Il Conte di Luna | Ernesto Petti |
Leonora | Maria Pia Piscitelli |
Azucena | Milijana Nikolic |
Manrico | Amadi Lagha |
Ferrando | Alessandro Spina |
Ines | Elisabetta Farris |
Ruiz | Blagoj Nacoski |
Un vecchio zingaro | Dario Lattanzio |
Un messo | Raffaele Pastore |
Direttore | Renato Palumbo |
Regia | Joseph Franconi Lee |
Scene | Tito Varisco |
Costumi | Pasquale Grossi |
Luci | Claudio Schmid |
Coreografia | Francesco Annarumma |
Maestro del Coro | Fabrizio Cassi |
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli |
Analogamente a quanto fatto per il Nabucco andato in scena circa due anni fa, per il secondo titolo della stagione 2018 la direzione artistica del Teatro Petruzzelli ha deciso di ricostruire un allestimento “storico” da vecchi bozzetti di scena, in questo caso quelli creati dall’architetto Tito Varisco per un’edizione del 1981 sempre al Petruzzelli e realizzati dai laboratori milanesi Sormani Cardaropoli.
Artista a tutto tondo, che spaziava dall’architettura d’interni a quella d’esterni e al design, e successivamente alla scenografia teatrale (fu anche direttore degli allestimenti scenici della Scala), Varisco viene anche ricordato per essere l’autore della composizione geometrica che, scorrendo sotto un cielo nuvoloso e con la riduzione orchestrale del finale del Guglielmo Tell di Rossini, apriva le trasmissioni della Rai.
Le scene ricostruite per l’occasione in stile moresco sono ulteriormente valorizzate dall’ottimo disegno luci di Claudio Schmid, particolarmente efficace soprattutto negli accampamenti degli zingari e in quelli dei soldati del Conte, nei quali il senso di spazialità di tende e montagne sulle tele dipinte è molto ben reso. Di bell’effetto anche la cappella di Castellor e il carcere, mentre più di una perplessità hanno suscitato la grande tela dipinta che rappresenta i giardini del primo atto, di fattura un po’ troppo semplice, e la rappresentazione del convento, con un telo azzurrino sullo sfondo puntellato da grandi steli di fiori che facevano più pensare all’harem di Bassa Selim nel Ratto dal Serraglio di strelheriana memoria.
Punto debolissimo di queste scene, inoltre, l’essere state concepite per un palcoscenico di quasi quarant’anni fa e quindi con la necessità di essere smontate e rimontate a mano, nonostante le possibilità tecnologiche di cui dispone oggi il Petruzzelli. Pur con tutta la buona volontà dei solerti tecnici di palco,questa situazione ha comportato continue sospensioni per i cambi scena, con il pubblico che rumoreggiava spazientito tanto che in un'occasione il direttore d’orchestra si è girato stizzito per chiedere silenzio prima della ripresa della musica. La regia di Joseph Franconi Lee si è innestata in modo sostanzialmente innocuo, con regolari entrate e uscite da destra a sinistra e viceversa, gli uomini da una parte le donne dall’altra spade al cielo o mani sul cuore, non priva però di una certa eleganza complessiva data dal sicuro mestiere del regista italo americano (magari si sarebbe potuta evitare una scena di lotta fra soldati sotto un turbinio di bandiere durante Squilli, echeggi). Molto curati i costumi di foggia metà ottocentesca a cura di Pasquale Grossi.
Renato Palumbo dirige con mano esperta e tempi tendenzialmente serrati, evitando in maniera decisa quei tiramolla di tradizione che spesso affliggono il terzetto finale del primo atto o l’aria del Conte, anche se questo ha portato a volte ad una certa metronomicità di fondo come in Vedi! le fosche notturne spoglie o nel finale dell’opera, dove un maggior abbandono melodico non avrebbe guastato. Il direttore trova comunque il giusto colore “notturno” nei preludi e nei momenti più lirici affidati a fagotti e clarinetti, grazie anche all’ottima resa dell’Orchestra del Petruzzelli, precisa e compatta in tutte le sezioni. Molto bene anche il controllo del palcoscenico, con il quale il direttore riesce a gestire al meglio uno sfasamento ritmico con il baritono nel duetto Mira d’acerbe lagrime. Esecuzione praticamente integrale, con tutti i tagli di tradizione riaperti e le cabalette eseguite due volte (unica eccezione Tu vedrai che amore in terra).
