Attila | Enrico Iori |
Ezio | Roberto Servile |
Odabella | Hui He |
Foresto | Stefano Secco |
Uldino | Sang Jun Lee |
Leone | Mauro Corna |
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Direttore | Will Humburg |
Regia | Riccardo Canessa |
Scene e Costumi | Artemio Cabassi |
Maestro del Coro | Marco Faelli |
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Orchestra e Coro Della Fondazione Arturo Toscanini |
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Produzione Della Fondazione Arturo Toscanini |
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Busseto, Campo di S. Maria Degli Angeli |
“Urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine. E stragi e fuoco d’Attila è il gioco”. Raccontano, esaltate dalla presa di Aquileja, le barbare schiere del re degli Unni. Gioco d’ogni tiranno chiarirà nell’opera successiva Verdi, facendo dire a Lady Macbeth “Pien di misfatti è il calle della potenza”. Dato per sottinteso il contorno di infamie da cui ogni forma di potere assoluto non può prescindere, chi è il così detto “Flagello di Dio”?. L’argomento dell’opera deriva dalla “tragedia romantica” di Zacharias Werner “Attila, Köning der Hunnen” composta nel 1808. Nella stesura di tale lavoro, l’autore, animato da un forte spirito antinapoleonico, intendeva paragonare la tirannide di Attila a quella, a lui contemporanea, dell’imperatore francese. Gli studi approntati per la scrittura della tragedia portarono però alla luce un personaggio un po’ diverso da quello che si era aspettato. Un sovrano che diede leggi al suo popolo e seppe amministrare con qualche forma di giustizia. Ne uscì quindi la figura di un barbaro violento, primitivo ma onesto che soccombe alla corruzione politica del mondo occidentale. Il libretto, abbozzato da Solera e terminato da Piave per la sopravvenuta indisponibilità del primo, rispetta questa concezione del personaggio.
Tra i voltafaccia, e gli inganni di tutti coloro che lo circondano Attila non è capace di intrighi. Ha donato la sua spada a Odabella, per averne apprezzato il coraggio, ha risparmiato la vita a Foresto nonostante questo si fosse accusato del suo tentato avvelenamento, non ha considerato che Ezio, venuto a proporgli una alleanza politica spergiura avrebbe, al suo indignato rifiuto, congiurato con altri contro di lui.
Il carattere essenziale del protagonista è l'elemento che determina lo stile di questa produzione in cui tutte le componenti artistiche parlano lo stesso suggestivo linguaggio. A cominciare dal direttore Will Humburg, che non si ferma alla mera lettura ed esecuzione dello spartito, ma indaga sulle sue cause drammaturgiche, ottenendo da orchestra, coro e solisti una grandissima agilità espressiva e bellissimi colori. Teso e compatto il vigoroso preludio, scatenato il temporale sulla laguna - accentuato da lampi che illuminano gli alberi alle spalle del palcoscenico – poi il pianissimo del mormorio del mare che declina nella quiete dei suoni rarefatti dell’alba. Molto emozionante, inoltre, lo stretto legame tra azione e musica voluto dal direttore. Un esempio su tutti l’azione in cui Attila, spalle a Leone, si gira verso di lui nel tentativo di fermarlo, muovendosi al cenno della bacchetta che dà il via al tonante rimprovero del basso che interpreta il Papa.
La scena di Artemio Cabassi, delimitata da grandi teli di stile orientaleggiante, evoca un brullo accampamento che pochi elementi di volta in volta caratterizzano: il trono trafitto di lance di Attila, minacciosa presenza durante il duetto Odabella-Foresto, un’ara paleocristiana nella scena degli eremiti, l’arredo romano della tenda di Ezio, poche stuoie sulla nuda terra in quella nella quale Attila vive il suo incubo. Anche la regia di Riccardo Canessa, che progredisce fluida e senza intoppi, con effetti a volte quasi filmici, parla lo stesso linguaggio simbolico. La spada di Attila che i suoi guerrieri venerano come reliquia, osando a mala pena toccarla, viene inspiegabilmente donata ad una delle donne italiche che avrebbero dovuto essere messe a morte. Per la prima volta “gli eroi” non riescono a capire il loro re, che, dopo questo gesto, riceverà l’inviato di Roma, pur essendo in marcia contro il Campidoglio, e a Roma non entrerà, fermato da un vecchio imbelle e disarmato. Il culmine dell’emozione lo si raggiunge in questa bella scena. Al centro papa Leone nella nuvola bianco rosata dei costumi del suo seguito di vergini, di lato le tuniche scure degli Unni, che, vedono, sgomenti, Attila prostrarsi, fino all’annientamento, davanti a lui.
