Boris Godunov | Ferruccio Furlanetto |
Feodor | Tove Dahlberg |
Ksenija | Julia Kleiter |
La Nutrice | Margarita Nekrasova |
Sujskij | Philip Langridge |
Andrej Scelkalov | Andreij Breus |
Pimen | Vladimir Vaneev |
Il Falso Dimitrij (grigorij) | Torsten Kerl |
Marina Mniscek | Julia Gertseva |
Rangoni | Valeri Alexeev |
Misail | Viacheslav Voynarowsky |
L'ostessa | Francesca Franci |
L'innocente | Evghenij Akimov |
Capitano | Alessandro Guerzoni |
Un Ufficiale di Polizia | Luigi Roni |
Un Bojardo | Sergio Spina Lezaeta |
Mitiuk | Salvatore Massei |
Krusciov | David Righeschi |
Lavitzky | Tiziano Barbafiera |
Cierikovsky | Gianluca Pisolini |
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Direttore | Seymon Bychkov |
Regia | Eimuntas Nekrosius |
Scene | Marius Nekrosius |
Costumi | Nadezda Gultyaeva |
Luci | Jean Kalman |
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Coro e Orchestra |
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Del |
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Maggio Musicale Fiorentino |
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Nuova Produzione |
C’è un campo di grano, in alto. Il grano è maturo e le spighe bionde sono mosse da un vento costante.
Ci sono croci ortodosse piantate nel campo e il cielo è azzurro cupo. Un grande senso di pace. Sotto c’è un formicaio: un brulicante popolo Russo, oppresso, piegato, curvo. Non solo metaforicamente pesa la terra della Grande Madre Russia. Non c’è speranza, non c’è pace.
Con il pessimismo si inizia e con il pessimismo si finisce. Un dedalo di gallerie, un vero formicaio, è lo spaccato di scena in cui si svolge la storia di questo Boris Godunov, opera di chiusura del 68° Maggio Musicale Fiorentino. Nelle gallerie sotterranee si muove la massa del popolo: come formiche hanno dei pesi sulla schiena, vere e proprie gobbe. C’è una culla-bara onnipresente, ci sono specchi in cui Marina riflette la sua vanità. Ci sono donne affaccendatissime, piccole figure vestite di nero, che salgono e scendono senza posa, che usano grandi scope per pulire incessantemente per terra e per scandire il tempo, come metronomi umani. Donne che fanno salire e scendere corde con appesi oggetti: la sagoma di un cavallo, secchi pieni d’acqua. C’è un bambino che appare spesso, silenziosa e inquietante presenza, mina la fragile mente di Boris. Ci sono tre uomini-civetta (simboli di malaugurio ?) sempre presenti dall’inizio alla fine. Una grande alacrità: nessuno sta fermo, il popolo lavora. Un grande senso di claustrofobia: la mente dello Zar.
La scena è fissa; solo con un sapiente e bellissimo gioco di luci e con l’aggiunta di pochi altri elementi si diversificano gli ambienti: ecco grandi colonne nere che creano la sala del Cremlino. Ma non sono colonne, sono tendaggi cilindrici che si aprono e rivelano l’interno d’oro e, dondolando, diventano campane nella scena dell’incoronazione: un’icona nera e oro. Pozze di luce dorata spolverano l’aria e la caricano di ieratica maestosità. Diventeranno le celle del monastero dei Miracoli, dove il monaco Pimen scrive la cronaca dell’impero Russo di quegli anni, con la complicità di una musica onomatopeica che richiama nell’ascoltatore il suono della penna su un foglio ruvido, come una visione concreta di pagine riempite di minuziosa grafia. Bastano quattro tronchi di betulla e un’ostessa un po’ sboccata e variopinta per darci l’atmosfera goliardica dell’osteria al confine con la Lituania. Non c’è un’ iconografia classica in questo Boris visionario e inquietante: l’idea della Russia è data dalle croci ortodosse e dai costumi stilizzati ma subito riconoscibili per luogo e ambientazione.
Che sia Polonia ce lo dice l’improvviso aprirsi del sipario su tutt’altra scena, nella seconda parte dell’opera. Un regno quasi da operetta, con vaghi richiami al liberty: Marina veste di viola e verde smeraldo, Marina canta delle sue vanità in mezzo a una corte di dame come ballerine di fila, bionde e tutte uguali. Ironica parodia di un mondo che è l’antitesi di quello dominato da Boris Godunov. Il formicaio è coperto da un sipario leggerissimo e cangiante: dal viola al blu cupo al nero. Riflessi di luce smeraldina cadono su una scena che è sensuale e raffinata, con figure di donne che si muovono, lascive ombre cinesi, nelle gallerie di quello che era un formicaio e che ora è, pare, un posto di molli piaceri. Le stesse colonne-tendaggio saranno l’alcova di Dimitrij e di Marina, e gireranno vorticosamente su loro stesse come enormi dervisci danzanti.
Che sia la sala del Cremlino preposta al consiglio dei Bojari lo si capisce dalla pioggia di accette che cadono sulla parete di fondo e dalla luce rosso sangue che inonda la scena.
Che siamo alla fine della storia terrena dello Zar lo si capisce dall’arrivo del medesimo, scarmigliato, pallido. Un automa che ascolta voci incomprensibili a noi, stupefatti ascoltatori, ma che tormentano la sua mente ormai da tempo.
