Soprano | Jessica Pratt |
Direttore | Hirofumi Yoshida |
Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna | |
V. Bellini | I PURITANI O rendetemi la speme... Qui la voce... Vien diletto |
V. Bellini | I CAPULETI E I MONTECCHI Eccomi in lieta vesta... O quante volte |
G. Donizetti | LUCIA DI LAMMERMOOR Il dolce suono... Ardon gl'incensi... Spargi d'amaro pianto |
Bis: | |
G. Donizetti | LINDA DI CHAMOUNIX Ah! tardai troppo... O luce di quest'anima |
G. Verdi | LA TRAVIATA È strano... Ah! forse è lui... Follie! (con Michael Spyres) |
L. Bernstein | CANDIDE Glitter and be gay |
L. van Beethoven | SINFONIA n. 7 in La maggiore op. 92 |
Il Teatro Comunale di Bologna, a causa dell’emergenza sanitaria tuttora in corso, si è visto costretto a ricercare una sede alternativa per continuare a svolgere la programmazione, visto che quella ordinaria, a causa delle restrizioni che obbligano le istituzioni teatrali al distanziamento degli spettatori, non garantiva una congrua capienza. Si è dunque ripiegato sul PalaDozza, impianto sportivo polivalente e forma di arena che può ospitare oltre cinquemila persone, che divengono un migliaio per le norme anti-Covid. Se dunque l’ampiezza era più che sufficiente, il problema maggiore era quello di garantire un’acustica accettabile, dato che si tratta di un ambiente nato per tutt’altra destinazione. Si è dovuto pertanto ricorrere ad un impianto di diffusione e amplificazione del suono per rendere fruibile l’ascolto. I risultati si possono definire soddisfacenti? La sera del 28 settembre i posti destinati alla stampa erano assegnati nella parte più alta delle gradinate, dove di solito i cronisti seguono le manifestazioni sportive per avere una visione d’insieme completa. Diverso è l’impatto per l’ascoltatore di un concerto di musica classica, che a quella distanza riceve un effetto straniante dell’evento in corso, non potendo seguire agevolmente la mimica del cantante o la gestualità del direttore, soprattutto per chi, non più nel fiore dell’età, non ha lo sguardo di lince di una ventina di anni prima. Ma la cosa più importante era che in quella posizione il suono arrivava abbastanza confuso ed eccessivamente riverberato, soprattutto per quanto riguardava la voce della solista.
Jessica Pratt dispone di uno strumento non particolarmente nutrito nella prima ottava, ma che diventa sempre più vibrante via via che la linea vocale si alza. E l’altra sera in qualche acuto e sopracuto si aveva addirittura l’effetto di un suono quasi saturo, segno inequivocabile del fatto che l’impianto abbia necessità di una ulteriore messa a punto; anche se le cose vanno meglio nelle pagine dove agisce la sola orchestra. Poi a distanza di 24 ore ho potuto testare l’acustica dalla platea e devo dire che l’effetto era molto più gradevole, pur se non del tutto soddisfacente.Ma di questo parlerò nella recensione dell’Elisir d’amore. E passiamo adesso a parlare del concerto, al giudizio del quale bisogna fare la tara a causa delle limitazioni sopra accennate.
Jessica Pratt, si presentava con un ampio abito blu con lustrini che riecheggiava, in versione più aggiornata e sobria, la famosa veste verde ramarro della Sutherland, vista in tanti concerti e fin da subito si notavano un dominio del palcoscenico, una presenza autorevole, direi un carisma, che se non le erano del tutto sconosciuti certo balzavano meno in evidenza fino a qualche tempo fa. Si iniziava con la pazzia di Elvira da I Puritani di Vincenzo Bellini, eseguita con classe, espressività, ma non con la consueta precisione e convinzione, quasi che la cantante dovesse ancora prendere confidenza con il nuovo spazio. Ma già dal brano successivo, l’aria di ingresso di Giulietta da I Capuleti e i Montecchi di Bellini, il soprano anglo-australiano si imponeva per l’intensità del fraseggio, il legato, il dominio assoluto della linea di canto e delle dinamiche, di una ricchezza al limite del virtuosismo. Il recitativo era mosso, percorso da fremiti, per poi distendersi nel cullante abbandono del cantabile. E gli applausi cominciavano ad assumere già l’intensità del trionfo. Seguiva la pazzia di Lucia di Lammermoor, probabilmente il ruolo più eseguito e sicuramente quello che l’ha imposta all’attenzione dei maggiori teatri europei e non. Realizzata non solo impeccabilmente, ma addirittura con sfrontatezza nel giocare con le difficoltà della pagina, resa quasi sempre con variazioni e cadenza che si rifanno alla più consueta tradizione. Successo travolgente con richieste di bis che non tardavano e venire.