Attila è sempre più solo, lo capisce quando, dopo aver ricevuto ambigui segnali di pericolo dai suoi, scopre la congiura dei tre della lealtà dei quali si era fidato. Non saranno loro ad ucciderlo, ma lui stesso a decidere di morire. Senza preoccuparsi di chi lo ferirà si inginocchia e subisce il colpo: non i due uomini, ma la “sua” Odabella. Perché solo la sua propria spada poteva uccidere l’invincibile guerriero. La spada consegnata ad una donna ritenuta pari a lui per coraggio e lealtà, e che lui forse avrebbe potuto amare. Non c’è quindi rancore, ma qualcosa molto vicino alla serenità nel “Tu pure Odabella” che chiude la scena e l’opera.
Debuttanti nel ruolo tre dei quattro personaggi principali.
Piace l’Attila barbaro, violento, ma non selvaggio, di Enrico Iori, che cerca nell’espressività vocale i colori contrastati del suo personaggio. Bravo anche nella recitazione, aiutato in questo dall’avere una figura perfetta per il ruolo.
Il soprano cinese Hui He è una irruente Odabella. La bella e corposa voce non trova apparenti difficoltà nell’affrontare questa non facile partitura, tipica delle donne guerriere del primo Verdi. Cerca dolcezza ed abbandono nei rari momenti in cui la partitura lo richiede, ma rimane sempre la donna forte che le piace essere. La cosa non stona perché il personaggio ha una sua coerenza che si nota piacevolmente nella scena in cui Attila, a sorpresa, la dichiara sua sposa.
Lirico e intenso il Foresto del bravissimo Stefano Secco, il bel colore vocale, il fraseggio curatissimo ed espressivo hanno dato giusta evidenza ad un personaggio che, se affidato a tenori di minor valore, rischia di passare inosservato nell’economia dell’opera. Lui, nella vicenda, è un condottiero perdente, un amante abbandonato, un complice di avvelenatori. Però esce da queste situazioni ambigue con il coraggio della verità. Affronta Odabella con frasi di fuoco e si espone alla vendetta di Attila pur non essendo il diretto responsabile del tentato omicidio. Un tenore verdiano in nuce quindi. Secco non ne ha al momento il peso vocale, ma tutto il resto indiscutibilmente c’e ed è molto bene usato.
Il baritono Roberto Servile veterano del ruolo di Ezio, e l’unico vero antagonista del re degli Unni, in grado tra l’altro di guardarlo con superiorità, avendolo già in precedenza sconfitto. Bella e significativa la sua scena all’inizio del terzo atto, e ben cantata l’aria “Dagli immortali vertici”. Il fraseggio è scolpito, il timbro giustamente aulico. Mantiene però per tutta l’opera una certa rigidità interpretativa che finisce per appiattire il personaggio, togliendo colore all’interpretazione. Per cui non sempre riesce ad appropriarsi del peso drammaturgico che gli spetta. Non a caso nella seconda parte dell’opera, sia Attila che Ezio indossano mantelli dello stesso rosso: hanno pari dignità e questo in scena non lo si avverte.
Mauro Corna e Sang Jun Lee hanno dato corretta ed adeguata voce a Papa Leone e a Uldino, schiavo di Attila.
Duttile e preciso, attentissimo alle indicazioni del direttore, il Coro della Fondazione Toscanini.
Raffinatissimi, in perfetta sintonia con scene e regia, i costumi di Artemio Cabassi, che opportunamente ricorda che si è nel 453, lontani da Roma e nel campo di barbari che vengono da oriente portando con sé il bottino delle loro razzie. Bene illuminati dalle luci radenti di Fiammetta Baldiserri - bellissima a questo proposito la scena del temporale e l’alba che ne segue - hanno contribuito a creare momenti di grande suggestione.
Patrizia Monteverdi