Mi sono chiesta se Ferruccio Furlanetto si sia valso dell’aiuto di qualche psichiatra per poter così bene interpretare, prima ancora che ben cantare, la parte di uno schizofrenico come, forse, la medicina moderna definirebbe oggi Boris Godunov. Una prestazione che non esito a definire superba: una grande voce al servizio di un grande interprete. Un carisma unico che ha fatto si che Furlanetto “fosse” veramente un uomo in preda a visioni, il tormento della mente che si ripercuote nei gesti, nelle posture, nei modi di fare ripetitivi, senza mai cadere in eccessi. Un grande attore che fa della misura interpretativa una sua prerogativa. Un grandissimo cantante che canta questa parte bella e scabra con una voce nel pieno della sua maturità, capace di pianissimo commoventi, di momenti di canto declamato che conservano un lirismo che non sfocia mai nel “parlato”. Un cantante-attore, prerogativa dei grandi Boris di riferimento: tenero e affettuoso padre con i figli, che chiede allo Zarevic di “studiare” (perché solo con lo studio uno Zar diventa grande); che si preoccupa per Ksenija, colomba adorata, già vedova prima di essere sposa. Un cantante attore che ha commosso nella scena della morte. Il suo addio alla vita è stato di un’intensità disarmante, particolarmente nel momento di fare le ultime raccomandazioni al figlio. Figlio che ha, di fronte alla percezione di una terribile realtà, la tipica reazione di un bambino: prende a pugni il padre morente, non vuole sentirlo parlare così, si tura le orecchie. Lo picchia con i piccoli pugni per difendersi dalla solitudine che incombe e poi, vinto dal suo dolore, si raggomitola in posizione fetale, le mani aperte serrate sugli occhi: non vuole vedere né sentire. Lascia il mondo orribile fuori dal suo io.
E Boris non muore in scena; lo Zar lascia il suo manto regale ( …ma quante affinità con Filippo II…) per terra e esce. Le civette onnipresenti, rapaci, ci si buttano sopra e lo mangiano.
Grazie a Bychkov, l’altro trionfatore della serata (ma non si dovrebbe parlare né di vinti né di vincitori, tanto di alto livello è risultata la prova di tutti gli artisti coinvolti), Furlanetto ha potuto dare corpo alla parola cantata grazie a una direzione serrata, ferrea nel mantenere strettissimo il legame tra palco e buca, e grazie al percettibile assoluto impegno di un’orchestra che ha dato il meglio di sé. Bychkov, anima russa dal gesto elegante, morbido e imperioso al contempo, sceglie la seconda versione “originale” del Boris, l’orchestrazione Musorgskij che, ricordiamo, vide la sua prima italiana nel 1940 proprio a Firenze, nel corso del 6° Maggio Musicale. Operazione oggi scontata, ma che allora fu di assoluta e coraggiosa innovazione L’avere fatto solo un intervallo ha consentito di mantenere una grande tensione emotiva per tutto il dipanarsi della vicenda, tenendo alto il livello dell’orchestra, non permettendole mai di ripiegarsi su se stessa: sempre a correre su un filo di lama. Una “lama”, peraltro, pulitissima e nitida in ogni suo settore.
Tra gli interpreti nessuno è stato inferiore a nessuno: da un grande Philip Langrigde, subdolo Suiskij, di grande impatto vocale e presenza scenica notevole, alla bella Marina di Julia Gertseva dalla bella voce, non scurissima. Il mezzosoprano e Valeri Alexeev hanno dato vita alla scena tra Rangoni a Marina ammantandola, complice una lussuriosa orchestra, di forte sensualità. Dahlberg è stato un Fedor commovente e buona è stata la prova di Varlaam e Pimen interpretati rispettivamente da Matorin e Vaneev. Altrettanto valida Ksenija, piccola ma limpida parte affidata a Julia Kleiter, così come il vigoroso Kerl come Grigorij. Non va dimenticato nessuno di questo cast così affiatato e, soprattutto, non va dimenticato il coro, forse il vero protagonista, nelle vesti del rassegnato popolo russo. Coro che, a parte una piccola opacità iniziale, si è distinto per l’ottima prova e la grande preparazione.
Indubbio che questa regia non abbia accontentato tutti: gli amanti del fasto della Russia degli zar sono rimasti delusi. Molti dissensi: la regia viene tacciata di essere troppo densa di simboli, non tutti perfettamente comprensibili. Di essere sovraffollata di movimenti e troppo concettuale. Io ho apprezzato molto questa simbologia: non importa se tutto sia comprensibile al primo impatto; trovo bello uno spettacolo che fa pensare e riflettere, che stimola all’approfondimento dell’opera vista. Che fa venir voglia di andare oltre la musica e sprofondare nella storia. Vero è che la musica di Musorgskij, così fine a se stessa nel suo voler raccontare luoghi e situazioni perfettamente riconoscibili, non ha bisogno di simbologie per potersi meglio raccontare. Vero è anche, però, che proprio per questa sua prerogativa gli eventuali elementi ritenuti di disturbo non siano tali, ma solo aggiunte visive per una maggior efficacia scenica.
Boris sarà a Firenze ancora per tre repliche, il mio consiglio è di non perderlo. E’ raro assistere ad un così bell’esempio di sinergie nello spettacolo operistico. E’ raro stare incollati alla poltroncina per più di tre ore e poter dire “ Peccato sia finito” .
Marilisa Lazzari