmente sono un gaudente alla fine ero contento come una Pasqua, sia a Parigi sia l’altra sera a Firenze, alla faccia della filologia rigida che va di moda oggi.
Infatti, se il canto era onorato a dovere con tutto l’armamentario belcantistico di trilli, messe di voce, mordenti, gruppetti fino agli abbellimenti più complessi e lo stesso avveniva per la parte strumentale, sfrenatamente virtuosistica o morbidamente distesa, la libertà esecutiva regnava sovrana. I brani erano più di una volta “usati” al fine della rappresentazione. Così del Concerto in re maggiore per tromba e archi di Telemann erano eseguiti gli ultimi tre movimenti sacrificando il primo, alcuni brani erano privati del da capo o della ripresa, certe cadenze sconfinavano nella gag e/o si contaminavano di stili e musiche assai lontane dall’originale. Con questo non voglio dire che questa libertà sia sempre e comunque auspicabile (e nemmeno la Bartoli quando affronta opere complete o in altri contesti dà libero sfogo a questa tendenza), ma tutto sommato perché no un poco di follia “barocca” una tantum?
Sul palcoscenico, a Firenze come a Parigi, c’era un appendiabiti col necessario per effettuare le varie trasformazioni del mezzosoprano (o soprano che dir si voglia, d’altra parte nel sei – settecento il mezzosoprano vero e proprio era di là da venire). Poi c’era una toeletta per truccarsi e quando necessario si materializzava l’attore – danzatore Xavier Laforge, impeccabile valletto addetto alla vestizione e svestizione della cantante.
La serata fiorentina iniziava con una Sinfonia del Rinaldo händeliano nitida, elegante collegata al brano successivo da alcune battute di raccordo. Infatti non c’erano stacchi tra un brano e l’altro, a dare una continuità narrativa alla serata, interrotta solo quando l’entusiasmo del pubblico scoppiava incontenibile. La Bartoli (caschetto nero come i pantaloni e camicione bianco) esordiva con una messa di voce eterna all’inizio del recitativo Lontan dal solo e caro da Polifemo di Porpora, seguito dall’aria Lusingato dalla speme, accompagnata dall’ottimo oboista Pierluigi Fabretti. Si è trattato dell’unico momento che ha fatto temere (con tutta probabilità perché la voce non era ancora “riscaldata”) che i trentacinque anni di carriera cominciassero a far sentire il loro peso, con un timbro più arido e minore fluidità nella linea del solito. Ma era un falso allarme. Intendiamoci: i segni del tempo che passa qua e là sono avvertibili soprattutto nella minore spericolatezza e anche precisione, ma non tali da intralciare più di tanto la fantasia, la sensibilità, l’originalità di un’artista a suo modo unica. Dopo l’Entrée des songes funestes da Ariodante di Händel, dello stesso autore veniva cesellata con ipnotica lentezza Cogli la rosa, lascia la spina, dal Trionfo del tempo e del disinganno, uno dei momenti più alti del concerto per il legato perfetto, il malinconico abbandono e la ricerca coloristica infinita pur in un canto tutto tenuto sul mezzoforte, piano e pianissimo (impresa quest’ultima che solo una cantante dalla tecnica particolarmente evoluta può riuscire ad ottenere). Durante la Sinfonia di Marc’Antonio e Cleopatra di Hasse si opera la mutazione in Cleopatra, ma di Händel. In V’adoro pupille dal Giulio Cesare in Egitto scorreva una sensualità sottile eppure maliosa in un canto tenuto su piani luminosi dai colori cangianti non privo di una maliziosa, insinuante ironia. Nel secondo, terzo e quarto movimento del Concerto in re maggiore per tromba e archi di Telemann spiccava il virtuosismo sfrontato di Thibaud Robinne, per il suono terso, sonoro, brillante e si rimaneva in tema, quanto a virtuosismo, con Desterò dall’empia Dite da Amadigi di Gaula di Händel per la fosforescente e scatenata coloratura della Bartoli in gara con la tromba di Thibaud Robinne e l’oboe di Pierluigi Fabretti. Boato impressionante della platea e si passava a tutt’altro clima con Sol da te mio dolce amore da Orlando Furioso di Vivaldi, con la cullante melodia di Ruggiero sostenuta con quieta trasparenza dal flauto di Jean-Marc Goujon e cantata come in estatica sospensione. Il programma si chiudeva con tre brani ancora händeliani. Nella suite di danze da Ariodante l’orchestra sfoggiava un colore e un senso del ritmo magnifici e nell’aria di Almirena Augelletti che cantate da Rinaldo, ancora accompagnata dal flauto di Jean-Marc Goujon, si univano grazia e languore. Chiusa di gran livello con What passion cannot Music raise and quell da Ode for St Cecilia’s day, sospesa in una luminosa aura di serenità, grazie anche al contributo di Robin Michael al violoncello.
A questo punto succedeva di tutto: urla forsennate (c’era pure un tizio che, gridando come un ossesso per manifestare il suo entusiasmo, interrompeva la Bartoli mentre dialogava col pubblico), applausi ritmati a non finire, battiti di piedi e, naturalmente, insistenti richieste di bis che saranno cinque in tutto. Dava il via alle danze la pirotecnica aria di Ariodante dall’opera omonima di Händel, Dopo notte atra e funesta. Poi un fuori repertorio, un omaggio a Napoli, Santa Lucia luntana di E. A. Mario, resa con delicata tenerezza e raddoppiata da un signore della fila avanti alla mia, che non riusciva a non abbandonarsi all’accattivante melodia. Ulteriori acclamazioni e veniva ottenuta l’aria di Sigardo A facile vittoria da Tassilone di Steffani, che nella cadenza, con la complicità di Robinne alla tromba, sfumava sempre più verso colori jazzistici fino a sbocciare nella gershwiniana Summertime. Poi altra concessione nostalgica al secolo passato con Non ti scordar di me di De Curtis e si finiva con una Bartoli di rosso vestita che si gettava nella folle scrittura di un moncherino di Nobil onda di Porpora da Adelaide.
Poi l’orchestra se ne andava, Xavier Laforge portava via gli arredi scenici, le luci della sala si accendevano, ma il pubblico non accennava ad andarsene ed applaudiva ancora per un po’ la sua beniamina.
Cecilia Bartoli mancava da Firenze dal 1992 ma voci insistenti sussurrano che la risentiremo presto (covid permettendo, naturalmente). Lo speriamo vivamente, magari in un’opera completa.
La recensione si riferisce alla serata dell’8 ottobre 2020.
Silvano Capecchi