E qui la Pratt si scatenava dando il via alle danze con l’entrata della protagonista dalla Linda di Chamounix di Gaetano Donizetti, con tutto il corredo della virtuosa, forse fin troppo ostentato per il carattere della pagina. Ma eravamo in concerto e per di più ai bis, quindi la concessione alla vociomania più sfrenata era più che perdonata, tanto più che il risultato era davvero fuori del comune. Semmai tenderei a rimproverare all’artista la tendenza un po’ fine a se stessa di infarcire di “ultrasuoni” (fino al fa sopracuto) momenti musicali che poco li richiederebbero, con puntature spericolate ma non sempre opportune (Linda di Chamounix) o riuscitissime (Candide). Comunque altra clamorosa ovazione e si passa alla grande scena di Violetta che chiude il primo atto della Traviata verdiana, ruolo già cantato e che la Pratt riprenderà a Napoli nella prossima stagione. Colpiva, oltre alla capacità di dominare pressoché senza colpo ferire la pestifera scrittura, la resa espressiva della pagina che delineava una donna fragile ma appassionata, una giovane assetata di vita che vuole rimuovere gli inquietanti segni di un oscuro futuro stordendosi e gettandosi nel vorticoso valzer che chiude la scena. E arrivati al valzer, una sorpresa. Quando deve intervenire Alfredo fuori scena si concretizzava un tenore la cui voce mi ha fatto drizzare le orecchie; quel timbro non mi era nuovo ma non riuscivo a inquadrarlo (e men che meno potevo definirne la fisionomia a causa di quanto ho detto sopra riguardo allo smarrito occhio di lince). Si è scoperto poi che si trattava niente meno che di Michael Spyres, presente in platea. La prima parte del concerto si concludeva trionfalmente con l’aria di Cunegonde dal Candide di Leonard Bernstein, Glitter and be gay. Qui Jessica Pratt sfoggiava, oltre al consueto virtuosismo, una vis comica irresistibile, pur se non troppo esibita, condita da deliziosi tocchi surreali.
Il direttore Hirofumi Yoshida, alla guida della sua Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna (in clima un po’ dopolavoristico), accompagnava la cantante con burocratica accuratezza.
Decisamente meno eccitante la seconda parte della serata, che prevedeva l’esecuzione di uno dei capisaldi del repertorio concertistico, la Sinfonia n. 7 in la maggiore, op. 92 di Ludwig van Beethoven. Certamente l’orchestra era più concentrata e il maestro giapponese appariva assai più coinvolto, ma delle caratteristiche del brano risultava più in primo piano l’equilibrio formale che l’energia che lo pervade. Ne è scaturita una Settima corretta e ben bilanciata ma carente quanto a tensione espressiva e ampiezza di respiro, oltre che con dinamiche piuttosto appiattite (ma questo potrebbe essere anche uno scherzo dell’acustica).
Anche quest’ultima prova ha riscosso un’accoglienza molto calorosa da parte del pubblico presente, benché lontana dall’entusiasmo riservato alla Pratt, la quale è stata costretta addirittura a raddoppiare il programma iniziale, tanto insistenti erano le grida di approvazione e le richieste di bis.
La recensione si riferisce alla serata del 28 settembre 2020.
Silvano Capecchi