Lo stesso mare | |
su libretto di Amos Oz | |
tratto dall’omonimo romanzo | |
Narratore 1 | Sandro Lombardi |
Narratore 2 | Giovanna Bozzolo |
Narratore 3 | Graziano Piazza |
Albert | Julian Tovey |
Bettin | Chiara Taigi |
Nadia | Sabina Macculi |
Miriam | Giovanna Lanza |
Ghighi | Stefano Pisani |
Dobi | Danilo Formaggia |
Rico | Alessandro Castellucci |
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Direttore | Alberto Veronesi |
Regia | Federico Tiezzi |
Scene | Gae Aulenti |
Assistente alla regia | Giovanni Candella |
Assistente per la drammaturgia | Fabrizio Sinisi |
Assistenti scenografo | Greta Podestà/Nina Artioli |
Costumi | Giovanna Buzzi |
Liht design | Gianni Pollini |
Videoproiezioni | Antonio Giacomin |
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Orchestra della Fondazione Petruzzelli |
La nuova opera di Fabio Vacchi, Lo stesso mare, tratta dall’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Amos Oz, ha esordito ieri sera al Petruzzelli di Bari con esiti più che mai gratificanti sia per gli autori sia per il teatro che ne ha curato la première. Soddisfazione maggiore soprattutto se si considera che, per oltre mezzo secolo, al pubblico della città levantina è sempre stato negato ogni approccio al teatro musicale contemporaneo trincerandosi dietro ragioni di un’apparente difficoltà di decodificazione dei codici linguistici e di nessun ritorno in termini economici. Se si eccettua l’esperimento della stravinskiana Carriera di un libertino (1982), della Maria Golovin di Menotti (1985), bisognerà attendere il nuovo secolo per veder approdare, sulle scene del Piccinni prima e del rinato Petruzzelli dopo, due titoli novecenteschi del teatro britteniano quali The Turnes of the screw(2008) e A Midsummer Night’s Dream (2009), insufficienti per colmare il gap repertoriale accumulatosi per più di un secolo di stagioni liriche. E in effetti da troppo tempo si aspetta di poter assistere in questo teatro ad alcuni capisaldi teatrali del ‘900 quali il Pelléas et Mélisande di Debussy, il Wozzeck e la Lulu di Alban Berg, il Moses und Aron di Schömberg.
Ma torniamo a Lo stesso mare peril quale è stata predisposta una macchina organizzativa mediatica che ha, forse, un solo precedente a Bari, per limitarci al mondo dell’opera, quando vennero restituiti al pubblico degli appassionati e degli studiosi i belliniani Puritani nellaversione Malibran.
Ecco dunque che il “nuovo” pubblico barese, quello formatosi negli anni del post-incendio petruzzelliano, ha vissuto l’incontro con il mondo dell’opera di Vacchi con la consapevolezza di un qualcosa che lo legasse al proprio vissuto e a tematiche attuali.
Lui ricambia tanta generosa attenzione con una storia affatto chiara e filata che sviluppa in tre atti-stagione in cui tre attori-narratori (il primo impegnato a raccontare i fatti, il secondo ad esprimere le sensazioni tra poesia e musica, il terzo che si identifica con Oz, personaggio del romanzo e dell’opera in veste di autore) legano i propri interventi alle voci dei protagonisti di una famiglia disgregata che vive la propria quotidianità anche erotico-sentimentale in un condominio di una moderna località israeliana in piena era multimediale. Il tutto legato da un filo conduttore che unisce le loro esistenze e solitudini: il mare, “Lo stesso mare” del titolo. Queste voci recitanti non si limitano a tracciare il divenire dell’azione, ma si scambiano con la musica il compito di approfondire le psicologie, di suggerire le emozioni, di esplorare i sentimenti, i pensieri più reconditi. Vacchi utilizza una scrittura che esalta la psicologia dei personaggi attraverso toni ora tesi e vibranti (pochi) ora simbolico-evocativi (molti), utilizzando perfino antiche melodie mediorientali (sefardite) attraverso una vocalità di tipo naturalistico che resta però fissa su un’espressività malinconica e un poco uniforme. L’orchestra, alla quale sono riservate le pagine più interessanti, è elemento autonomo della narrazione, senza essere dialogante né col canto né con la recitazione. Quando però il suono tende a farsi rarefatto, ridotto a puro grafismo, la musica assume quasi funzione di languida memoria nello spettatore il quale percepisce che si sta per determinare un climax offerto dal Magnificat conclusivo, pagina che diventa più che mai appagante sul piano della percezione sensoriale.
Lo spettacolo è rimarchevole, costruito in perfetta unità d’intenti sia dal punto di vista registico (Federico Tiezzi) il quale punta molto sul piano della multimedialità per favorire la comprensibilità narrativa di per sé frammentaria, sia delle scene (Gae Aulenti) le qualiriproducono la verticalità di un condominio fatto di scale, di piani, mentre sullo sfondo si delineano i luoghi simbolici del romanzo di Oz: il mare di un azzurro intenso, il deserto dorato che nel terzo atto si trasforma in un giardino nel quale, alla fine dell’opera, fioriscono e si consolidano i rapporti umani.
Buona la prova dell’orchestra della Fondazione Petruzzelli guidata con gesto sicuro e attenzione alle dinamiche da Alberto Veronesi, nominato di recente direttore stabile, riuscendo a dipanare i fili di una partitura complessa che si sviluppa su vari piani di percezione auditiva, sensoriale e narrativa. Bravissimi tutti gli interpreti con particolare evidenza per i soprani Chiara Taigi e Yulia Aleksyuk e il tenore Danilo Formaggia.
Straordinario l’apporto fonico-espressivo delle tre voci recitanti (Sandro Lombardi, Giovanna Bozzoli, Graziano Piazza).
Successo schietto alla fine per tutti, in particolare per Fabio Vacchi e Amos Oz acclamati alla ribalta insieme a tutti gli artefici dello spettacolo.
Dino Foresio