Al di là del summenzionato incidente, Ernesto Petti ha fatto mostra di una bella vocalità ampia e brunita e di un ottimo controllo del fiato, che gli ha consentito una buonissima esecuzione della temibile aria del Balen con il suo campionario di suoni legati, forcelle e diminuendi. Il baritono salernitano è risultato appropriato anche nei passi più arroventati, grazie a una dizione scandita che gli ha anche permesso di variare con l’accento la ripresa della cabaletta Per me ora fatale (la famosa parola scenica verdiana, della quale tutto sommato sembra non si sia persa così traccia…). Per un debutto nel ruolo non si può che esserne soddisfatti.
Con un timbro tendenzialmente scuro e una voce rigogliosa nel registro medio-acuto, Maria Pia Piscitelli disegna una Leonora carnale e volitiva fin dalle prime frasi, a proprio agio tanto nei passi più lirici quanto in quelli di più scoperta agilità. L’artista di esperienza, poi, si rivela nella valorizzazione dei punti meno “attesi” della partitura, come la frase O dolci amiche, un riso, una speranza, un fior, la terra non ha per me! nella scena del convento, cantata con ammirevole partecipazione. Leggermente meno a fuoco è sembrata nella grande aria del quarto atto, dove pure ha eseguito piano il do della cadenza, riprendendosi però subito dopo con un’esecuzione di Mira d’acerbe lagrime trascinante per la forza dell’accento.
Il Manrico di Amadi Lagha ha beneficiato di un registro acuto squillante e sicuro, che ha avuto modo di esprimersi non solo nei do della Pira ma anche nel rebemolle con il soprano alla fine del primo atto; un po’ stimbrato è apparso invece il registro centrale, cosa che spiccava di più negli andanti e segnatamente in Mal reggendo e Ah si ben mio, laddove nei passi più concitati l’ottima dizione e una buona musicalità si sono fatte valere nel rendere la giovanile baldanza del personaggio. Onore al merito per aver cantato la Pira in tono, due volte e con tutte le frasi sotto ai pertichini del coro prima del do finale, reggendo bene lo stacco rapinoso impresso dal direttore.
Non bene invece l’Azucena di Milijana Nikolic, affetta dai tipici vizi di canto aperto e disomogeneità nei registri che si ritrovano in tanti cantanti di area slava, e senza nemmeno avere un gran volume e spiccate doti d’interprete. Se aggiungiamo la dizione fumosa e un registro acuto ai limiti (omette saggiamente il do in Tu la spremi dal mio cor e azzecca per il rotto della cuffia il si bemolle finale di Sei vendicata o madre) la sua prova non può che essere considerata largamente insufficiente.
Alessandro Spina è un Ferrando di timbro forse un po’ chiaro, ma di fraseggio e dizione ragguardevoli, oltre che precisissimo nel cantare le difficili quartine di semicrome dell’impegnativa scena iniziale. Molto bene i personaggi secondari, la Ines di Elisabetta Farris, il Ruiz di Blagoj Nacoski, il Vecchio Zingaro di Dario Lattanzio e il Messo di Raffaele Pastore, tutte voci sicure e intonate come dovrebbe essere la regola.
Coro in gran spolvero, che ha avuto modo di mettersi in mostra tanto nella baldanza di Squilli, echeggi la tromba guerriera che nell’intimismo del Miserere.
Il pubblico ha riempito la vasta sala in ogni ordine di posti, e non si può che esserne lieti; un po’ meno per il vasto campionario di colpi di tosse, borbottii, e squilli di cellulare, favoriti anche dai citati e lunghi cambi scena.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 24 febbraio 2018.
Domenico Ciccone