Attila | Ildebrando D'Arcangelo |
Ezio | Simone Piazzola |
Odabella | Maria Josè Siri |
Foresto | Fabio Sartori |
Uldino | Gianluca Floris |
Leone | Antonio Di Matteo |
Direttore | Michele Mariotti |
Regia | Daniele Abbado |
Scene e luci | Gianni Carluccio |
Costumi | Gianni Carluccio, Daniela Cernigliaro |
Movimenti scenici | Simona Bucci |
Regista collaboratore | Boris Stetka |
Orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna | |
Maestro del Coro | Andrea Faidutti |
Attila, all’interno della produzione verdiana, apre quella fase di rinnovamento non solo della musica, ma anche della concezione drammaturgica che porterà al primo Macbeth e da lì alle altre grandi opere, seguendo un esemplare percorso di maturazione creativa, nel quale ogni titolo è figlio del precedente e padre del successivo.
Attila è l’antesignano dell’ “eroe” verdiano: un uomo solo, nel bene e nel male, come saranno Macbeth, Simone, Rigoletto, Filippo II ed in definitiva Otello.
L’Unno è al contempo artefice e vittima del suo destino, lo plasma e ne paga le conseguenze estreme, ma è pur sempre un uomo, mosso dagli affetti, dall’amore per il suo popolo, dalla sete di potere, dal desiderio di gloria.
L’aggettivo inglese decent, nel quale sono riuniti in unico lemma le accezioni di onestà intellettuale e rigore morale offre la miglior definizione della natura del re degli Unni.
Attila è profondamente decent, conscio dei suoi limiti ma al contempo fiero dei suoi pregi; a far la differenza sono coloro che gravitano nella sua sfera d’azione. Ezio divorato da un’ambizione personale prima che dall’amor di patria, Odabella rosa dal desiderio di vendetta, Foresto nobile gregario, Papa Leone incarnazione di un potere “altro”. Alla fine del dramma Attila, inevitabilmente, si offre alla morte per mano di Odabella in quanto essa gli appare come l’unica, inevitabile scelta: il suo mondo svanisce con lui.
La produzione che inaugura la Stagione 2016 del Teatro Comunale di Bologna appare bifronte: ad un’esecuzione musicale di altissimo livello si contrappone una parte visiva di rara insipidezza.
Michele Mariotti, alla testa di un’orchestra che sembra respirare con lui, offre una lettura di Attila proiettata nel Verdi che verrà, depurata da qualsiasi impeto patriottardo, volta alla ricerca di una dimensione intimista nella quale i sentimenti dei singoli prevalgono su tutto. I tempi sostenuti che Mariotti sceglie si stemperano in dolcezze melodiche ed intuizioni ritmiche che mettono in risalto preziosità della partitura dimenticate, o peggio spesso trascurate, e che qui tornano a splendere. Le dinamiche incalzanti delle scene d’insieme lasciano il posto a spunti di sublime introspezione nelle arie e nei duetti.
In perfetta intesa col direttore Ildebrando D’Arcangelo disegna un Attila umanissimo, conoscitore della natura umana, vittima del suo stesso modo di concepire la vita ed i rapporti col mondo. La voce corre sicura su di una linea di canto di bella uniformità, piegandosi duttile alla melodia e rendendo pienamente il dettato verdiano.
Odabella è ruolo da far tremare le vene ai polsi, tanti sono gli sbalzi di tessitura e la potenza di emissione richiesti. Maria Joè Siri si dimostra padrona della situazione e, seppure l’ottava grave non sia pienamente timbrata, risolve tutto con gusto ed intelligenza, evidenziando gli aspetti più intimamente meditativi del personaggio e padroneggiando con sicurezza centri ed acuti.
Ottimo l’Ezio nobilmente sdegnoso di Simone Piazzola, protagonista di una prova impeccabile per gusto nel fraseggio e ricchezza di accenti, oltreché matura dal punto di vista squisitamente vocale.
Fabio Sartori conferma ancora una volta di avere il ruolo di Foresto “under his skin”, vivendolo intensamente e arricchendolo di belle pennellate di colore, forte di uno strumento vocale morbido nell’ottava centrale e svettante in acuto.
Molto buona la prova di Antonio Di Matteo, Papa Leone possente nella cavata grave e dal fraseggiare ieratico.
Corretto ci sembra l’Uldino di Gianluca Floris.
Il coro, preparato da Andrea Faidutti, canta decisamente bene e con bella uniformità tra le varie sezioni.
La regia di Daniele Abbado si distingue per la sua tediosa staticità. Nello spazio ferrigno creato da Gianni Carluccio, al quale va ascritto anche il disegno delle luci, non succede praticamente nulla: il coro avanza quasi sempre dal fondo, granitico come gli stravisti proletari di Pellizza Da Volpedo, e l’interazione tra i personaggi si rifà ad una gestualità datata e polverosa. In scena corpi decapitati e una specie di sciamano che sembra tracciare nella polvere rune varie. Discutibile anche l’idea di Attila appeso per i polsi prima di essere trafitto da Odabella, così come nella prima scena egli stesso aveva fatto appendere alcuni prigionieri: chi di spada ferisce…? Per il resto è tutto un “tele su, tele giù”, compresa quella nera che cala ad ogni cambio di scena, spezzettando l’azione.
I costumi, di Daniela Cernigliaro e dello stesso Carluccio, richiamano realtà varie ed epoche storiche differenti: se Attila sembra un incrocio tra un unno e un talebano, Ezio, con trench e baschetto, potrebbe richiamarsi a qualsiasi esercito occidentale dei giorni nostri. Ciò che rimane resta sul vago, tanto per non sbagliare.
Successo pieno e meritatissimo, con ovazioni prolungate per la compagnia di canto e per il direttore; applausi cordiali per gli altri.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 23 gennaio 2016
Alessandro Cammarano