Rigoletto | Alberto Gazale |
Il duca di Mantova | Stefan Pop |
Gilda | Lara Lagni |
Sparafucile | Abramo Rosalen |
Maddalena | Anastasia Boldyreva |
Giovanna | Laura Cherici |
Il conte di Monterone | Nicolò Ceriani |
Marullo | Abraham García Gonzáles |
Matteo Borsa | Rosolino Claudio Cardile |
Il conte di Ceprano | Simone Marchesini |
La contessa di Ceprano | Aloisa Aisemberg |
Un paggio | Chiara Notarnicola |
Un usciere di corte | Gianluca Monti |
Direttore | Matteo Beltrami |
Regia | Alessio Pizzech |
Scene | Davide Amadei |
Costumi | Carla Ricotti |
Luci | Claudio Schmid |
Ripresa luci | Daniele Naldi |
Movimenti coreografici | Isa Traversi |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna |
Quando nel 2016 il Rigoletto firmato da Alessio Pizzech (regia), Davide Amadei (scene), Carla Ricotti (costumi), Claudio Schmid (luci) e Isa Traversi (movimenti coreografici) comparve sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna le riserve espresse da pubblico e critica furono numerose. Io stesso, pur riconoscendo spunti interessanti avanzai qualche perplessità (vedi recensione). Adesso lo spettacolo viene ripreso e ripensato dallo stesso regista nella stagione in corso per poi essere portato in tournée nel prossimo giugno in Giappone. Questo riesame comporta un processo di revisione che porta a smussare gli spigoli e a mitigare alcune scelte particolarmente forti (e per qualcuno irritanti), forse per cercare di rendere il tutto digeribile anche al pubblico più tradizionalista, il quale non si scandalizza e alla fine applaude compatto, a differenza di quanto avvenne tre anni fa. Rigoletto non è più una drag queen ambigua e crudele che nelle mura domestiche si trasforma in un anonimo borghesuccio, però non torna nemmeno ad essere un gobbo deforme; la sua diversità e la sua solitudine rimangono così sospese in un limbo senza che si abbia del tutto contezza delle ragioni del suo dramma. Anche le donne oggetto di piacere nell’orgia della prima scena non sono più, come scrissi tre anni fa, manichini o bambole meccaniche con i meccanismi inceppati, che si muovono a scatti o si bloccano, con stampate sulle facce maschere fisse dallo sguardo immobile e dalle bocche spalancate a esprimere godimento o disperazione; opzione che rende meno forte il disprezzo del maschio per la donna ridotta a mero strumento atto a soddisfare le proprie voglie. Resta invece la casa delle bambole (spazio sospeso in cui la femminilità rimane trattenuta nel tentativo di relegare Gilda in un’eterna infanzia) che si dissesta al momento in cui la fanciulla viene rapita per essere violata; e resta il barcone attraccato in una zona degradata della città con l’immagine da film noir in cui scorgiamo la mano di Gilda che scivola lentamente su una vetrata in alto, dopo il ferimento. Ma l’idea iniziale, pur se in origine non del tutto risolta e convincente, perde adesso forza e tensione, lasciando nello spettatore più attento un che di incompiuto.
Peccato perché la direzione di Matteo Beltrami sarebbe stata molto più in sintonia con la regia così come era sta concepita in un primo momento, rispetto a quella piuttosto routinière che aveva accompagnato la nascita dello spettacolo. Il quarantatreenne maestro genovese sigla un Rigoletto di spiccata teatralità, teso e corrusco, ma non alieno da oasi di disteso lirismo. La lettura è integrale, fatta eccezione per la ripresa di Possente amor mi chiama, con compromessi tra edizione critica e tradizione. Le puntature non scritte sono concesse, ma il baritono protagonista rispetta la scrittura verdiana omettendo i due sol 3 su follia (al termine di Pari siamo) e a difende l’onor (in Cortigiani vil razza dannata).
Non ascoltavo Alberto Gazale da alcuni anni. Il timbro è quello di sempre, pieno e forse più brunito di un tempo. Ricordavo il baritono sardo come un musicista dal gusto piuttosto castigato, tendente a risolvere l’espressività sempre nella musica, nell’osseguio alla pagina scritta. Ho ritrovato invece un cantante (almeno stando alla sera del 19 marzo) che palesa una certa fatica nei passi di tessitura più acuta, con qualche concessione all’enfasi e, talvolta, ad un declamato che sconfina quasi nel parlato. Questo intervallato a momenti di fraseggio intenso, sempre sorretto da una presenza scenica autorevole e da doti attoriali di tutto rispetto.
Piuttosto deludente la Gilda di Lara Lagni, che mi aveva fatto ben sperare come Giulietta ne I Capuleti belliniani, sempre a Bologna lo scorso anno (vedi recensione). Ma la scrittura e soprattutto lo strumentale verdiano sono tutt’altra cosa e il giovanissimo soprano (appena ventitreenne) mostra qui alcune fragilità e anche qualche discontinuità che non erano emerse (o lo erano molto meno) nella precedente occasione di ascolto. Certo, il timbro è prezioso e personale e qua e là si intuisce anche qui quello a cui questa ragazza potrebbe aspirare, a patto di non fare passi falsi, valutando con oculatezza i ruoli ai quali accostarsi.
Il cantante più affidabile e sicuro risulta alla fine Stefan Pop, che in questa occasione si compiace meno del solito dell’impatto sonoro della sua voce e anzi tende con una certa frequenza a ricercare sottigliezze di fraseggio che finora non gli conoscevo. Inoltre in un ruolo pestifero come quello del Duca di Mantova sfoggia una fluidità di emissione e una sicurezza rimarchevoli, unite alla buona dizione, alla freschezza dello strumento e alla naturale spavalderia del porgere, benvenute in questo ruolo.
Non tonitruante, ma con tutte le note al loro posto, compreso il fa grave su Sparafucil, al termine del duetto del primo atto con Rigoletto, il basso Abramo Rosalen, efficace anche come presenza scenica.
La fisicità è la cosa che colpisce di più in Anastasia Boldyreva, una Maddalena assolutamente in grado di attirare tutti gli uomini che il fratello le chiede di circuire, ma risulta meno interessante dal punto di vista sonoro.
Nicolò Ceriani (Monterone) sfoggia una proiezione vocale di tutto rispetto, ma lo trovo decisamente più convincente nei ruoli brillanti, mentre qui tende a strafare andando sopra le righe.
Efficiente la Giovanna di Laura Cherici e appropriati il brillante Marullo di Abraham García Gonzáles, il fresco Matteo Borsa di Rosolino Claudio Cardile e il corretto Conte di Ceprano di Simone Marchesini.
Completavano il cast degnamente Aloisa Aisemberg (La contessa di Ceprano), Chiara Notarnicola (Paggio della Duchessa) e Gianluca Monti (Un usciere di corte).
Buona la prova dell’Orchestra e del Coro del Teatro Comunale, quest’ultimo diretto da Alberto Malazzi.
Applausi a scena aperta frequenti ma non molto prolungati e al termine buon successo per tutti.
La recensione si riferisce alla serata del 19 marzo 2019.
Silvano Capecchi